Lanfranco Malaguti è un chitarrista jazz di gusto e sostanza. Lontano dai clichè come dai soliti giri di “noti”, ha da tempo basato la sua estetica musicale su una ricerca che ha coniugato la matematica alla musica con un metodo rigoroso ed approfondito, i cui risultati sono evidenti nell’ultimo decennio, con una serie di lavori pubblicati dall’indipendente Splasc(h), di cui Carillon rappresenta l’ultimo, affascinante, capitolo. La pubblicazione costituisce il momento ideale per fare il punto su una carriera ultratrentennale, ricca di soddisfazioni, riconoscimenti e partnership di prestigio, ma non ancora non in linea nel restituire al musicista di origini romane (ma da tempo residente a Bologna), tutte le energie profuse nell’inseguimento del suo sogno. Di questo e altro ci ha parlato con la consueta gentilezza e disponibilità.

Partiamo da questo tuo ultimo lavoro, Papillon chiude virtualmente un percorso oppure apre un nuovo ciclo?

A mio avviso rappresenta una sorta di quadratura del cerchio, relativa a un progetto che si è articolato attraverso gli ultimi quattro lavori. Gli elementi distintivi di tale percorso riguardano una nuova ricerca timbrica, ma anche un ampliamento delle possibilità legate alle strutture melodiche, armoniche e ritmiche. In pratica ho inteso distaccarmi dalle forme più tradizionali del jazz legate a un ben determinato uso degli accordi e relative linee melodiche a loro volta connesse alle scale più in uso nel bebop. Anche sotto il profilo ritmico mi sono staccato dalle consuete sequenze, cercando di realizzare successioni in 4/4 , 5/4 , 7/4, ecc... che cambiassero abbastanza rapidamente. Ho anche sperimentato la possibilità che i singoli strumenti suonassero contemporaneamente su tempi diversi, pur nel rispetto della quadratura di un determinato brano, per poi incontrarsi ciclicamente. A dire il vero, anche se in una forma embrionale, l'approccio ora descritto lo utilizzavo anche negli standard, soprattutto nella costruzione dei ritmi e degli accordi sulla chitarra; ciò conferiva una connotazione poco convenzionale alla mia musica.

Come hai scoperto il jazz e quando te ne sei successivamente innamorato?

Ho scoperto questa musica meravigliosa, quando ero poco più di un bambino. Mio padre ascoltava soprattutto le grandi orchestre di Duke Ellington, Count Basie, ecc... Naturalmente si trattava di un approccio passivo legato al solo ascolto e, sebbene strimpellassi già la chitarra, non mi passava neanche nell’anticamera del cervello l’idea di poter suonare tale musica! Con il passare del tempo mi perfezionai e, circa a vent’anni, anche lusingato dagli amici, mi convinsi di essere il miglior rockettaro del quartiere dove abitavo (allora vivevo ancora a Roma, la città che mi ha dato i natali). Fu sufficiente assistere ad un concerto, presso il mitico Folkstudio, tenuto da Irio De Paula alla chitarra, con Giorgio Rosciglione al basso, Afonso Vieira alla batteria e Mandrake alle percussioni, per essere indotto ad appendere la chitarra al chiodo. Decisi di riprenderla in mano dopo un paio di mesi ricominciando tutto da capo! Ebbi modo di ascoltare dal vivo anche Franco Cerri; pure in quell’occasione rimasi traumatizzato. Da allora fu un susseguirsi di ascolti che continuarono presso l’altrettanto mitico Music Inn dove ebbi la fortuna di ascoltare quasi tutti i più grandi jazzisti allora viventi. La mia passione per il jazz, oltre che attraverso i concerti dal vivo, si è alimentata con l’ascolto di dischi e registrazioni varie. Devo dire che, a parte gli episodi prima citati, i chitarristi jazz non costituiscono un importante fattore di crescita musicale, infatti i miei principali elementi di ispirazione sono rappresentati da pianisti, trombettisti e sassofonisti. Fra questi ho nutrito una particolare predilezione per Lennie Tristano e Bill Evans.

Ci puoi parlare dell'evoluzione che hai avuto anche dal punto di vista compositivo con i tuoi studi scientifici e matematici che si sono ben sposati al tuo animo sperimentale ed una musica che come ben sappiamo pone la sua radice nell'improvvisazione...

Mi lusinga il fatto che tu me lo chieda. L’elemento principale della mia formazione scientifica e, soprattutto matematica, che ha maggiormente influito sul mio modo di far musica è quello legato al principio della generalizzazione. Infatti, per quanto riguarda le costruzioni armoniche, melodiche e ritmiche, mi sono costruito schemi matematici e geometrici che mi consentissero di ordinare e concentrare una notevole quantità di elementi apparentemente distaccati. D’altra parte, la musica che costruisco attualmente, sia sotto il profilo compositivo che improvvisativo, sottintende una quantità di elementi tale da indurmi a razionalizzare, semplificare e generalizzare il tutto attraverso un numero il più possibile limitato di algoritmi da padroneggiare con relativa facilità. Gli ultimi miei progetti sono influenzati dal mio interesse per la musica frattale basata sulle teorie di Benoit Mandelbrot, comunque filtrate attraverso le maglie costituite dal mio retroterra musicale.

Qual è invece la tua aspirazione relativamente alla tua musica? Non penso possa riguardare il mero piacere di suonarla, ma forse anche la condivisione di uno studio che parte da lontano...

In una fase iniziale, la mia unica aspirazione era quella di misurarmi con me stesso relativamente alle possibilità tecniche ed espressive che via via estendevo. In un secondo tempo ho avvertito la necessità di condividere il mio bagaglio con altri musicisti che avessero una certa affinità con me o, per lo meno, una comunione di intenti.

Come sei riuscito invece a focalizzare e calibrare il tuo suono?

La calibratura del “mio” suono l’ho sempre considerata un elemento essenziale, sia quando usavo la chitarra completamente sguarnita di effetti elettronici, sia ora che utilizzo delle apparecchiature che mi consentono di ottenere un timbro ben chiaro nella mia mente prima ancora di costruirlo. Mi spiego meglio attraverso un esempio: sono sempre stato attratto dalle gamme basse del violino e dal contrabbasso con l’archetto, ebbene, da un paio di anni sono riuscito ad ottenere un suono simile utilizzando un octaver associato ad un overdrive che è una sorta di distorsore valvolare; a questi ho aggiunto l’uso di un particolare plettro affusolato e un modello di corde zigrinate che, insieme, producono l’effetto pece del comune archetto.

Qual è la tua dimensione ideale quando suoni? Preferisci le formazioni poco numerose? Accetti la sfida in solo, ma hai spesso registrato in trio e quartetto...

Il fatto di suonare in solo, con formazioni ridotte o organici più numerosi, è dipeso da vari fattori. Una delle mie prime formazioni era costituita da cinque elementi con due fiati; allora ero tutto proteso a creare arrangiamenti di tipo orchestrale. Poi sono passato al trio, al duo e infine al solo. Man mano che riducevo la formazione, è prevalso il desiderio di accentrare sulla chitarra la responsabilità della buona riuscita di un determinato progetto. Attualmente realizzo i miei lavori con un quartetto un po’ anomalo costituito da flauto, sax, batteria e chitarra. Quest’ultima, come spiegavo in una risposta precedente, la utilizzo come chitarra elettrica tradizionale, ma anche come viola, violino, contrabbasso e basso elettrico.

Delle tue esperienze umane ed artistiche vissute dentro ed intorno al jazz cosa ti è rimasto e a cosa ti è servito?

Tutte le collaborazioni con i diversi musicisti che ho incontrato nel corso della mia carriera si sono rivelate costruttive ai fini della mia evoluzione musicale. Da tutti ho imparato qualcosa, oltre ad averne un valido supporto nella realizzazione dei miei progetti. Mi rimane difficile in questo momento ricordare un particolare che, più di altri, mi è rimasto impresso nella mente. Diciamo che le situazioni per me più inebrianti, forse si sono determinate con i trii, prima insieme a Enzo Pietropaoli e Fabrizio Sferra, poi con ancora con Pietropaoli, Stefano D’Anna e con la partecipazione di Roberto Gatto in occasione dell’ultima incisione discografica relativa a quest’ultimo ciclo di collaborazioni. Altrettanto esaltante è la collaborazione con Massimo De Mattia, Nicola Fazzini e Luca Colussi: tre grandi partner.

Chi sono invece oggi i musicisti che apprezzi e che secondo te hanno delle cose interessanti da dire, e che giudizio hai sull'attualità jazzistica?

I musicisti che apprezzo sotto il profilo dell’esecuzione e del pieno controllo dello strumento sono tantissimi, tenuto anche conto dell’importante ruolo assunto dalle scuole di jazz che si sono diffuse in modo esponenziale e alcune delle quali sono veramente prestigiose. Per quanto concerne la dimensione squisitamente espressiva legata alla messa a punto di uno stile personale, credo che il jazz, inteso come rispetto dei principali canoni legati alla tradizione, abbia ormai esaurito le sue possibilità. Riuscire a racimolare qualche briciola rimasta, credo sia un’operazione ardua. L’ultimo grande esponente di questo filone, ritengo sia Wayne Shorter. Gli spazi ove esplorare cose nuove, occorre cercarli in altre aree culturali, ma questo è un concetto assodato e accettato abbastanza diffusamente da musicisti trasversali interessati a una serie di elementi melodici, timbrici, armonici e ritmici che possono esulare in buona parte dai paradigmi strettamente legati al jazz. In questa dimensione sono molti i musicisti che esprimono linguaggi originali, ma non riesco a definire chi possa essere più o meno interessante, dal momento che seguo poco le nuove tendenze. Quanto all’attualità jazzistica, mi sembra in pieno fermento: chi insiste sul mainstream, diventa sempre più bravo, anche se non dice tante cose nuove, ma tende a migliorare come in passato non accadeva! Chi invece esplora nuove aree ottiene i risultati di cui si parlava prima. Penso che se mi mettessi a fare il girovago, avrei l’impulso di suonare con molti musicisti che vivono in grandi capitali, come in piccoli villaggi sparsi per il mondo. Ho la vocazione a piluccare ovunque, anche se poi uso un setaccio con le maglie piuttosto strette. E questa la sfida che mi propongo ancora di rinnovare per il futuro.