Dal primo 45 giri, Danzando con la notte e col vento – il cui lato B Piccola regina del varietà vince nello stesso anno il Premio Rino Gaetano – a Senza dire niente, Roberto Kunstler attraversa molte fasi – la sua vita (tutta) sembra essersi immedesimata, materializzata nell’atelier di un artista (o almeno è cosi che me la sono immaginata), uno spazio di minuziosa e inesauribile ricerca all’interno del quale, come un bravo romanziere fa con una parola che non trova, Roberto Kunstler cerca “la scintilla che (s)fugge”.

Roberto Kunstler si distingue sin da giovanissimo per la sua straordinaria capacità immaginativa – quasi “veggente”, per usare il termine di Rimbaud, di cui sin da adolescente aveva letto tutte le opere e con il quale aveva creato un rapporto di giocosa e surreale identificazione (consapevole del fatto che lo stesso Baudelaire aveva fatto una cosa simile con Edgar Allan Poe). Anni dopo, all’università, annoiato da professori retorici, abbandona presto la facoltà di Lettere per iscriversi a Storia delle religioni. Già da tempo è coinvolto dal poetare, dall’arte della versificazione – ma paroliere non era, non è mai stato (“paroliere è Mogol, non io”), e nemmeno solo musicista. Cantautore, scrittore, studioso (e perché lui stesso rifiuta l’accezione di intellettuale – “pensatore”): di tutte queste parole, una sola non bastava. Roberto Kunstler, di fatto, non è altro che tutte queste cose insieme. Basti pensare che, in occasione di uno dei suoi primi viaggi in Francia, tradusse “Et maintenant” la famosa canzone di Gilbert Bécaud scritta dall’autore e poeta francese Pierre Delanoë.

Di recente, ha pubblicato Cantiere – un’antologia che contiene, oltre ad una scelta di canzoni tra le tante pubblicate fino ad oggi, anche una selezione di poesie e altri versi. Per Roberto, lo scrivere è un “farsi antenna”, non è “un’intenzione” ma una “necessità fisiologica”. “Non è un’attività intellettuale ma extra-intelletuale/Non è un’azione deduttiva ma percettiva.” Una scrittura che viene dal silenzio, dall’attenzione, dalla concentrazione e dall’ascolto di tutto quello che il rumore della modernità ha sommerso. Un rice-trasmettitore di segnali liberati nell’universo dai tempi di Socrate e di Platone – e ancora prima, dalle antiche civiltà orientali e medio-orientali, risalendo fino all’epoca del mito.

Non molto distante, in fin dei conti, da ciò che intendeva proprio lo stesso Rimbaud (suo “primo e ultimo idolo”, con Bob Dylan) quando scriveva: “Farsi veggente”…

Nel 1984 esce il suo primo 45 giri, Danzando con la notte e col vento, il cui lato B Piccola regina del varietà vince nello stesso anno il Premio Rino Gaetano. Da allora e fino ad oggi, come si è evoluto nel tempo il suo percorso artistico?

Per sintetizzare, direi questo. Mi viene quasi da citare un pensiero che ho espresso tempo fa e finito in qualche retro copertina: “Sono tanti anni che scrivo e più scrivo, più mi sembra scrivere di meno” – la mia posizione si è resa sempre più chiara, più che scrivere, uso la formula “sono scritto”. “Bisogna essere poesia, non fare poesia” – come attitudine allo scrivere ho mosso i miei primi passi seguendo La lettera del veggente che scrive Rimbaud al suo professore. In quel periodo, che era ancora quello del liceo, non avevo nemmeno 18 anni, ho avuto un’esperienza iniziatica – ho scoperto una piccola libreria creata da due ragazzi dal nome Maldolor (dal testo Les chants de Maldolor di Lautréamont). Quel periodo è stato per me un periodo fondamentale, in senso letterario di “fondamenta”. A quei tempi, mi capitava di marinare la scuola per passare intere mattinate nella piccola libreria Maldolor nel centro di Roma, dove avevo l’opportunità di nutrirmi dei grandi della letteratura francese come Baudelaire, Rimbaud, Bataille. In quegli anni una ebbi una vera e propria “iniziazione”. Tant’è che all’Università, quando frequentavo i corsi di letteratura francese, arrivai a non sopportare più di sentire le baggianate del professore che era in realtà considerato un “luminare”…

Questo libro, contenuto nel lavoro Cantiere, è stato nelle mani di Renato Minore, uno tra i critici letterari tra i più grandi in Italia. Che cosa le ha detto? In che modo la scrittura è stata protagonista dell’evoluzione del suo percorso artistico?

Gli è piaciuto, sottolineando che l’ultima parte era la più illuminante. Scrive: “È estremamente lucido nella sezione finale”, praticamente la stessa sensazione che provai anch’io quando ho concluso questo libro. Si tratta di piccole riflessioni sulla scrittura – che è infatti il titolo alla sezione. Te ne cito un paio, per darti un’idea: “La mia scrittura non è un’attività intellettuale ma extra-intellettuale, non è una visione deduttiva ma percettiva, non contiene ragionamenti logici ma li inspira, non vuole imprigionare le parole ma tende a liberarle (…) È canto, pianto, gioia e dolore, la mia scrittura è parto e gravidanza (…) Albero senza frutti, la mia scrittura (…)”. L’ultimissima – che darà il titolo ad un evento che andrà prossimamente in scena, recita così: “Chi studia con il cuore, non ha bisogno di ingobbirsi ad un tavolo per ore. Il cuore è l’enciclopedia del sapere universale. Quando scrivo, non so da dove arriva il vento, solo mi faccio strumento (…)”.

L’evoluzione del mio percorso è stata, in definitiva, prendere sempre più consapevolezza di questa modalità di scrittura, di questa mia attitudine, in quanto nonostante avessi una formazione culturale bella nutrita – è come se nel momento della scrittura avessi dimenticato tutto (con la consapevolezza che questa è la mia strada però, non una via giusta in assoluto – ci sono milioni di strade e ognuno ha la sua, non può esistere una strada giusta uguale per tutti). Scrissi una frase che poi scoprii essere stata scritta anche da Picasso: “Chi non cerca, trova”. Questo “farsi antenna”, come io lo chiamo, affonda le radici nella mia infanzia. Da bambino, avrò avuto sette o otto anni, dicevo a mia madre quando faceva con me il gioco dello “stiamo in silenzio”: “Mamma, ma io non posso non pensare a niente, non sono io che penso, è il pensiero che mi attraversa, è un fiume”. Finii per chiederlo anche alla mia maestra: “Maestra, da dove viene il pensiero?”

E poi?

Più diventavo grande, più quando sentivo i professori dire “il pensiero di”, mi veniva da dire: “Ma come il pensiero di?” Il pensiero, io credo, non è di nessuno, è un’energia che vive già nell’universo e che noi raccogliamo a seconda del decoder che abbiamo nella testa – dal segnale che si riceve. C’è chi ha la rete 3G, chi la fibra ottica. Ecco, il lavoro su me stesso è sempre stato questo: fare di me stesso “antenna”. In altre parole, ricevere e ritrasmettere quei segnali già presenti nell’universo. Dopo aver lasciato la facoltà di Lettere, mi trasferii (sempre nel Dipartimento di Lettere e Filosofia) in Storia delle religioni, dove studiavo materie di cui ero completamente digiuno. Già facevo il cantautore – in quel periodo, portai avanti contemporaneamente le due cose. Di tutta questa avventura di studi, la cosa che mi appassionò molto fu lo studio storico-comparativo delle varie religioni. Per me che ero già coinvolto dal poetare, dall’arte della versificazione, fu proprio un grande interesse lo studio di tutte queste civiltà, da quella greca – dalla quale si fonda il pensiero Occidentale – ma anche da tutti gli altri corpi della cosiddetta mitopoiesi, che risalgono a tempi assai precedenti a quelli dell’Antica Grecia (ad esempio, dalle mitologie mesopotamiche – basti pensare a Gilgamesh, l’eroe culturale della mitologia sumerica nella cui vicenda è già presente storia del diluvio…). Il grosso collegamento tra tutte queste mitologie è proprio la mitopoiesi: la Storia mitica attraverso la quale si fonda la realtà. Ho sempre voluto che il mio scrivere, pur trattando anche di temi quotidiani, non avesse mai una collocazione nel tempo ma fosse in qualche modo inattuale e fuori dal tempo profano, bensì in un tempo di fondazione com’è, appunto, quello delle mitologie. Rifiutando, forse per carattere, un approccio troppo intellettuale. Quando scrivo, è come se il sapere non ci fosse più.

Perché?

Non voglio che si pensi che sono contrario al termine di “intellettuale” o agli intellettuali, perché non lo sono. Ho solo rifiutato, per indole, l’approccio intellettuale perché del sapere io tendo a liberarmene, non voglio scrivere del sapere che ho acquisito – nel momento in cui sono ispirato non dev’esserci più questo “ingombro dell’ego” – che è forse uno degli aspetti che caratterizza la mia scrittura. Questo mi viene anche come conclusione dalle modalità con cui ho scritto – quando ho scritto alcuni testi come, ad esempio, quello di Carovane, stavo passando da una stanza all’altra, non avevo di fatto nessuna pre-intenzione, è successo e basta.

Roberto, lei è un musicista, un cantante e (oserei dire soprattutto) un autore. Scrive, ad esempio, quasi tutti i testi di Sergio Cammariere pubblicati fino ad oggi, tra cui Tutto quello che un uomo (Sanremo 2003) e L’amore non si spiega (Sanremo 2008). Oltre ai suoi sei album, collabora inoltre con numerosi artisti italiani tra cui, solo per citarne alcuni, Alex Britti, Paola Turci, Annalisa Scarrone, Ornella Vanoni. Alcune volte la definiscono, credo erroneamente, un paroliere. Non crede che la distinzione dei termini “cantautore” e “paroliere” sia paradossale? Non è forse imprescindibile, per il cantautore, l’essere anche e innanzitutto un paroliere – ma non viceversa?

Non amo molto le definizioni, etimologicamente si tratta di qualcosa che va a de-finire. Preferisco de-cominciare piuttosto che definire, o al limite, de-continuare. Ci tengo a cogliere questa opportunità per sottolineare che i “parolieri” sono una categoria di cui ho grande rispetto, ma si tratta di un’attività che ha poco a che vedere con la mia. Sono un cantautore. E quanto alla storia con Sergio Cammariere, che è quella che più mi ha reso noto come autore, anche lì, effettivamente, non mi limito a fare il paroliere. Non ho mai visto un paroliere che canta, suona e sale sul palco sin da quando ha sedici anni! Perché voglio togliermi questa definizione di paroliere? Perché è una definizione che mi va stretta! E non corrisponde a chi è veramente Roberto Kunstler. Anche nel lavoro con Sergio non mi capita sempre, anzi, di rado, di scrivere un testo su una musica finita. Non lavoriamo così. Le prime canzoni che nascono dal mio incontro con Cammariere sono delle cover di pezzi miei. Gli ho dato, e continuo a farlo, l’opportunità di rivisitare delle mie canzoni. È un caso atipico nel nostro panorama musicale. In quanto la modalità compositiva si ricollega direttamente a quella dei gruppi, dove la nascita di una canzone è quasi sempre il risultato dell’incontro tra due musicisti, spesso anche cantanti. Vedi i Beatles o i Rolling Stones, tanto per citare i casi più eclatanti. Il nostro lavoro, sempre partendo dai miei testi, è come quello di una band. Sergio ed io proviamo, suoniamo e cantiamo ogni nuovo pezzo insieme, fino a raggiungere la forma definitiva.

A proposito di Sergio Cammariere. Come è nata la vostra amicizia, la vostra collaborazione artistica?

Incontrai Sergio Cammariere ai primi di giugno del 1992 una sera, al Bar della Pace, a Roma. Quella sera stessa, decidemmo di andare a casa sua e di suonare: suonammo tutta la notte, fino al mattino. Io cantai un sacco delle mie canzoni, e Sergio mi accompagnava con pianoforte, tastiere e delle sequenze di batteria elettronica, dandomi l’impressione di avere al mio seguito un’intera band. Decidemmo di rivederci anche il giorno dopo, ma poi questa full immersion durò due settimane. Buttai giù una quindicina di canzoni, tra cui alcune da finire e altre nuove (praticamente tutta la tracklist di quello che sarebbe stato il futuro prossimo album I ricordi e le persone – che conteneva, tra le altre, anche la prima versione di Dalla pace del mare lontano). Quella con Sergio è stata ed è tutt’ora un’esperienza che mi ha permesso di scrivere sia da solo, come cantautore, che in due, proprio come nei gruppi che ci hanno ispirato da ragazzo e che hanno fatto la storia della musica dagli anni ’60 ad oggi.

Dalla pace del mare lontano è un capolavoro (e tra le mie canzoni preferite in assoluto). Ci può raccontare la storia di questa canzone? Che cosa racconta, come l’ha scritta?

La sua costruzione è stata una delle più complesse tra tutte le centinaia di canzoni scritte fino ad oggi. Ci vollero circa due anni prima di arrivare alla forma definitiva in cui oggi la conoscete e la potete ascoltare. La nascita di questa canzone seguì quella del testo che rappresenta un caso unico e isolato nel mio repertorio. Alcuni versi furono liberamente ispirati ad una poesia di Carlo Michelstaedter (Gorizia, 1887 – 1910). La poesia è I figli del mare (Adelphi, 1987). Di questa lunga poesia presi nove versi: “Dalla pace del mare lontano/dalle verdi trasparenze dell’onde/sul suolo triste sotto il sole avaro/dal silenzio senza richiami/alla sete alla fame allo spavento/all’inconfessato tormento” e poi “Ebbero padre ed ebbero madre/fratelli amici e parenti/conobbero i dolci sentimenti”. Li rielaborai aggiungendo a questi dei miei versi originali. Questo accadde in seguito a un periodo di intense letture e grande passione verso le opere di questo giovane filosofo e poeta. Scrissi il mio testo nell’agosto del 1989, seduto su una panchina a prua di un battello diretto all’isola d’Elba. Sebbene fosse piena estate, quel giorno il cielo era grigio e nero, un forte vento e lampi all’orizzonte minacciavano l’arrivo di un imminente temporale. Anche il mare era molto mosso. Ed io ero l’unico passeggero seduto all’esterno della nave. Su quella panchina, dove la lettura e il forte vento scuotevano tutti i miei sensi. Dove la furia del mare e il moto violento delle onde facevano da contrappunto a questa poesia che mi attraversò come una dolente illuminazione, lasciando in me un segno profondo ed indelebile. Finita l’estate, quei versi che avevo scritto su un piccolo quaderno continuarono a restarmi in testa. Di tanto in tanto provavo a musicarli e a cantarli.

L’anno successivo, a primavera, entrai in sala di registrazione per realizzare il mio terzo album, Eclettico Ecclesiastico (1991). Registrai una decina di canzoni, tra queste, Angelina, Io contro io e Poeti del ‘900. Registrai anche questa nuova ballata che conteneva i versi a cui mi ero liberamente ispirato. La canzone piaceva ai discografici, pensavano quasi di farne un singolo. Ma io non ne ero convinto. Così il brano restò fuori da quella raccolta. La canzone aveva allora una musica diversa ed un andamento più rock rispetto alla versione definitiva del giugno del ’92. Fu solo allora che questa composizione fu finalmente ultimata e definita in tutte le sue parti grazie alla collaborazione con Sergio Cammariere, che cominciò proprio nei primi giorni di giugno di quell’anno. Insieme suonammo e cantammo quei versi per due settimane, fino a che Sergio trovò la soluzione musicale vincente creando un nuovo ritmo e una nuova armonia sulla quale, cantando insieme, arrivammo a creare una nuova melodia. Fu così che nacquero le strofe e il tema principale della canzone. Ma ci sembrava che mancasse ancora un piccolo tassello, un piccolo inciso. Un ulteriore ritornello. Così dopo vari tentativi andati a vuoto, pensai di riprendere la melodia della canzone Poeti del ‘900 e di scriverci sopra dei nuovi versi: “Ma è solo un eco nel vento/nel vento che mi risponde/venga la pace dal mare lontano/venga il silenzio dalle onde”. A quel punto la canzone era completa e fu da lì a breve prodotta dalla it Dischi di Vincenzo Micocci e pubblicata per la prima volta dalla it/BMG nel 1993. Prima nel singolo Kunstler Cammariere & The Stress Band, poi nell’album I ricordi e le persone. Dove Sergio ed io cantavamo insieme tutte o quasi le canzoni di quel disco. Ma passarono altri dieci anni, prima che Sergio la registrasse di nuovo nel suo primo album da solista (che non a caso si intitola proprio Dalla pace del mare lontano) e la portò così a raggiungere un pubblico più vasto, grazie anche alla partecipazione al Premio Tenco e al Festival di Sanremo. A questa versione ne seguirono, negli anni, altre due. Una registrata con l’orchestra da Cammariere nell’album Io del 2016 e l’altra incisa da me, prima come singolo e poi all’interno dell’album Senza dire niente, pubblicato a settembre del 2019. Dalla pace del mare lontano resta ancora oggi come un sigillo sulla nostra lunga collaborazione. Un momento indimenticabile e molto probabilmente irripetibile. Di canzoni insieme ne abbiamo scritte tante altre, ma senza Dalla pace del mare lontano le cose non sarebbero mai potute andare come sono andate.

In un mondo che è e sarà sempre più all’insegna del commerciale, come possiamo salvare la musica d’autore? C’è qualcosa che la musica d’autore può fare per rinnovarsi, se deve rinnovarsi? Che cosa è cambiato, nella pratica e non solo nella teoria, dagli anni ’70 ad oggi?

Inizio con il chiedere: “Che cos’è la musica d’autore?” Tutta la musica è d’autore. Se c’è qualcuno che le ha scritte (le canzoni, ndr), un autore c’è sempre. Ad ogni modo, speriamo di no! Che il mondo non diventi sempre più all’insegna del commerciale, intendo. Prima ancora della musica, comunque, è l’umanità che dovrebbe rinnovarsi. Per ricollegarmi a questo discorso, cito una frase fresca, di qualche giorno fa: “Del resto le scimmie non è che si sono alzate tutte insieme, una mattina!”. Nella curva dell’evoluzione, e secondo me da un bel trentennio ormai, una parte dell’umanità è entrata in una curva “involutiva”, e questo è molto pericoloso. Non sono persone che vanno nel “progresso di tutte le cose”, nel “progresso dell’anima”, ma fanno esattamente l’opposto: fanno sì che l’umanità involva. In senso proprio Darwiniano, ho immaginato così come potesse soffrire, ad esempio, una scimmia che già nel suo codice genetico aveva “scritta” la sua evoluzione, il suo alzarsi, in mezzo alle altre che invece non ce l’avevano. Siccome non tutte le scimmie si alzano lo stesso giorno, ci sono nel mondo invece, sparse come funghi, persone ricche di questo patrimonio genetico – che si rendono cioè perfettamente conto di questo collegamento tra spirito e materia. Questo è l’ambito in cui sono ora più coinvolto, l’aspetto che sto cercando di ascoltare di più. Lì sta l’evoluzione. Per tornare alla domanda più nello specifico, questa evoluzione nella canzone d’autore è direttamente proporzionale all’evoluzione dell’umanità. Infatti, il compito di noi cantautori e delle canzoni è proprio quello di risvegliare – risvegliare il mondo a questo, a ragionare con il cuore. La mente la si deve usare con cautela, perciò non sempre. Bisogna far sì che si liberi quest’energia, che porti l’uomo alla sua naturale evoluzione. Potrebbe anche essere questo il momento: stiamo entrando nella famosa era dell’Acquario – speriamo che sia quella giusta. Qualcosa comunque dovrà crollare, non sarà mai una situazione indolore – ci potranno essere conflitti, guerre… Ma è inevitabile. Come è successo a tutti i grandi imperi della storia, e anche a quelli che sembravano incrollabili, crollerà anche il capitalismo. È il compiersi della storia. Questo impero qui forse non è poi così lontano dalla fine, questa forma non è più adeguata – lo vediamo anche nel nostro Paese. L’evoluzione del cantautorato, comunque, non la puoi staccare dall’evoluzione della società, perché il cantautorato altro non fa che rifletterla. Noi? Dobbiamo essere “messaggeri di luce”.

Kunstler, in tedesco significa “artista”. Vita d’artista è un titolo che riprende il suo cognome. È un caso?

Il caso non esiste. Nella canzone Il pane, il vino e la visione, scrivo: “Il caso è matematica e la fede/È geometria celeste per chi crede (…)”. Il caso, forse, non esiste. Chi può dirlo? Sarei portato a credere che nell’universo ogni cosa sia organizzata. Sai, la teoria del battito della farfalla? Sulla scia di questa teoria, direi che il caso no, non può esistere. Ho scritto una canzone a proposito di questa strana coincidenza, si tratta appunto di Vita d’artista – canzone pubblicata sia da Sergio nel suo primo album Dalla pace del mare lontano in una forma rivisitata – che le conferisce un carattere più scanzonato e con degli echi da avanspettacolo un po’ anni ’50 – che da me nella sua versione originale più legata alla radice della chanson, nella raccolta Senza dire niente del 2019.

Un’ultima domanda. Come vive il periodo attuale?

Come la maggior parte delle persone, in realtà. Avevo da fare vari concerti, sono saltati… Anche dal punto di vista lavorativo è un problema. La mia preoccupazione più importante, comunque, è sapere cosa si cela dietro questa realtà. Speriamo che non sia cominciata una Terza guerra mondiale – non con le armi e i missili, ma con qualcos’altro… Questa preoccupazione, perciò, è più di carattere mondiale che personale, perché al di là del fatto che non possiamo lavorare, caratterialmente io provo sempre a trovare qualcosa che possa rendere le situazioni anche positive, costruttive. In realtà, per alcuni versi, sono più stanco di prima – il mio bioritmo si è spostato un po’ in avanti, vado a letto tardi e mi sveglio tardi. Penso che ognuno abbia un suo modo di vivere questo isolamento, per me è stata anche un’occasione per studiare, per leggere di più. Applico il cosiddetto “vedere il bicchiere mezzo pieno”. Lo scorso autunno sono stato coinvolto in una nuova ed insolita avventura, quella di esporre alcuni miei disegni, una cosa che non avevo mai fatto. Il progetto partirà da Roma, abbiamo già due eventi in programma in due bellissime gallerie d’arte – la prima nel quartiere Monti (Incinque Open Art), l’altra nello spazio Basement Art Studio (Insideart). La cosa di cui sono molto contento è che da questa esperienza nasce anche la pubblicazione di un catalogo della mostra che contiene “42 disegni a tecnica mista. 42 racconti per immagine usciti fuori quasi d’incanto, in pochissimo tempo, ma dopo una meditazione e un raccoglimento di oltre trent’anni. Un percorso d’arte e di visioni (…). Una stagione all’inferno, e una in paradiso. Una vita d’artista raccontata dall’altro lato della strada.” Ne esce fuori un pamphlet sull’arte e sulla vita, la storia di un incontro – quello tra Roberto Kunstler e Jonathan Giustini – un piccolo libro prezioso che regala segni e stimoli riflettendo se sia così veramente possibile, scrivendo o disegnando, concedersi purificatrici pause dall’essere.