In un mondo frenetico, due anime meditative che già dagli anni Settanta condividono la vita, due figli e la medesima passione per il viaggio e la scoperta, all’inizio del nuovo Millennio decidono di pellegrinare in cerca di santuari e collezioni di ex voto, testimoni silenziosi di eventi che hanno segnato il corso della Storia e delle persone.

Ogni Tavoletta votiva narra di malattie, trasporti, naufragi, guerre, tragedie quotidiane, tutte unite da un filo comune: la volontà umana di lasciare un segno nella memoria collettiva. E fino agli anni ’50 del secolo scorso è stata una delle forme d'arte popolare più vitale e prolifica. Le due anime meditative e affini restano impressionate da quanto si possa apprendere da quelle Tavolette. Lui, Franco Biagioni, pittore poliedrico, scenografo per il teatro dei burattini (ha lavorato con Otello Sarzi, burattinaio storico e qualche volta anche per il teatro degli umani (ha dipinto fondali per Marco Baliani, Carolyn Carson, Ascanio Celestini per citarne solo alcuni) è colpito dall’abilità degli esecutori degli ex voto nel dipingere qualsiasi cosa per riuscire a rappresentare ogni fatto accaduto.

Anche Franco, fin da ragazzo, voleva dipingere tutto e negli anni c’era riuscito, ma solo in parte. Lei, Simonetta Bellotti, letterata e visionaria (al bisogno anche organizzatrice, scrittrice e pr) è illuminata dalla potenza della forma narrativa: un faro di luce nel buio della dimenticanza e dell'oblio. Franco torna a casa e dipinge la prima Tavoletta laica. È dedicata alla strage di Ustica. Insieme iniziano a immaginare un progetto che prende definitivamente forma durante il ventesimo anniversario della strage di Bologna, di fronte al monumento che commemora le vittime: pochissimi dei presenti ricordavano e i più giovani non ne sapevano nulla.

È lì, Franco, che si è accesa la scintilla?

In quel momento abbiamo capito che siamo ciechi davanti ai nostri ricordi: proiettati così avidamente verso il futuro, il presente ci sfugge e il passato ci sembra troppo remoto. Raccontare con la pittura il nostro passato, esplorando le possibilità creative della memoria e offrendo agli altri l’occasione di riscoprire radici e identità attraverso l'arte, ci è parsa una strada da praticare.

Le Tavolette votive, per il loro significato originario, mi sono sembrate coerenti con il progetto che avevamo in testa. E poi io volevo allontanarmi dalla cultura degli anni Novanta che aveva reso la pittura arte da arredamento: a Milano la compravano “a metro”, per decorare abitazioni sfarzose, solo per status, quadri appesi da guardare passeggiando nelle stanze di casa. Io puntavo a opere che costringessero ad avvicinarsi, a una relazione diretta. E poi non ero interessato a una pittura introversa: pensavo di voler raccontare le cose che accadono nel mondo.

Le Tavolette costringono ad avvicinarsi all’opera.

Sì, e sono piene di dettagli visibili solo a pochi centimetri di distanza. Deve essere un viaggio nel dettaglio: nelle mie ci sono elementi che arricchiscono il fatto, che inserisco io, alcuni politici, altri poetici, alcuni espliciti, altri suggeriti. Cerco la rappresentazione del fatto, non il fatto in sé. Spesso dipingo avvenimenti di cui non ci sono immagini, per esempio Ustica, perché questo permette a chi guarda di metterci del suo, senza visioni preventive.

Dal 2000 ha dipinto circa 300 opere che sono potenti contenitori di memoria e, per lo stile pittorico, sembrano raccontare un Medioevo contemporaneo.

Mi piace questa definizione, stilisticamente calza. Le tavolette hanno un’impostazione teatrale: ognuna diventa il palcoscenico nel quale si rappresentano azioni sceneggiate dalla realtà̀; le ombre non sono naturali, alcune convergono. Dipingo gli eventi come se si fosse in teatro, dal punto di vista del loggione.

Da Ustica al Ponte Morandi, dalla strage di Capaci all’11 settembre, ma anche eventi sportivi, musicali, un mix di fatti storici e accadimenti personali. Che cosa è stato più difficile dipingere e cosa emotivamente le restituisce il progetto?

Ustica e la strage di Bologna sono tra gli eventi più emotivamente complessi da ritrarre. La parte dalla ricerca sulle storie è già un viaggio emotivo. Le escursioni nei territori per cercare ispirazioni, dove incontro personaggi straordinari, come l'alpino che ha arpionato una balena cui ho dedicato una Tavoletta: una storia di fame e solidarietà diventata parte fondamentale del nostro progetto, perché legata alla Storia collettiva della seconda Guerra Mondiale. Per il protagonista è stata un’emozione enorme: per la prima volta ha visto il suo racconto rappresentato in modo autentico. Questo conferma l'importanza di raccontare e tramandare gli eventi personali attraverso l'arte.

Simonetta, il suo vissuto emotivo?

A me colpisce la risposta commovente da parte del pubblico. Le persone si avvicinano al quadro e rivivono le loro memorie legate agli eventi rappresentati in un dialogo profondo tra l'opera e chi la osserva. Il pubblico ci ringrazia e i giovani in particolare dimostrano una grande curiosità anche per gli eventi storici rappresentati. Noi ragazzi del ‘900 conosciamo la guerra perché ce l’hanno raccontata a voce, attraverso la vita vissuta. Oggi nessuno tramanda più i fatti, neppure quelli attuali. Per questo L’Archivio, trasformando ogni Tavoletta in un palcoscenico laico della memoria collettiva, diventa per i giovani un viaggio nella conoscenza della Storia, che è sempre fatta da un insieme di eventi.

L’Archivio come un grande nonno…

In un certo senso sì (sorride). Il bisogno di raccontare e, ancor più, il bisogno di sentirsi raccontare è profondamente radicato nell'essere umano. È importante preservare queste storie per le generazioni future.

Simonetta, come reagiscono i bambini di fronte a opere che raccontano tragedie?

Un bimbo di dieci anni prova malinconia, come ci ha sintetizzato il figlio di una visitatrice: il bimbo ha letto con la mamma le didascalie inscritte su ogni Tavoletta, ha chiesto informazioni e ha sentenziato: “mi è piaciuto tutto, ma certe cose mi hanno fatto tanta malinconia”. La pittura media il dramma, per questo malinconia e non dolore, spavento. In questo modo però i fatti arrivano lo stesso.

Franco, per questo ha scelto lo stile teatrale?

Sì, è una forma di racconto che non edulcora, ma rende più fruibile il dramma. Così dalla visione non esci scosso, piuttosto riflessivo. È questo l’obiettivo.

Simonetta, questo progetto non prevede la vendita delle opere: come si finanzia?

La vendita anche di una sola tavoletta dell’Archivio tradirebbe l’impianto del progetto. Galleristi e curatori ci hanno sempre guardato straniti. Abbiamo allora deciso di affiancare all’Archivio una produzione di Santini con ritratti di personaggi, più o meno famosi, che colpiscono il nostro immaginario: da Salvator Dalì a John Lennon a Hitchcock. Hanno la dimensione di una cartolina e la loro vendita ci aiuta a sostenere il progetto. Così come il Santuario mobile: una sorta di edicola itinerante che ci permette di partecipare a mostre ed eventi in forma ridotta e fare piccole campagne di sostentamento con donazioni a offerta libera.

Franco, ci racconta di questo?

Mi diverte, mi mette in contatto con tante realtà e persone che altrimenti non incontrerei. Ad esempio: ho realizzato due Tavolette dedicate a Santa Lucia nella cappella del Duomo di Siracusa, su richiesta della diocesi locale, parte di un progetto più ampio di riconoscimento storico. Poi ci sono persone che hanno piacere di far ritrarre un fatto della loro vita, ma in genere hanno sempre un legame con qualcosa di più grande, una dignità storica, direi.

Cosa è cambiato nella pittura delle Tavolette e nella fruizione del pubblico dall’inizio di questa avventura?

Tutto è in evoluzione ma la scintilla è rimasta intatta, anche se la tecnica pittorica può mutare al… mutare della mia retina che “matura” nel tempo. Anche il pubblico è diverso, ma ci ripaga con uguale entusiasmo da quando abbiamo esposto per la prima volta al salone del libro nel 2002: le persone comprendono lo spirito del nostro lavoro, ci ringraziano e questo mantiene viva quella scintilla.

Un archivio per definizione è infinito: non è un’utopia?

Gli archivi sono un’utopia se si pensa di completarli nell'arco di una vita. In quel caso si chiudono quando si crepa (ride). Se però si costruisce pensandolo collettivo, allora può continuare a rappresentare un'importante testimonianza della nostra storia e del nostro tempo.

Pensa sia possibile in questa epoca un po’ smemorata?

Sono profondamente confuso e sconcertato dalla perdita di senso e di storia che sembra caratterizzare la società contemporanea. Sono parecchio malinconico, per dirla con quel bambino che ha visto la mostra, perché ogni giorno mi rendo conto di come siamo cretini noi esseri umani. Non impariamo quasi nulla. Tuttavia, o forse proprio per questo, continuiamo a lavorare per preservare e raccontare la memoria collettiva attraverso le nostre opere. Ostinati e contrari.