Nel rock esistono dischi che hanno raggiunto lo stato di leggenda molto prima che se ne conoscesse la musica e che quindi, in un qualche modo, conservano questa speciale aura anche indipendentemente da essa. Sono i cosiddetti “lost album”, opere compiute mai andate in stampa e regolarmente circondate da racconti che hanno dell’incredibile, in grado da soli di sintetizzare l’importanza storica dei protagonisti e di spiegarne il genio.

L’esempio più famoso è quello rappresentato da SMiLE (1966-67) dei Beach Boys - seguito ideale del capolavoro Pet Sounds (1966) - di cui Brian Wilson eliminò i master definitivi in preda ai propri demoni, estenuato da una tecnologia che non riusciva a tradurre correttamente i suoni e la “sinfonia pop” che aveva nella testa. L’album, concepito all’apice di un glorioso periodo di stimolante “rivalità” con ciò che i Beatles producevano dall’altra parte dell’oceano, vide una prima luce ufficiale nel 2004, quando Wilson lo reincise da cima a fondo come solista, ma per sentire cosa era rimasto delle session originali con il gruppo, risistemate e rimontate con un lavoro certosino, si sarebbe dovuto attendere fino al 2011. Inutile dire che il contenuto musicale rinvenuto (chissà cos’altro c’era dentro quei master) si è rivelato assolutamente all’altezza della leggenda.

Più di “nicchia” ma altrettanto leggendari sono i Chateau Tapes dei Jethro Tull, la band capitanata da Ian Anderson, il cantante-flautista rock per eccellenza. Registrati in Francia presso gli studi di Chateau D’Herouville, per fuggire alla spietata pressione fiscale britannica, i suddetti nastri contenevano materiale finito (o quasi) per un doppio album; senonché, a causa di problemi di salute protratti, di diversi inconvenienti tecnici e di una malasorte generale, a un certo punto, in modo precipitoso, il gruppo ha chiuso i battenti del progetto e, una volta fatto ritorno in Inghilterra, ne ha cominciato da capo uno nuovo, recuperando qua e là passaggi e spunti dalle sessioni interrotte, ma prendendo in definitiva un’altra strada.

Ribattezzati con ironia The Chateau D’Isaster Tapes, i contenuti di tali “famigerate” incisioni dell’agosto del 1972 sono stati resi disponibili ufficialmente in forma pressoché integrale oltre 20 anni dopo su Nightcap (pubblicazione del 1993 contenente pure un secondo disco di inediti e rarità che coprono un periodo che va dal 1974 al 1991). Nel 2013 sono stati inclusi poi, con alcune aggiunte, nell’edizione speciale per il quarantesimo di A Passion Play (1973), ossia il lavoro sorto sulle ceneri dell’“album fantasma”.

Qui cerchiamo di mettere insieme i pezzi di un’opera che meriterebbe certamente di figurare con un suo titolo e una sua propria statura all’interno della discografia ufficiale del gruppo, e non solo come “appendice” o momento di passaggio.

Partiamo dal luogo del “delitto”. Il settecentesco Castello di Herouville, piccolo centro a 30 km da Parigi, era stato acquistato nei primi anni Sessanta dal compositore di colonne sonore Michel Magne, il quale lo aveva trasformato in uno studio di registrazione con annessa residenza di lusso. Tante le star della musica che vi hanno soggiornato e inciso album memorabili - ricordiamo, fra gli altri, Elton John (Honky Chateu, 1972, Don’t Shoot Me I’m Only The Piano Player, 1973, Goodbye Yellow Brick Road, 1973), Pink Floyd (Obscured By Clouds, 1972) e David Bowie (Pin Ups, 1973, Low, 1977) –, attratti da una location assai suggestiva che aveva incrociato la sua storia coi nomi di Van Gogh e Chopin.

Non mancano inoltre, circa il maniero, aneddoti su fenomeni soprannaturali: Brian Eno per esempio racconta che durante la permanenza al castello per le registrazioni di Low assieme a Bowie, veniva regolarmente svegliato ogni mattina da qualcuno che gli scuoteva la spalla, ma quando apriva gli occhi non c’era nessuno. Per quanto riguarda l’avventura, o disavventura, dei Jethro Tull, ad ogni modo, non occorre tirare in ballo gli spiriti: sembra infatti che i problemi di salute, occorsi in particolare al leader e al chitarrista Martin Barre, fossero da imputare a un virus preso nella di poco precedente sosta a Bombay di ritorno dagli USA, mentre gli intoppi tecnici avevano di sicuro una spiegazione sul piano reale; anche l’insoddisfazione per la produzione e la resa sonora alla fine va ricercata probabilmente solo nell’insofferenza perché tutto era stato ben lungi dal filare liscio come l’olio. Di fatto quando molti anni dopo Anderson riascolterà le registrazioni rimarrà stupito dalla qualità di ciò che avevano “cestinato”.

Cronologicamente i CDIT nascono dopo il successo clamoroso di *Thick As A Brick * (1972), opera concept permeata da una certa affettuosa ironia verso il progressive, genere nel quale il gruppo era stato catalogato. Il disco giocava con la fantomatica figura di un bambino prodigio, tal Gerald Bostock, che avrebbe dovuto essere l’autore dei testi, ma fin dalla copertina stile prima pagina di giornale era chiaro che fosse tutto uno scherzo. Ecco, in realtà pochi lo capirono e l’album fu preso molto seriamente sia dal pubblico europeo che da quello americano.

Fu allora che i Jethro Tull cominciarono a pensare a un concept vero e proprio che affrontasse delle tematiche precise e che onorasse in tutto e per tutto il prog; era anche un momento di stabilità per la formazione (con Jeffrey Hammond e Barriemore Barlow alla sezione ritmica, John Evan alle tastiere e il fido Barre alle chitarre) e valeva la pena provare qualcosa di nuovo per suggellare ulteriormente l’unione di gruppo e presentarsi con un’identità decisa ai fan. Soltanto che se in A Passion Play la risposta è per certi versi una brusca curva dentro un’atmosfera assai più cupa del solito (per quanto di qualità e con momenti altissimi), i nastri di Herouville vivono ancora dell’onda lunga di TAAB e ne mantengono una componente di calore e divertimento, pur trattando di aldilà e di confronto fra uomini e regno animale. Lo spirito folk poi è assolutamente centrale. È la musica ad avere una sinuosità e un calore che in definitiva non possono mancare sotto l’insegna Jethro Tull, pertanto dopo APP Anderson e compagni torneranno sui propri passi, accentuando le atmosfere folk e una certa giocosità, per così dire, “smarrita”, di cui però i CDIT erano ancora in parte portatori. Sottolineiamo che in queste registrazioni erano presenti anche un altro paio di brani poi finiti su War Child (1974), disco che preannuncia un ritorno alle atmosfere acustiche e a una voglia di maggiore leggerezza: i pezzi in questione sono due gemme, parliamo di Skating Away On The Thin Ice Of The New Day (una loro hit) e di Solitaire, poi intitolata Only Solitaire.

In sostanza in The Chateau D’Isaster Tapes figura un ventaglio espressivo e di scrittura più ampio rispetto alle scelte maturate in seguito nelle sessioni inglesi che hanno prodotto A Passion Play, che ricordiamo comunque essere un gran disco (filato peraltro in vetta alle classifiche USA), ma più distante dai caratteri tipici della band. Il “lost album” sembra tenere ancora molto da conto le citazioni classicheggianti e i passaggi con note blues (il mondo dal quale i Jethro Tull provenivano). Animelée e Tiger Toon sono strumentali con dentro la magia folk bucolica dei Tull, Look at The Animals è un inedito di pregio infinito in cui Anderson rivendica il suo ruolo di menestrello “medievaleggiante” e interprete sopraffino, Law Of The Bungle, suddivisa in due parti, vede il leader e Barre divertirsi e creare orditi di marca JT, Left Right, Critique Oblique e Post Last sono apoteosi progressive, Scenario e Audition sono classici sconosciuti e No Rehersal mescola le atmosfere di Aqualung (1971) con quelle di APP.

Si potrebbe quasi dire che The Chateau D’Isaster Tapes rappresentano la vera chiusura del periodo considerato classico del gruppo (dopo il trittico blues di esordio), il terzo titolo mancante dopo Aqualung e Thick As A Brick. Terminiamo l’articolo con questa notizia: oltre 30 anni dopo la chiusura, sembra che gli studi di Chateau D’Herouville riaprano proprio quest’anno. Chissà se ne usciranno più dischi famosi come quelli registrati nell’epoca d’oro. La leggenda ad ogni modo continua.