Milano, fine anni Cinquanta. Uno studente un po’ timido suona la chitarra in un gruppo al Santa Tecla, uno dei locali due o tre metri sottoterra dove si faceva musica e si ballava. Tra gli spettatori, una sera, c’è un certo Sergio Rapetti, in arte Mogol, allora ancora sconosciuto al grande pubblico. Quel rockettaro magro, sciolto, dal sorriso garbato che vede sul palco gli piace molto, tanto da dargli un appuntamento per la mattina successiva al numero 1 della Galleria del Corso, dove ha sede la casa discografica Ricordi. Voleva offrirgli un contratto ma il chitarrista timido, che nella vita pensava di fare il ragioniere, crede che sia uno scherzo e non ci va. Solo l’insistenza di Mogol, che la sera dopo ritorna nel locale, alla fine lo convincerà a presentarsi ai discografici.

Comincia così l’avventura di Giorgio Gaber in una Milano che scoppia di vita, dalla moda all’arte, e che vede crescere talenti come Celentano, Tenco, Mina, Bindi e Iannacci. Sarà poi con un brano alla Celentano come Ciao ti dirò che il ventenne Gaber in giacca e cravatta si presenta per la prima volta in Tv alla trasmissione Il Musichiere, ondeggiando come un elastico al ritmo di un rock nostrano. Correva l’anno 1959 e mentre, tra le diatribe politiche, cadeva il secondo governo Fanfani, gli italiani furono conquistati da questo ragazzo dal volto sereno che si divertiva e faceva divertire cantando una musica nuova. «Il fatto clamoroso è che dopo 45 secondi di televisione ero diventato famoso», ricorderà Gaber in alcune interviste. «Perché allora c’era un canale solo e una televisione sola e questa mia apparizione mi portò di colpo a essere riconosciuto da tutti e in tutta Italia».

Il successo arrivò davvero appena un anno dopo. Lui che aveva cominciato a suonare per scherzo, pensando di far vedere quei primi dischi ai nipotini, diventò subito una star del piccolo schermo. E se il cinema nel 1960 proietta le immagini felliniane de La dolce vita con le telecamere puntate su Roma, lui invece racconta di Milano e del Cerutti Gino che gli amici del bar del Giambellino chiamavano ‘Drago’. «Ho sentito molte ballate, quella di Tom Dooley, quella di Davy Crocket. E sarebbe piaciuto anche a me scriverne una così. Invece niente, ho fatto una ballata per uno che sta a Milano», ironizzava Gaber con il suo humor contagioso.

Negli anni Sessanta l’Italia sognava. Le cronache raccontano che il fatidico Pil cresceva di anno in anno, mentre il Financial Times assegnò alla lira (udite, udite!) l’oscar delle valute. Le Fiat 500 scorrazzavano sulle strade insieme a Vespe e Lambrette. Carosello andava a braccetto con il boom economico e alla Olivetti fu inventato il personal computer. Il festival di Sanremo fu certamente uno degli emblemi popolari della riscossa italiana dopo i disastri del conflitto mondiale. Era il 1961 quando Luciano Tajoli e Betty Curtis lo vinsero in tandem cantando Al di là delle stelle ci sei tu… , giusto un paio di mesi prima che Juri Gagarin viaggiasse nello spazio e vedesse davvero cosa c’era al di là delle stelle.

Quell’anno sul palco dell’Ariston ritroviamo tanti ragazzi di Milano, da Celentano a Mina, che si piazzarono rispettivamente al secondo e al quarto posto. Gaber presentò il brano Benzina e Cerini, scritta con il compagno di scorribande Enzo Jannacci e arrivò sonoramente ultimo. Ci provò ancora nel 1964 e poi di nuovo nel 1966, ma il risultato non fu diverso. Poco importava perché nel frattempo aveva portato tutti a scolare barbera in ‘quel locale abbastanza permale che chiamano Trani a gogò’. E ci aveva presentato il Riccardo ‘che da solo gioca a biliardo’ e gli altri quartieri e locali della periferia milanese che stavano via via scomparendo e che lui amava molto perché erano stati la sua università della vita. Nel frattempo, Gaber era diventato anche un divo della televisione, da Studio 1, con Mina, a Diamoci del tu, con Caterina Caselli, da Senza Rete a Canzonissima, da Questo e Quello a Le nostre serate. Nel 1967 torna per l’ultima volta al festival di Sanremo e questa volta riesce ad andare in finale, anche se si piazza solo al tredicesimo posto, fanalino di coda della classifica dell’ultima serata. Ma E allora dai, ‘canzone di protesta che ancora non protesta contro nessuno’, contiene in nuce i semi del futuro Signor G quando ammonisce

Ogni uomo è uguale a un altro
quando viene dalle stelle
non importa la sua lingua o il colore della pelle
Lo diceva anche il Vangelo già duemila anni fa
Finalmente siamo d’accordo, questa sì che è civiltà.

Ma il Signor G vero e proprio nascerà 3 anni più tardi al teatro San Rocco di Seregno, prima di arrivare al Piccolo Teatro di via Rovello, a Milano, e partire per un lunghissimo viaggio. «Ho cominciato come cantante di rock and roll, quindi ho operato nel corso della mia vita una serie di cambiamenti a vista, anche un po’ faticosi, in quanto il pubblico mi ha dovuto riconoscere in maniera diversa»: così si raccontava Giorgio Gaber in una vecchia intervista. Ora, a distanza di 30 anni dalla sua scomparsa, avvenuta troppo presto, all’età di 63 anni, la Tv gli ha reso omaggio con il documentario Io, noi e Gaber, scritto e diretto da Riccardo Milani. Andato in onda su Rai 3 e girato nei luoghi cari all’artista, Milano e Viareggio, il film ripercorre la sua carriera attraverso le canzoni e il racconto di amici, collaboratori e familiari.

Ironico, istrionico, romantico, ma anche ruvido, nessuno riesce a darne una definizione. Intellettuale musicale o Adorno del Giambellino, raffinato, ma anche molto popolare, pieno di umanità, ma anche sferzante, intelligente e provocatore. Di se stesso diceva di essere un filosofo ignorante o un ‘anarcoide’, ma certamente ebbe una grande capacità, quella di riuscire a vedere le cose con distacco. Il Signor G, che con una sedia e una chitarra riempiva da solo il palcoscenico, è la sua controfigura, ma anche la nostra, lo specchio dei tempi che stavano cambiando. Tempi in cui non si sentiva più a suo agio nel varietà e allora improvvisamente decise di abbandonare la televisione per inventare il teatro-canzone, riuscendo, comunque, a non perdere mai la popolarità. «Sono poco attore e forse anche poco cantante», dirà in un’intervista, «nel senso che mi interessano queste forme espressive dello spettacolo nel momento in cui ho delle cose che mi sembra che valga la pena di dire. L’esaltazione del teatro come momento di divertimento puro è abbastanza fasulla. Spero che il teatro vada verso una testimonianza dell’oggi, coinvolgendo la gente nel senso reale del termine».

Negli anni Settanta la vita era cambiata. Piombo e tritolo minavano anche le certezze del futuro, la fiducia dell’uomo in se stesso cominciava a scemare e il dubbio si insinuava come fumo invisibile, ma velenoso. Il Signor G, con il suo corpo parlante, naso, braccia, ghigni e smorfie, non solo ha illustrato l’Italia, ma l’ha messa a nudo, ha scoperto le sue fragilità, pubbliche e private. Lucido e penetrante trasforma allora la sua ironia in sarcasmo e con amarezza canta: ‘l’intelligenza non si attacca/la scarlattina sì’. Insieme a Sandro Luporini, pittore versiliese, cominciano in quegli anni un sodalizio artistico che non si interromperà mai. «Io ero molto comunista, lui piccolo borghese, ma la sua curiosità lo spingeva a voler conoscere tutto», commenta Luporini. Giorgio Gaber, però, pur guardando inizialmente con simpatia ai movimenti giovanili, non si uniformò mai a nessuna ideologia, né di destra, né di sinistra. Troppo settarie le ideologie per uno spirito geneticamente libero come il suo, che pensava solo con la sua testa e rifiutava qualsiasi omologazione: «Un’idea, un concetto, un’idea/ finché resta un’idea è soltanto un’astrazione/ se potessi mangiare un’idea/ avrei fatto la mia rivoluzione».

Quella di Gaber nei teatri è una battaglia costante contro l’ipocrisia e la massificazione. Inutile rifugiarsi nelle moto cromate con tanti accessori, nei testi gramsciani o nei viaggi in India perché alla fine siamo come quei bambini in fila che non sanno se ridere e piangere ma battono le mani. In fondo Far finta di essere sani è il suo manifesto, vero allora come oggi. Perché senza dubbio lui aveva visto lontano. Come quando nel 2001 canta La razza in estinzione. Ancora le cronache ci raccontano che in quell’anno nasce l’era Wikipedia, aprono i primi due Apple store, muoiono Anthony Quinn, Indro Montanelli e George Harrison, l’attentato alle Torri gemelle sconvolge il mondo, a Kabul i talebani cominciano la demolizione di tutte le statue preislamiche dell’Afghanistan. E Giorgio Gaber scrive

La tecnologia ci porterà lontano
ma non c’è più nessuno che sappia l’italiano
c’è di buono che la scuola
si aggiorna con urgenza
e con tutti i nuovi quiz
ci garantisce l’ignoranza.

E ancora più amaro

Non mi piace il mercato globale
che è il paradiso di ogni multinazionale
e un domani state pur tranquilli
ci saranno sempre più poveri e più ricchi
ma tutti più imbecilli.

Certo a noi piace comunque ricordarcelo al volante della sua Torpedo Blu o nei Trani a gogò della sua Milano. La figlia Dalia ricorda invece di quando andava a prenderla all’uscita della scuola insieme alla moglie Ombretta Colli, entrambi belli, eleganti, famosi. E dice: «Mi mancano molto le risate, le serate a far tardi a chiacchierare delle grandi e delle piccole cose. Sarei molto curiosa di sapere cosa penserebbe oggi del mondo». Ce lo chiediamo in tanti e dire che manca anche a noi spettatori è banale, perché lo dicono tutti. Però è la verità. Se non altro perché farebbe sentire meno soli quelli come lui, anticonformisti congeniti. Chissà davvero come ci racconterebbe il mondo di oggi, dalle guerre all’intelligenza artificiale, dal cambiamento climatico alla green economy e tutto il resto che ci travaglia mentre noi continuiamo a far finta di essere sani.