Nel 2020 due famosi grani antichi hanno fatto il compleanno: l’Ardito ha compiuto 100 anni e il Senatore Cappelli ne ha compiuti 105. I Greci e i Romani offrivano farro agli Dei, gli Aztechi consideravano i semi di chia dei degni omaggi, e del farro parla anche l’Antico Testamento. Oggi circa il 70% delle terre coltivate è destinato alla produzione di cereali, soprattutto grano, orzo, segale, riso, miglio, sorgo e mais.

Nessun’altra pianta ha influenzato la storia dell’umanità quanto il grano, la cui coltivazione si può far risalire a 12000 anni fa nella Mezzaluna fertile, quella zona del Medio Oriente che si estende dall’Egitto al Golfo Persico. Risale a 9000 anni fa l’inizio di una selezione consapevole dei cereali che favoriva quelli con uno stelo più forte nel processo di “domesticazone” del Triticum. La specie più antica di farro è il Triticum monococcum, una pianta della famiglia delle graminacee, risale a 10000 anni fa e ha una struttura genetica semplice; il Triticum dicoccum, oggi usato solo in alcune zone della Toscana, era coltivato dagli antichi Romani; il Triticum durum deriva da una mutazione genetica ed è usato per la manifattura della pasta; il farro spelta è un’ulteriore variazione ottenuta dall’incrocio con un grano spontaneo; il Triticum aestivum ha diverse varietà ed è il più giovane dei grani antichi.

Ma cosa significa grano antico? Queste parole romantiche portano alla mente gli antichi Egizi e gli Ebrei che sono stati riconosciuti come gli inventori del lievito e della preparazione del pane circa 4000 anni prima di Cristo anche se in effetti sono stati i Greci che hanno creato l’arte bianca, l’hanno esportata in Sicilia e da lì a Roma. L’arte della preparazione del pane era così importante che la produzione del pane sottostava alla giurisdizione di un magistrato e il prezzo del pane era controllato.

I grani antichi, tuttavia, non si riferiscono solo al passato lontano ma anche al grande spartiacque che fu la cosiddetta rivoluzione verde della metà del ventesimo secolo quando, per ridurre la fame nel mondo, si usarono diverse tecniche – irradiazione con raggi X, gamma, ultravioletti – e prodotti – fertilizzanti chimici – per produrre specie che potessero avere una maggiore resa. I grani antichi sono, quindi, quei cereali, alcuni dei quali risalenti agli anni ’30 del XX secolo, accomunati dalla caratteristica di essere rimasti originali e derivanti dalla biodiversità allora esistente.

In Italia ci sono quasi trecento tipi di grani antichi dei quali i più conosciuti sono Senatore Cappelli (che ha appena compiuto 105 anni), Biancolilla, Etrusco, Frassineto, Madonita, Maiorca, Perciasacchi, Rieti, Russello, Timilia o Tumminia, Verna, fra i tanti. Dalle origini dell’agricoltura, l’uomo ha sempre cercato di migliorare le coltivazioni. I criteri usati a tale scopo erano molto semplici: produttività e sapore. Con l’industrializzazione i criteri sono cambiati: mentre la produttività è rimasta importante, il sapore è stato sostituito dal requisito della resistenza alle lavorazioni e trasformazioni industriali.

I grani moderni hanno un più alto indice di glutine e permettono impasti più elastici che non solo permettono una più lunga conservazione della pasta ma le permettono una migliore resistenza ai cambiamenti estremi di temperatura: per fare un esempio, il tempo di asciugatura della pasta è passato da 24 ore alla temperatura di 30-40 gradi Celsius a 2-3 ore alla temperatura di 120 gradi Celsius. Il problema del glutine nei grani moderni, tuttavia, non è la percentuale di presenza ma la sua forza: mentre nei grani antichi aveva una forza di 40-80W, nei grani moderni raggiunge i 350W che lo rendono più infiammatorio di quello più antico.

In Italia, le prime specie di grani moderni sono state Castelfusano, Castelporziano e, negli anni ’70, il Creso. Fino a pochi anni fa, i grani antichi sono stati messi da parte preferendo i grani moderni più produttivi. Secondo la FAO, il 70% delle varietà di piante sono state perse e il 60% del cibo mondiale si basa su 3 cereali: grano, riso e mais; di questi, sono coltivate solo alcune varietà ibride create dall’uomo perché hanno maggiore resa (40-50 quintali per ettaro invece di 20 quintali per ettaro) e sono più resistenti grazie alla loro “nanizzazione” che evita l’allettamento e permette la trebbiatura meccanica, hanno uno stelo e una spiga che germogliano più velocemente, producono meno biomassa e quindi una maggiore quantità di azoto raggiunge i chicchi. Nonostante i contro dei grani antichi, la loro coltivazione in Italia è fiorente e in aumento.

Nel 2017, la produzione di Senatore Cappelli è raddoppiata rispetto all’anno precedente, non solo per una maggiore attenzione per l’ambiente e per mantenere biodiversità locali ma anche per le caratteristiche nutrizionali: minor quantità di glutine e di zucchero, maggiore quantità di proteine e altri elementi come magnesio, potassio, calcio, zinco, vitamine B e E, nonché questo tipo di grano non necessita di molta acqua e sopporta meglio i parassiti. La Società Italiana Sementi (SIS) ha favorito il ritorno di questo grano perché, come afferma Mario Conti, già presidente della SIS, “il Senatore Cappelli, grazie alle sue caratteristiche genetiche, si sta dimostrando più adatto alle nuove coltivazioni con alti standanrd organolettici che soddisfano la domanda di una nutrizione buona e sana”.

Legata alla coltivazione dei grani antichi è la macinazione a pietra. Questo processo permette la completa conservazione del germe e del valore nutrizionale del chicco senza alterazione dei lipidi e dei fenoli che sono responsabili del migliore sapore del prodotto finito.

Nella Sicilia Occidentale, Filippo Drago sta investendo sia nei grani antichi, specificatamente nel Tumminia, e nella macinaizone a pietra e il suo “pane nero” di Castelvetrano si trova anche a Manhattan. La farina utilizzata per questo tipo di pane è una miscela di grani interamente molita a pietra realizzata senza che alcuna parte del chicco di grano venga rimossa e così vengono preservati la crusca, il germe e l’endosperma abilmente macinati per produrre una farina omogenea. “Il futuro della produzione cerealicola, afferma Drago, sono i grani antichi. A Castelvetrano abbiamo dodici mulini a pietra francesi e nella vicina Selinunte ne abbiamo altri 4”. Due di queste macchine risalgono all’800 e accanto ne ha altre moderne per la produzione di farine migliori. Per la produzione dei grani antichi, Drago, proprietario di Molino del Ponte, ha accordi con produttori di altre parti d’Italia che garantiscono la stessa qualità: Mulino Sobrino a La Morra, Mulino Marino a Cossano Belbo, entrambi in Piemonte, Claudio Merlo in Sardegna e Mulino San Floro in Calabria.

Chef rinomati preferiscono la pasta prodotta con questi grani, uno dei quali è Pino Cuttaia il cui ristorante a Licata, in Sicilia, è stato incluso fra i primi 50 ristoranti del mondo dal Diners Club.

Sul lato opposto della Sicilia, a Raddusa, Giuseppe Li Rosi coltiva grani antichi e produce prodotti finiti come pasta e biscotti. Come Drago ha creato una rete di 70 produttori e molti altri richiedono di entrare a farne parte. “Il produttore che vuole coltivare questo tipo di grano deve dedicare almeno dieci ettari a ciascuna coltura per garantire la purezza del grano. Queste tecniche risalgono a migliaia di anni fa e richiedono pazienza. Il primo anno la resa non è alta, ma dal secondo al quarto anno aumenta drasticamente”.

Nel rapporto dell’Euromonitor su 8 tendenze nel Food, la vita sana è considerata una delle otto megatendenze, e i grani antichi sono considerati un esempio di questa tendenza nonché rappresentano la scelta preferenziale dei consumatori che richiedono cibi “naturalmente funzionali”. Secondo un’altra linea di pensiero, i grani antichi hanno ricevuto molta attenzione grazie a una mirata campagna di marketing basata sul potere evocativo della parola “antichi” per definire dei grani che hanno in realtà solo 50 o 100 anni. Sono presentati come più autentici, meno raffinati, più digeribili e con meno glutine in paragone ai grani di produzione industriali su vasta scala ma, secondo questa linea di pensiero, sostenuta dal CREA (Cerealicoltura e Colture Industriali) di Foggia e dalle Università di Modena, Reggio Emilia e Parma, che hanno pubblicato uno studio, come afferma il nutrizionista Umberto Scognamiglio del CREA di Roma, la conclusione è che non c’è molta differenza fra grani antichi e moderni. Secondo questo studio, pubblicato su Food Research International, gli antichi grani non sono commestibili per i celiaci e non c’è evidenza scientifica di una correlazione tra la celiachia e il consumo di un tipo specifico di grano, l’uso di pesticidi in agricoltura, e il tipo di sfruttamento del suolo. I sostenitori dei grani antichi sostengono che questi abbiano un migliore sapore, altri, credono che la differenza dipenda dal tipo di cereale e dal suo processo di trasformazione nel prodotto finito. Quindi la scelta salutistica sembra non essere fra grani antichi e moderni ma tra prodotti integrali o meno quindi fra più fibra e meno fibra la quale apporta delle proprietà nutritive fondamentali per la nostra salute.