"E vidi il buon accoglitor del quale Dioscoride io dico" (Inferno, Canto IV, vv. 139-140).

Iniziamo con una citazione dantesca: siamo nel IV canto dell’Inferno, nel Castello degli spiriti magni, in cui si trovano gli spiriti virtuosi non battezzati. Dante elenca molti personaggi della storia romana e greca, arrivando poi ai “nobili di pensiero”, ovvero i filosofi: ed ecco che dopo Aristotele, Socrate e Platone viene citato “il buon accoglitor del quale”, Dioscoride appunto. Dai commentatori danteschi, questo verso viene comunemente spiegato come “il buon raccoglitor della virtù medicinale delle piante”, colui che quindi conosceva perfettamente le proprietà curative delle erbe, ed era in grado di adoperarle per la salute umana. Quello che ci ha lasciato Dante (che, non a caso, apparteneva all’Arte dei Medici e degli Speziali) è senz’altro uno dei ritratti più belli che ci sono rimasti di questo grande medico greco, vissuto nel I sec. d.C. e di cui l’opera, il De materia medica, è al primo posto tra la numerosa letteratura storica sulla terapia medica prodotta fino all’era sperimentale.

Dioscoride, nato in Cilicia all’incirca nel 40 d.C., aveva fatto tesoro del metodo razionale tipico della cultura greca, e quando nel 60-70 d.C. arrivò a Roma dove, sotto l’imperatore Nerone, praticò la professione medica, vi portò tutto il suo sapere e la sua esperienza sul campo, insieme ad un ampio retroterra culturale, che aveva acquisito nel corso dei suoi numerosissimi viaggi. E proprio mentre si trovava in Italia scrisse il De materia medica, un’opera del tutto innovativa rispetto alla letteratura medica contemporanea, grazie alla sua impostazione scientifica, basata sulla corrispondenza mirata tra farmaco e patologia.

L’opera originaria consta di cinque libri e contiene tutto lo scibile del tempo riguardo all’azione farmacologica di moltissime sostanze provenienti dal mondo vegetale, minerale e animale; in totale, vengono elencate ben 900 voci, delle quali la maggior parte sono soprattutto piante. Dioscoride ricorre a vari tipi di fonti: quelle dirette, acquisite grazie alla sua professione medica, i dati locali e, talvolta, quelle apprese da altri testi. È comunque lampante come egli non dia molto credito agli aneddoti riportati da altri autori ed infatti, pur citandoli, li introduce spesso con un “si dice”, dando così l’impressione di essere il primo a non crederci. Un esempio tra tutti è quello del ciclamino, al quale la leggenda attribuiva il potere di far abortire la donna che vi passava sopra.

La lingua utilizzata è il greco, che era allora quello che è oggi l’inglese, ovvero l’idioma capace di superare tutte le forme dialettali, comprensibile ad un ampio numero di lettori: e questa scelta da parte dell’autore indica subito la volontà di dare una diffusione “internazionale” alla sua opera. Un’opera che, grazie alla sua completezza, divenne subito un manuale irrinunciabile per i medici del tempo e fu poi continuamente utilizzato dagli specialisti e dagli esperti del settore fino al XVIII secolo. Purtroppo, dell’opera originaria non è rimasta nessuna traccia; essa ci è infatti nota solo attraverso le numerosissime traduzioni e i compendi che ne sono stati fatti a partire dal VI-VII secolo. Tra i codici più antichi che si ispirano al De materia medica si possono ricordare il Codice di Giuliana Anicia, risalente all’incirca al 512 d.C. e che attualmente si trova nella Biblioteca Nazionale di Vienna, ed un altro leggermente più tardo che è invece conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, e per questo è conosciuto ai più come il Codex neapolitanus, il “Dioscoride di Napoli”.

È soprattutto su quest’ultimo che vorremmo concentrare l’attenzione: si tratta infatti di un codice davvero straordinario, anche per le mille peripezie che lo videro coinvolto. Il suo committente fu Flavio Anicio Olibrio, console per l’Occidente nel 526, mentre si trovava a Ravenna: ed infatti molti pensano che l’opera vide i suoi natali proprio nel territorio ravennate. Sicuramente, il Codex Neapolitanus fu conservato a Napoli per un lungo periodo, almeno fino al XVIII secolo quando, dopo la guerra di Successione spagnola, il Regno di Napoli cadde sotto il dominio asburgico. In quel periodo, tantissimi capolavori italiani furono portati (o, per meglio dire, trafugati) a Vienna, e tra questi anche il nostro codice. Si dovette aspettare la fine della Prima guerra mondiale affinché l’opera tornasse in Italia, a Napoli, dove attualmente viene gelosamente conservata. E queste sono solo alcune delle vicissitudini che essa conobbe: una storia senz’altro avvincente e ricca di colpi di scena, che potrebbe forse ispirare qualche scrittore, dando così vita a un romanzo da intitolare Il Dioscoride ritrovato.

Del resto, è sufficiente sfogliare solo qualche pagina di questo codice per capire il motivo per cui esso fu tanto conteso: composto da 172 carte, del De materia medica originale esso riprende solo la parte dedicata alle sostanze vegetali, arricchendo il testo con bellissime illustrazioni. Nel complesso, si possono ammirare 409 raffigurazioni di piante medicinali, con le relative schede che, per ogni specie esaminata, riportano tantissime informazioni. Quest’opera è quindi molto diversa dai tanti erbari alchemici medievali ad essa contemporanei, che molto spesso avevano attinto a piene mani dal De materia medica originale distorcendo in maniera anche significativa il suo contenuto.

Il Codex Neapolitanus ha invece un'impostazione molto simile ai testi moderni di botanica farmaceutica: per ogni specie esaminata, vengono infatti riportati il nome, i sinonimi, l’habitat, l’impiego terapeutico e le parti utilizzate nella terapia, oltre alle varie note e curiosità. Rispetto all’opera originaria, oltre alle figure, viene aggiunto anche l’ordinamento alfabetico delle specie esaminate, che permette di rendere l’opera facilmente accessibile anche ai non specialisti. Una vera e propria pietra miliare della storia della botanica farmaceutica, che è oggi facilmente accessibile a tutti grazie al facsimile edito da Aboca Edizioni, che è stato recentemente realizzato con la collaborazione dell’Università di Napoli. In quest’opera, che è in realtà molto più di un facsimile, per la prima volta il testo greco originale viene tradotto integralmente, insieme a ben 374 schede di commento botanico-medico. Un testo che non è quindi solo un compendio degli antichi metodi curativi, ma è anche (o meglio, soprattutto) un preziosissimo strumento per conoscere l’antica cultura fitoterapica e per conciliarla nella maniera migliore con la realtà moderna.