Quando il medico era la cura

Fino al 1800 la diagnosi si basava sull’esposizione del decorso della malattia e la descrizione dei sintomi da parte del paziente. In quel tempo, il processo diagnostico era centrato su elementi soggettivi: il resoconto del paziente e l’interpretazione del medico, mentre le prescrizioni si limitavano a consigli infarciti di argomentazioni filosofiche e a terapie di dubbia efficacia. Di fatto, la dignità della medicina doveva essere assicurata dal rispetto di idee universali e il medico si asteneva dal compiere attività manuali sul paziente, dato che esse erano considerate non consone alla sua rispettabilità e per questo motivo relegate a chirurghi e barbieri.

Nel corso dell’Ottocento il rapporto medico-paziente subì un radicale cambiamento. Per superare le imprecisioni, la scarsa accuratezza e le distorsioni interpretative implicite nei racconti del paziente, si affermarono alcuni promettenti metodi d’indagine di tipo oggettivo, quali la percussione e l’auscultazione. A metà del XIX secolo s’introdussero l’oftalmoscopio, il laringoscopio e lo sfigmomanometro, alla fine dell’Ottocento i raggi x e l’elettrocardiografo e via via, in un crescendo senza fine, un numero sempre maggiore di sofisticati strumenti diagnostici e terapeutici. Oggi, in pratica, nessuna decisione clinica importante è adottata senza il supporto della tecnologia.

La crescente fiducia nei mezzi offerti dalla tecnologia e nei nuovi metodi d’indagine ha portato, così, a soppiantare quasi completamente, anamnesi ed esame obiettivo, in favore di dati strumentali e di laboratorio, considerati molto più affidabili, precisi e oggettivi.

Specializzazione e sviluppo dei saperi

Fino alla prima metà dell’Ottocento, la medicina era considerata una disciplina unica e indivisibile. L’idea della specializzazione era associata a ciarlatani e guaritori ambulanti, esperti in singole procedure ma incapaci di una visione globale dell’uomo e della malattia. “In quel tempo i medici, disapprovavano coloro che si occupavano di un solo aspetto della medicina e vedevano con angoscia profilarsi un futuro dominato dalle specializzazioni, in cui ciascuno specialista avrebbe diretto l’attenzione su un’unica malattia, trascurando il resto della persona”.

Tuttavia, ben presto fu chiaro che la specializzazione avrebbe avuto uno sviluppo incontenibile e avrebbe scompaginato il modo di praticare la medicina. All’inizio del Novecento, le specialità mediche erano già una trentina e continuavano a moltiplicarsi. Nel 1910 il chirurgo americano William Mayo osservava che “la somma totale delle conoscenze era ormai così grande e disparata che sarebbe stato vano per qualsiasi uomo da solo pensare di avere una conoscenza di gran parte di essa, anche solo a livello empirico”.

Anche lo sviluppo dei saperi ha registrato una continua espansione. Nel 1200, l’università di Parigi contava quattro discipline: teologia, medicina, arti e diritto canonico. Oggi vi sono centinaia di discipline accademiche distribuite in ogni ambito del sapere: scienze umane, sociali, naturali, applicate, ecc.

La rete della vita

Il crescente sviluppo delle specializzazioni ha certamente conseguito straordinari successi ma ha messo in luce i limiti dell’approccio riduzionistico basato sull’analisi del particolare e sull’idea che ogni fenomeno possa essere isolato dal contesto di riferimento e spiegato attraverso lo studio dettagliato degli elementi di cui è costituito. Oggi sappiamo infatti che vi sono proprietà collettive (chiamate “emergenti”) che traggono origine dalle connessioni tra i vari elementi di un sistema e che scompaiono se si interrompono le mutue interazioni. Nasce la visione sistemica e l’attenzione si sposta dagli oggetti alle loro relazioni.

Così, mentre la scienza classica si concentra sull’analisi dei singoli aspetti della realtà, la visione sistemica introduce una serie di nuovi concetti che formano la base della scienza moderna: feedback, non-linearità, contingenza, emergenza, cooperazione, auto-organizzazione e ci ricorda che tutti i fenomeni che osserviamo sono il risultato di una rete di eventi interdipendenti, dove il cambiamento di un elemento agisce su gran parte degli altri, anche se non direttamente connessi.

Come abbiamo potuto ben constatare durante la pandemia da Covid-19, “il mondo che conosciamo, che ci riguarda, ci interessa, ciò che chiamiamo realtà, è la vasta rete di entità in interazione, che si manifestano l’una all’altra interagendo, e della quale facciamo parte. Una persona, ad esempio, è simultaneamente un “elemento” fisico, chimico, biologico, fisiologico, mentale, sociale e culturale e risponde in modo differente, ma non disgiunto, a ciascuno dei sistemi a cui appartiene. Così, dato che tutto è interdipendente, il cambiamento di una minuscolo microorganismo, ai confini della biologia, può ingigantirsi e diffondersi attraverso la rete della vita, fino a sconvolgere l’organizzazione dell’intero pianeta.

Specializzazione e cooperazione: l’unione fa la forza

La spinta verso la specializzazione e lo sviluppo di nuove competenze rappresenta l’essenza di ogni processo evolutivo, sia esso biologico che sociale. In natura, l’acquisizione di una nuova capacità da parte di un elemento procede di pari passo con la sua integrazione in un sistema più grande. Pensiamo, per esempio, ai miliardi di cellule che compongono il nostro organismo: neuroni, epatociti, linfociti, osteoblasti... Ciascuna linea cellulare si è altamente specializzata per compiere una particolare funzione obbedendo ai principi organizzativi di una struttura straordinariamente complessa. Aggregandosi e cooperando le cellule affinano la capacità dell’organismo a cui appartengono di rispondere agli stimoli che provengono dall’ambiente esterno, aumentando le sue probabilità di riprodursi e di sopravvivere. Tuttavia, tali benefici sono controbilanciati dal fatto che le singole cellule rispetto, per esempio, ad un organismo monocellulare come un’ameba o un batterio, devono rinunciare alla loro autonomia. I macrofagi giungono perfino a sacrificarsi per difendere l’organismo da un’invasione microbica.

Allo stesso modo, nelle organizzazioni sociali la specializzazione rappresenta un valore aggiunto a condizione che si accompagni alla cooperazione, la quale richiede la condivisione di regole comuni e la rinuncia ad alcuni gradi di libertà. In altre parole, gli esperti rappresentano un importante fattore d’innovazione e di crescita delle organizzazioni, il loro contributo è essenziale per la soluzione dei problemi purché esso sia fondato sulla lealtà, la condivisione dei saperi e il rispetto dei diversi punti di vista. Occorre cioè ricercare una giusta mediazione tra le conoscenze dei singoli specialisti e la visione d’insieme dei problemi, perché, come ci ricorda Edgar Morin: “mentre progredisce la conoscenza delle parti si aggrava l’ignoranza del tutto e per affrontare i fenomeni complessi, non basta semplicemente giustapporre frammenti di saperi diversi. Occorre trovare il modo per farli interagire all’interno di una nuova prospettiva”.

Analitico, sistemico o entrambi?

Abbiamo visto che la medicina, come ogni altro campo del sapere, è proiettata in modo irrefrenabile verso la specializzazione e la tecnologia ed è certo che tale processo di differenziazione sia destinato a estendersi ulteriormente. D’altra parte ciascuno di noi, in caso di necessità, vorrebbe giustamente essere trattato dal miglior specialista e con le tecnologie più innovative. Tuttavia questo approccio, cosiddetto analitico, che si concentra sugli aspetti biologici della malattia, sulla specializzazione, la frammentazione dei saperi, la standardizzazione e l’uso esasperato della tecnologia, non è adatto per risolvere qualsiasi problema di salute.

Per il paziente cronico, per esempio, l’obiettivo principale non è la guarigione clinica ma il controllo dei fattori di rischio, la gestione dei sintomi, la compensazione dei deficit funzionali e il mantenimento delle relazioni sociali. La cura del paziente cronico riguarda i vari aspetti della vita e coinvolge nel medesimo tempo fattori di carattere scientifico, sociale, organizzativo, gestionale, biologico, psicologico, emozionale. Si tratta di problemi diversi, interdipendenti che vanno affrontati in un’ottica sistemica, di cooperazione, d’integrazione e di mutuo soccorso tra i professionisti della salute, la famiglia, i servizi sociali e la comunità di riferimento.

Adottare una visione sistemica significa anche rendersi conto che la nostra salute non dipende solo dalla medicina ma riguarda la vita in tutti i suoi aspetti ed è influenzata in larga misura dalle interazioni tra uomo, natura e ambiente sociale. Ciascuno di noi, per quanto di competenza, ha quindi la responsabilità di adottare comportamenti e stili di vita che contribuiscono a mantenersi in buona salute e a preservare l’ambiente fisico e sociale circostante, in una sorta di “relazione ecosistemica”, come la chiama Edgar Morin.

Comunque, entrambe le prospettive (analitica e sistemica) sono essenziali e solo attraverso l’equilibrio tra la valutazione specialistica e la visione sistemica, si trova il significato del nostro agire e delle scelte che ne conseguono. Specializzazione (intesa come riconoscimento dell’individualità) e integrazione (intesa come capacità di cooperare), rappresentano i due principali requisiti attraverso i quali si sviluppano ed evolvono i sistemi complessi, fisici, biologici e sociali. Ogni volta dobbiamo chiederci quando utilizzare l’una o l’altra delle due prospettive, riflettere sui vantaggi e svantaggi dell’una e dell’altra, nella ricerca di un equilibrio che le contempli entrambi, come il buon tessitore sceglie e intreccia i fili della trama e dell’ordito per disegnare e produrre un tessuto di buona qualità.

Cinque consigli per tessere la tela

Gran parte delle decisioni che attengono alla nostra vita non rispondono né a regole certe, né a ricette preconfezionate. Non vi sono precetti validi per ogni circostanza, ma solo indicazioni di percorso e soprattutto la consapevolezza che la maggior parte delle nostre scelte sono adottate in condizioni d’incertezza. Ecco, comunque, cinque consigli.

  • Sviluppare le relazioni: le relazioni sono i pilastri della convivenza e del benessere. Ogni cosa è parte di un insieme più ampio e interdipendente. Quanto più aumenta la specializzazione, tanto maggiore è la dipendenza dagli altri. Occorre scongiurare il pericolo dell’isolamento attraverso un continuo processo d’interazione e cooperazione.
  • Aprire la mente: un atteggiamento aperto, svincolato da pregiudizi e ideologie, favorisce il dialogo e l’ascolto. Occorre essere aperti, pronti a considerare nuove idee, disponibili a valutare differenti prospettive e a esplorare nuovi percorsi.
  • Portare rispetto: i conflitti diminuiscono o si esauriscono quando gli individui si riconoscono l’un l’altro interdipendenti e complementari. È bene essere disponibili a considerare, con mente aperta, differenti opinioni e lasciarsi guidare dai valori più che dalle procedure.
  • Riconoscere la diversità: la maggior parte dei problemi sono carichi di valori, multidimensionali, ambigui, instabili, aperti e non risolvibili una volta e per sempre. Nel prendere le decisioni, occorre tener conto dei diversi punti di vista e riconoscere che spesso, date le specifiche circostanze, per risolvere il medesimo problema possono coesistere soluzioni diverse.
  • Lavorare insieme: in campo medico la frammentazione delle cure è oggi uno dei principali ostacoli ai tentativi di migliorare l’assistenza. Vi sono crescenti prove scientifiche che l’assistenza attraverso teams multidisciplinari migliora l’adozione delle decisioni, il coordinamento dell’assistenza, gli esiti clinici e la soddisfazione dei pazienti e degli operatori.

Bibliografia

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