Una grande stanza illuminata di penombra, la parete di vetro aperta sul giardino ancora verde di pioggia. Si sente scorrere il fiume: è un suono che attraversa il corpo della Terra e le fa dono del suo nutrimento; è un gesto di intimità del quale si fatica a dire, per timore di violare una segreta unione che solo Madre Natura può benedire e svelare.

Un lungo tavolo di legno scuro riflette l’ormai debole bagliore di un sole al tramonto.
Due donne siedono alle sue estremità: una sembra guardare lontano, oltre gli alti alberi, oltre la voce dell’acqua che si sposa con il grigio canto delle tortore; l’altra sfoglia con lentezza cadenzata le pagine di un quaderno, forse un diario.

Indossano entrambe un abito scuro, non si guardano tra loro eppure si percepiscono, sentono di condividere uno stesso respiro, di ascoltare lo stesso silenzio, di avere storie da raccontare eppure di non poter dare inizio alla narrazione poiché le parole non vogliono uscire dagli oscuri anfratti del cuore.
Forse si riconoscono.

Ferme in una immobile fissità si lasciano contemplare dallo sguardo di un invisibile spettatore che ne è attratto e al tempo stesso sconcertato.
Reso inquieto da quelle impenetrabili figure esce dall’oscurità per tentare di comunicare con loro, per trovare una traccia di emozione, seppure impercettibile, sui loro volti.
L’osservatore si avvicina, cerca di cogliere un piccolo gesto della mano, un segno, qualcosa che gli faccia sperare di essere stato visto; vorrebbe intuire una sillaba, un suono che esce dalle loro bocche, socchiuse come quelle di un manichino.
Resta a lungo in attesa.

È questa la sensazione che prova lo scrittore quando la sua anima si rifiuta di concedergli parole che sappiano esprimere quella intricata e vischiosa condizione dalla quale deve riuscire a liberarsi per poter tornare a respirare.

È una sorta di tempo sospeso, un senso di smarrimento che in breve diventa angoscia, incapacità di dominare emozioni così forti e sconvolgenti da alterare l’equilibrio del fisico.

Come fare per ritrovare le parole, come indurle a dare forma alla narrazione, come restituire all’intuizione la forza di rendersi manifesta? Come ristabilire il flusso di energia che attraversa il corpo fino a mettere in moto ricordi, visioni, creazioni fantastiche? Come riconnettersi alla potenza creatrice delle parole che ricongiunge, in una sorta di espressione trinitaria, la mente, il cuore e l’anima?

Come uscire dalla paura di questo silenzio, come disegnare i sentimenti che hanno bisogno di essere detti, di essere scritti per ritrovare le tracce del vissuto, per conservare il legame con le radici, per immaginare al di là del presente?

Le domande si addensano mentre lo sguardo non si stacca da quelle immobili figure, nere e silenti, che sembrano stare a guardia dell’invalicabile portale dell’ispirazione.
Si stagliano ieratiche come antiche sacerdotesse, decise a non concedere alcun accesso.

Le parole rifiutano di darsi un senso compiuto, di mettersi a disposizione di una storia; vogliono starsene nello spazio sospeso del non detto, vogliono affinare l’esperienza metafisica che ha bisogno di vuoto e di silenzio; la bocca non si schiude per far uscire nomi, fatti, fonemi: tutto è assenza.

Quel sentire, aggrovigliato nelle viscere dell’esistenza, non vuole concedersi alla mente che cerca di farla ancora una volta da padrona tessendo elaborati arazzi nei quali frasi e parole gareggiano per trovare posto tra mille forme.

Appaiono immagini sul fondale fiorito dei profumi del sottobosco, ma pare impossibile riuscire a catturarle senza una descrizione che le riporti nei territori del comunicabile: solo percezioni, visioni fluttuanti fra ciò che si percepisce come vivo e ciò che non riesce a nascere.

Mi è accaduto in questo inizio d’estate ed è stato molto difficile accogliere, comprendere questo rifiuto da parte delle parole di assecondare la mia scrittura.

Sulle prime l’ho sentito come un grave affronto: figlie ostinate che non riconoscono la grande fatica di farle crescere, renderle belle, mostrarle in società.

Poi, pian piano, ho lasciato che il risentimento lasciasse posto al perdono, che la tenerezza mi guidasse così da sospendere ogni giudizio; ho cercato di comprenderne le ragioni: le parole sono un dono e, in quanto tali, non è scontato il loro offrirsi specie quando le accogliamo in modo tiepido, dando per certo che saranno sempre pronte e disponibili a servire le più svariate cause, a sciorinare concetti e teorie buoni per tutte le stagioni.

E invece può accadere che le parole, divine Signore, memori del loro passato, paragonabili alle antiche themistes dei Greci, le “norme” etiche non codificate e scritte ma impresse nel cuore degli umani, compiano l’estremo sacrificio di se stesse condannandosi al silenzio per ricordarci che è tempo di ridare sacralità alla parola, di sottrarla al chiassoso spettacolo delle chiacchiere “senza qualità”, di ritrovare quella interiore purezza nella quale alligna l’esperienza della parola come verità.

Quel dolore sordo che aveva invaso il mio cuore reso muto, incapace di vedere se non attraverso la parola si è trasformato in ascolto del silenzio.

È solo la commozione a toccare il cuore come la musica di uno strumento multicorde, la commozione scivola nelle fibre della materia: è soltanto esperienza di intensità.

Lascio che scorrano dentro di me, inudibili se non attraverso la voce del cuore, i versi di antica poesia:

Cantano gli insetti,
tra mille erbe in fiore;
solo, nella mia capanna,
aspetto stanotte
il sorgere della Luna1.

Lascio che sia l’interiorità a condurmi oltre il dicibile, e vien meno il timore di non avere frasi da mostrare, teorie da esplicitare giacché nel vuoto della giusta contemplazione c’è infinito spazio per “condividere il sentire” che è compassione, per immergersi nell’immenso oceano della pietà che trascende ogni separazione, ogni incomprensione, che è carezza e gesto.

Con grande meraviglia sento che la privazione del suono delle parole, il loro negarsi ha reso diversa la mia attesa: non cerco di blandirle affinché si rendano disponibili per la mia narrazione, ma ho il desiderio di esprimere loro tutta la mia gratitudine per avermi concesso di essere lì, in contemplazione, insieme alle donne in nero, piena di ammirazione per avermi mostrato la via dell’assenza che aiuta a comprendere, ad intuire il valore profondo del dono.

Un po’ in disparte per non turbare l’armonia del loro stare mi avvicino anch’io al grande tavolo e mi siedo a contemplare nella quiete dei discorsi, nell’assenza di sapere appagata dalla visione di bellezza.

1 Daigu Ryokan, Poesie di Ryokan, Ed. La Vita Felice, Milano, 2003.

A cura di Save the Words ®