È il 1966. Sam Peckinpah ha da poco terminato le riprese di Noon Wine, episodio facente parte della serie antologica Stage 67, dell’americana ABC, e nato dalla penna di Katherine Anne Porter. Dopo la brutta esperienza con Cincinnati Kid – sul quale aveva iniziato a lavorare prima che la Metro-Goldwyn-Mayer decidesse di rimuoverlo, a causa della sua visione troppo cupa e pessimista/realista – si apre un nuovo spiraglio nella vita professionale del regista, una nuova opportunità per poter lavorare ad un lungometraggio in totale autonomia.

La nuova grande occasione arriva con Viva! Viva Villa!, con Ted Richmond, in qualità di emissario della Paramount, che offre al cineasta statunitense l’opportunità di scrivere una sceneggiatura basata sulla vita di Pancho Villa, nella versione biografata da William Douglas Lansford; l’accordo è molto interessante, perché a fronte di un copione ben scritto sarebbe divenuta certa anche la possibilità di dirigere l’opera filmica. Salvo trovare approvazione nell’attore principale della pellicola, Yul Brynner, che era stato già ingaggiato per indossare le vesti del rivoluzionario messicano.

Anche in questo caso, però, la sfumatura molto cruda e a tratti spietata del condottiero non trova il gradimento dell’attore, e nemmeno della major: Robert Towne viene chiamato per riscrivere la sceneggiatura, mentre la regia finisce in mano a Buzz Kulik. Si era appena chiusa l’ennesima porta per Sam Peckinpah, che dopo Sfida nell’Alta Sierra (1962) non aveva più trovato l’opportunità di dirigere e scrivere un film secondo la propria visione, risultando costantemente castrato da produttori e attori esigenti.

La fine degli anni ’60, però, genera nuove e inedite condizioni per gli addetti ai lavori del mondo cinematografico: emerge una nuova visione attoriale, più realista, immedesimativa e vicina alla crisi identitaria dell’individuo moderno; termina l’era dello studio system hollywoodiano, nella quale le principali major erano riuscite a spartirsi tutte le fette della torta in fase di produzione e distribuzione; inizia, soprattutto, un periodo di maggiore riconoscimento dell’autorialità registica, con un grande controllo su quello che poi sarebbe stato il prodotto finale.

Ed è proprio da questo crogiuolo che sorge, da una costola della Warner Bros., la casa di produzione Seven Arts: nella sua vita brevissima, compresa tra il luglio 1967 ed il dicembre 1969, riesce a consegnare ai posteri alcuni titoli entrati nella storia, talvolta pure rivoluzionari per il medium. Basti pensare a Gangster Story (Arthur Penn, 1967), con il suo sconvolgente epilogo in slow-motion; o a Bullitt (Peter Yates, 1968), con Steve McQueen protagonista di un epico inseguimento a bordo di una Ford Mustang GT390 Fastback.

L’estate del 1967 è anche il momento in cui il produttore Phil Feldman e Sam Peckinpah hanno un primo contatto per discutere di The Diamond Story, ovvero quella che avrebbe dovuto essere una delle primissime creazioni della Seven Arts. Con la benedizione di Kenneth Hyman, capo dei neonati studios, i due si spostano a San Blas nell’autunno del 1967 per iniziare a lavorare sul materiale – che avrebbe dovuto coinvolgere, con buona probabilità, Lee Marvin nei panni di protagonista.

La ricerca delle location adatte, però, viene bruscamente interrotta dal maltempo che colpisce le isole, al punto da costringere i due ad un confinamento domestico di più giorni. In tale contesto di reclusione forzata, Peckinpah e Feldman iniziano a leggere una storia scritta da Roy Sickner e resa poi sceneggiatura da Walon Green: si tratta della base da cui, in seguito, il nativo di Fresno avrebbe estrapolato quel capolavoro de Il mucchio selvaggio.

La stesura è cruda, grezza e tutta da lavorare, ma nasconde una gemma: sotto una trama poco compatta e legata, più che altro, ad una serie di sparatorie, Peckinpah individua un potenziale tragico, quasi shakespeariano, nei destini dei suoi personaggi. Inoltre, dopo alcune valutazioni congiunte con il boss Kenneth Hyman, il futuro lungometraggio si configura come possibile successo al botteghino, potendo contare su una serie di ruoli capaci di attirare diversi attori di primo piano del panorama mondiale.

Viene perciò abbandonato in fretta e furia il progetto di The Diamond Story per, invece, abbracciare quello legato al nuovo copione. Fin dai primi giorni di riscrittura, Peckinpah si rende conto che uno dei problemi più grandi risiede nel dare una connotazione più profonda ai personaggi e, conseguentemente, risemantizzare il finale dell’opera, nonché tutto il messaggio di fondo della stessa: non più una narrazione legata a dei moderni Robin Hood o a dei cowboy dal cuore d’oro, come invece si evinceva nel trattamento iniziale; ma una storia, piuttosto, fatta di brutalità, di crisi morale e di redenzione.

Il plot ruota, infatti, attorno ad una comitiva di banditi (il mucchio) che, dopo aver rapinato un ufficio in Texas e un carico di fucili destinato all’esercito americano, si dirige in Messico, in modo da consegnare le armi al generale antirivoluzionario Mapache, alleato di Victoriano Huerta nella guerra civile del Paese. Ma sempre i medesimi malviventi, dopo aver preso consapevolezza del fallimento morale e dell’orrore legato al proprio stile di vita, decidono di affrontare l’esercito di Mapache in un atto suicida ma, al contempo, purificatore.

La banda capitanata da Pike Bishop (William Holden), un uomo i cui anni d’oro risiedono ormai alle proprie spalle, viene inoltre inseguita per tutto il film da Deke Thornton (Robert Ryan) e i suoi uomini, un’accozzaglia di cacciatori di taglie. Deke, di fatto, costituisce la nemesi del protagonista, in quanto ex bandito, nonché vecchio amico di Pike, che ha scelto di sposare gli interessi delle banche e, più in generale, della legge. Tale trasformazione, che consente all’uomo di sopravvivere in maniera più confortevole dentro al sistema, rinnega totalmente quel complesso di valori che, da criminale, aveva deciso di far suo.

Questo gioco di contrasti si trova anche nella scelta degli scenari, con le polverose cittadine e le desertiche vallate messicane che vengono inframezzate da alcune visioni edeniche, come quella del villaggio di Angelo (Jaime Sánchez): un vero e proprio angolo di Paradiso, una piccola oasi con acqua e cibo a volontà, ombra, pace e una diffusa armonia. Tutt’altro che un’immagine realistica, ma fondamentale per dare un senso particolare alla cavalcata verso sud del mucchio.

Ma il film non si nutre soltanto di significati allegorici o di pseudo-visioni. A tali elementi, infatti, si unisce anche una scrupolosa ricerca e studio della Rivoluzione messicana, non solo per ciò che concerne la storia: Sam Peckinpah e Lucien Ballard, direttore della fotografia, analizzano a fondo anche il tipo di immagini che i cinegiornali avevano fornito al tempo, cercano di emulare e di recuperare tale stile per poi inserirlo nella tipologia di riprese adottate.

L’uso dei costumi, del trucco e degli effetti speciali, allo stesso modo, è maniacale fin nei minimi dettagli, con grande attenzione rivolta alla resa visiva dell’impatto dei proiettili – ottenuta per mezzo di piccoli esplosivi noti come squib – e anche al colore del sangue, cambiandone pure la tonalità al variare del tempo che, nel racconto, sarebbe trascorso tra la sua fuoriuscita e l’effettiva visione sul profilmico.

Tale ossessione raggiunge forse il proprio apice con la scelta degli effetti sonori per i colpi d’arma da fuoco: la prima visione del materiale, infatti, fa infuriare Peckinpah proprio per la scelta dei suoni adottati, che di fatto finiscono per unificare la grande varietà di armi utilizzate, eliminandone completamente il potenziale espressivo. Le pretese di Sam vengono accolte e, dopo lunghi giorni di lavoro, il comparto sonoro produce più di cento diversi tipi di spari; al punto che, senza nemmeno guardare, si può intuire quale personaggio abbia premuto il grilletto sulla base del diverso calibro dell’arma posseduta ed utilizzata.

Ma è con il montaggio che la pellicola sfodera il pezzo più pregiato del suo arsenale: Lou Lombardo, conosciuto proprio sul set di Noon Wine, diventa il tecnico prescelto su richiesta esplicita di Peckinpah, in virtù della sua gioventù e della correlata sfrontatezza in termini di innovazione e non convenzionalità. L’italoamericano propone rapidamente alcune idee che aveva reso concrete nell’episodio My Mommy Got Lost della serie Squadra speciale anticrimine (1966-1969), colpendo in maniera estremamente positiva il regista.

La modalità ideata da Lombardo, nella quale vengono giustapposte delle inquadrature in slow-motion e altre a velocità normale, rappresenta il punto di arrivo ideale per Peckinpah, con un dinamismo capace di superare il ralenti statico di Gangster Story e de I sette samurai (Akira Kurosawa, 1954) per abbracciare una visione in cui la violenza viene decostruita nella sua forza primitiva, tra brutalità seducente e disgusto viscerale. La postproduzione de Il mucchio selvaggio farà scuola e sarà una delle più memorabili di ogni tempo, capace di ridisegnare per sempre le coordinate del montaggio e di farlo ascendere a nuove e incredibili vette.

La sequenza della sparatoria finale costituisce uno dei virtuosismi più straordinari della storia del cinema, con tutto l’arsenale di Lombardo e Peckinpah che viene scaricato sul pubblico al pari delle centinaia di colpi sparati. Una carneficina di sangue e di inquadrature di ogni tipo, unite tra loro nella maniera più originale, selvaggia e geniale che il cinema avesse mai visto fino al 1969.