The Deposit, un film di grande interesse, che rivela le radici comuni fra l’accoglienza dei migranti e le nuove modalità abitative dei cohousing.

È merito del Festival Cinema e Donne, alla 41ma edizione a Firenze nella terza decade di novembre, aver scovato e portato alla visione del pubblico festivaliero questo film islandese di Asthildur Kjartansdottir. È ambientato a Reykjavik, città moderna e ricca, con standard di vita elevati, alle prese con l’immigrazione e le sue sfide. La regista, al suo primo lungometraggio, affronta problemi che nascono al riguardo, anche nella società in cui vive, considerata esemplare. Vi si affronta il problema dell’accoglienza, che non è un’operazione scontata, collegata com’è alla differenza di storie personali e di culture, che nel quotidiano fanno sentire il loro peso.

Questo film è stato premiato con Il Sigillo della Pace del Comune di Firenze perché esamina concretamente una varietà di problemi e di reazioni nel vivere quotidiano che vanno ben al di là delle buone intenzioni, lasciandoci a riflettere su nuovi approcci che è doveroso praticare oggi, quando siamo tutti chiamati a portare un contributo, come cittadini, a una nuova antropologia, necessaria per arginare gli squilibri ogni giorno in aumento fra le società e all’interno di ognuna. Squilibri forieri di conflitti e focolai di guerra.

Il film fotografa piccoli grandi soprusi ed equivoci in una convivenza, che portano ad un epilogo inaspettato rispetto alle convinzioni teoriche della protagonista.

Gisella, giornalista, paladina dell’eguaglianza fra popoli, ha ereditato una bella grande casa ma non ha entrate tali da mantenerla, anche perché ha incautamente prestato soldi al suo ex, che non glieli rende, e si è appena licenziata, sentendosi prevaricata dalle correzioni ad un suo articolo da parte del Direttore del giornale per cui lavorava.

Ecco che la decisione di accogliere in due stanze di casa sua tre migranti, una madre con bambina keniota e la sua amica sudamericana, non è pura generosità, perché le servono soldi e perché, intervistandole, può avere materiale per scrivere un articolo su migranti e problemi connessi, utilizzabile per iniziare una nuova collaborazione, Dimostra inizialmente di non avere preclusioni, anzi di essere disponibile e generosa.

Però il film ben presto si colora di atmosfere da thriller. Non avendo posto inizialmente nessuna regola, di fronte a problemi di convivenza la giornalista comincia a metterle in modo unidirezionale, senza trattative, spiegazioni o accettazione di proposte della controparte, assumendo un ruolo dominante. Come proprietaria della casa ma anche, forse inconsapevolmente, come cittadina con lo Stato alle spalle, in confronto con migranti indifese.

L’interesse della narrazione è che non crea una contrapposizione fra buoni e cattivi, ma situazioni affrontate con poca sensibilità da parte della protagonista, che inducono reazioni anche eccessive nelle due (la bambina è un discorso a parte, anch’esso fonte di problemi).

Sentendosi maltrattate, e non a torto, ricambiano con un inasprimento dei rapporti, con inviti a convivere estesi ad amici e feste non autorizzate. Un’escalation non prevista che butta nel panico la padrona di casa e cui pone fine nel peggiore dei modi.

Film amaro, ma insieme istruttivo di ciò che non va fatto per instaurare una serena e proficua convivenza. Fa riflettere sulla delicatezza dei rapporti umani. Anche quelli fra conterranei. Riguarda, per certi versi, anche le riunioni di condominio che finiscono in tragedia. Perché, al di là della goffaggine con cui Gisella si muove, è la sua mancanza di metodo e di vero interesse per le sue ospiti che rovina il rapporto. È la sua umanità di superficie che si sfalda di fronte a problemi veri.

Ecco che questo film diventa utile anche per chi oggi persegue l’idea di vivere in cohousing. Una convivenza addolcita dall’esistenza di una piccola casa privata per ogni nucleo familiare, ma con ampi spazi comuni, che rendono possibile diminuire la superficie delle singole abitazioni, perché si condividono funzioni (foresteria, biblioteca, lavanderia, etc) non più necessarie in ciascuna unità abitativa. Ha anche il vantaggio di mettere a disposizione del gruppo un vasto giardino di tutti, invece di singoli giardinetti privati, una grande cucina per pranzi collettivi ed altre soluzioni che il gruppo è libero di progettare, purché in modo sintonico.

Questa modalità di abitare ha i vantaggi che scaturiscono dalla condivisione e dalla solidarietà. Ma ha la necessità di essere preparata, seguendo un percorso che insegni la comunicazione non violenta e il metodo del consenso, che prescrive di portare avanti le iniziative solo se votate all’unanimità o perseguibili con il consenso di chi, pur non condividendole, le autorizza.

Nel film vediamo, come già detto, che il primo errore è stato di non usare nessun accordo iniziale. Ancora più grave è che la proposta sia stata animata, fin dall’inizio, da secondi fini. Infatti, chi intraprende una coabitazione deve essere “innamorato” della solidarietà. Il solo vantaggio economico non è sufficiente per diventare abitanti solidali. Mi si obbietterà che i migranti non sono così liberi di scegliere. Ma nel film, sebbene vivano in un’abitazione molto precaria, non sono le straniere a chiedere asilo alla giornalista. Al contrario, è lei che si offre di ospitarle, ed insiste pure.

Altri importanti suggerimenti vengono da questo film per mettere in atto una convivenza riuscita. Il luogo fisico da abitare non deve essere proprietà di uno degli abitanti, anche in presenza di separazioni fisiche degli spazi privati. Questo perché ognuno deve sentirsi in egual misura responsabile del buon funzionamento quotidiano, dalla riparazione di un tubo rotto alla preparazione di una serata.

Gli spazi debbono essere, in partenza, piuttosto neutri, in modo che ognuno arredi a suo modo il luogo in cui vive. Nel film le tre non potevano dimenticare nemmeno per un attimo di essere delle ospiti, per la eccessiva caratterizzazione delle loro stanze che, per inciso, erano state arredate dal nonno, e conservate tali e quali da Gisella. Una persona incapace di separarsi dal passato, e quindi poco propensa ad affrontare situazioni nuove.

Ben meritato questo Sigillo della pace alla regista del film. È un esercizio dovuto quello di instaurare e dinamizzare buoni rapporti fra vicini e, similmente, fra culture.

E tutto ciò che ci aiuta a farlo è strumento di pace.

L’accoglienza degli stranieri e la buona convivenza fra italiani sono molto legate. Coloro che si dichiarano ostili agli stranieri sono molto chiusi anche verso il prossimo, inteso etimologicamente come il vicino.

La distribuzione nelle sale italiane di questo film islandese, anche se difficile, è stata caldamente auspicata durante il Festival. Alle organizzatrici va il merito di averlo segnalato. Ma il pubblico italiano che lo apprezzerebbe, in questo momento storico, è ben più vasto di quello che lo ha potuto vedere a “Cinema e Donne”.