Amo il silenzio, e non perché odio le parole, al contrario. Se il cane abbaia e la vicina urla ho utilissimi tappi di gomma, che mi trasportano magicamente in un’altra dimensione, così m’immergo nella lettura; può essere quella di un libro o di una rivista, qualsiasi cosa abbia odore di carta e sia scritta da chi usa ancora sporcare il foglio con pensieri propri.

Il web è il grande inganno del secolo; ci ha fatto credere di essere più vicini, di poter comunicare con tutto il mondo con un solo click e, invece, siamo lontani anni luce da chi vive a pochi centimetri da noi e dal nostro ego.

Quando navighiamo su Internet, un algoritmo decide a quali informazioni possiamo o non possiamo accedere, cosa guarderemo, cosa compreremo e cosa snifferemo. Non sono contro nessun proibizionismo, credo solo che un essere umano debba decidere da solo e vivere come il buon Dio l’ha creato: libero, condizione ideale per scegliere veramente.

L’informazione, oggi è nella maggior parte dei casi “influenza”, non ci danno più i consigli per gli acquisti, ci influenzano. Il messaggio è chiaro: “Guarda come sono bello e felice, vuoi essere come me?”

Sul foglio di carta, almeno non lampeggia la scritta che mi invita a investire in bitcoin, per cui non guadagnerò, né perderò, e senza connessione non sarò in balia di algoritmi che non sanno un cavolo di me. Non voglio che la mia vita sia governata da complicati procedimenti di calcolo. In compenso godrò di qualche ora di assoluto benessere, leggendo e scrivendo con la penna (quella senza piuma, non esageriamo con l’era della pietra). Sembrerà arcaico scrivere senza tasti e leggere un giornale in carne e papiro, ma il tanto decantato progresso è solo un falso allarme, un perfetto tarocco; suona strano ma, per certi aspetti non siamo avanti per nulla, evoluti neanche a pensarlo, lo erano molto di più i nostri nonni. L’emancipazione percepita attraverso tablet, pc e smartphone è la più grande balla di tutti i tempi, la verità è che fra le mani abbiamo la clava (o qualcosa di molto simile). Nonostante l’avanguardia tecnologica restiamo sempre senza memoria. Il progresso non va mai di pari passo con ciò che amiamo chiamare evoluzione umana, anzi sembra quasi essere il contrario (siamo violenti, brutali, superficiali, ignoranti, arroganti: esagero?).

La globalizzazione ha soffiato come un vento e ha trasportato tutte le nostre miserie in giro per il mondo; siamo meno ricchi (ovvero la ricchezza si è trasferita nelle mani di pochi), sempre meno uguali, e per finire non c’è nessuna liberté, égalité, fraternité fra i popoli. Inutile sarebbe elencare le conquiste dello spazio, la ricerca della vita su Marte e di altri esseri simili a noi; bene, io credo che anche sulla terra ci sia vita e persone in carne e ossa che ci somigliano proprio tanto, anche se questo non ci piace (e ciò lo potrebbe affermare qualsiasi marziano).

Il senso del “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, paradossalmente pronunciato più di duemila anni fa (e che ancora non abbiamo imparato) è un modo come un altro per affermare che nonostante le differenze siamo simili (forse la diversità è la vera ricchezza che dovrebbe essere globalizzata). La gente ama riflettersi negli altri, e solo quando quell’immagine corrisponde a successo e realizzazione tutti si riconoscono.

A nessuno piace guardare un vecchio, un povero o un fallito perché non riuscirebbe mai a vedere un proprio simile, lo sguardo si ferma e l’anima non sa andare oltre, resta intrappolata fra le tristi mura dell’apparenza. Molti anche quando si guardano in uno specchio vero non vedono nulla; questa è la dolorosa condanna del secolo delle connessioni, degli algoritmi e di specchi che non riflettono. L’unica speranza di salvezza sono i sogni veri e il ritorno a un’antica abitudine ormai quasi scomparsa: il pensiero.