Duecento anni fa, il poeta e scrittore Alessandro Manzoni, venuto a sapere della morte del condottiero ed ex imperatore Napoleone Bonaparte, avvenuta il 5 maggio 1821 nell’esilio atlantico di Sant’Elena, scrisse una delle più famose odi italiane. Manzoni redasse l’opera nel luglio dello stesso anno, colpito dalla scomparsa dell’uomo che aveva incontrato a Milano anni prima, quand’era solo un ragazzo, e che gli aveva trasmesso l’energia di una persona non comune. E probabilmente ritenne non comune la fine di Bonaparte, esiliato e solo, ma comunque protagonista di una conversione religiosa che colpì Manzoni, anch’egli trovatosi a comprendere il senso religioso attraverso un profondo cammino interiore.

Probabilmente fu per questo che decise di dedicare a Napoleone un’ode, poco apprezzata dalla censura austriaca alla quale la sottopose e che, per non dare troppo risalto al vecchio nemico, non approvò. Il censore ebbe il riguardo di comunicarlo di persona allo scrittore, consigliandogli di ritirare la richiesta autorizzativa, ma egli ne aveva comunque tenuta una copia e un’altra prese ad essere copiata e diffusa, tanto da diventare presto celebre. Goethe ne venne in possesso e la tradusse in tedesco, ad esempio.

La versione dell’ode Il cinque maggio non fu subito definitiva, ma è celeberrimo il suo inizio: “Ei fu”. Ad indicare non solo la morte di Bonaparte ma, con il fu, l’affermazione che l’epopea napoleonica era conclusa, e da tempo, che la sua parabola era finita e che di lui non si parla nell’ode in termini presenti, attuali. Era, non c’era più. Un passato remoto che segna la fine degli esseri umani per i quali non c’era più storia, malgrado fossero stati grandi. È come porre l’accento su un capitolo chiuso del quale rimaneva l’afflato, il senso profondo dell’esistere.

Infatti, il mondo intero era attonito per la sua scomparsa: uno degli uomini più potenti del mondo, che era sembrato eterno, ora non c’era, malgrado le sue grandi gesta e le sue memorabili vittorie. Tanto potente da essere abbandonato quando non era più conveniente credervi, come se tutta la sua capacità fosse stata nulla. Del resto, per il cattolico Manzoni, la vera gloria non sta tanto nelle conquiste materiali, quanto nella conquista personale, nel trovare la propria strada. E allora ecco che, se i posteri avessero giudicato se la sua fosse stata vera gloria, l’aver acquisito la propria anima al termine dei propri giorni era vera gloria sua e di Dio che aveva operato la conversione in lui.

Al di là delle sue imprese, Napoleone aveva diffuso una rivoluzione in Europa dalla quale non si era più potuto tornare indietro, e come tutti i grandi eroi era stato amato e odiato; era stato alle stelle e poi incarcerato, solo, a meditare su se stesso. La sua statura morale veniva meno, quando costretto a restare inerte, lui sempre così operoso e attivo? La sua personalità era davvero stata sconfitta, oppure aveva avuto la possibilità di riposare le sue gesta e di trovare, così, la fede? I famosi 108 versi in strofe da sei settenari rimati, alla fine indugiano su un uomo che si china davanti alla sua fine alla quale non si presenta tronfio di vittorie. E Manzoni lo vede accettarla come una fine degna, proprio perché toccata dalla mano divina.

Napoleone fu trasferito a Sant’Elena con un piccolo gruppo di fedelissimi. Sull’isola, possedimento britannico, aveva libertà di movimento, ma era costantemente sorvegliato da militari inglesi. Probabilmente il clima a lui poco favorevole, e le condizioni di fatto carcerarie, acutizzarono i suoi problemi allo stomaco che lo portarono alla morte per un tumore, come venne accertato dall’autopsia che cercò di allontanare i sospetti di avvelenamento che erano circolati. Sepolto a Sant’Elena, le spoglie mortali di Napoleone vennero traslate in Francia soltanto nel 1840, quando vennero organizzati solenni funerali che le portarono in una cripta nella chiesa di Saint-Louis dei Invalides, a Parigi.