Oggi, domenica 11 febbraio, siamo in Tahrir Square per prendere il bus numero 8 che porta a Giza. È incredibile vedere la calca di persone che sgomita per riuscire a salire su certi autobus urbani, alcuni addirittura si arrampicano per entrare dai finestrini. Un “self-control” egiziano per noi spassoso, che ci riporta alla mente il film muto comico degli anni ‘30. Sul bus ci colpisce la presenza di due donne, entrambe protette dai mariti che allargano le braccia attorno al corpo delle mogli per proteggerle dai passeggeri che, con lo sguardo fintamente assente, cercano di strusciare il basso ventre sulle donne. Una di queste ha il braccio sollevato con la mano aggrappata alla maniglia, una posizione che le scopre il polso e tutti gli uomini che le stanno attorno posano lo sguardo su quel pezzetto di carne femminile scoperto, pur essendo una donna non più giovane. Visioni che rivelano la difficile condizione femminile in relazione al rapporto fra le donne e gli uomini. Sul fronte opposto, appena giunti al mercato una giovane araba pizzica il sedere ad Aldo che reagisce in automatico con una intensa chiacchierata. Facendo sempre attenzione allo sguardo degli uomini che ci osservano con sospetto e insistenza essendo gelosi delle loro donne, in quanto stranieri. Gradualmente apprendiamo, giorno dopo giorno, alcune delle tecniche di approccio e modi di comunicare in questa parte di mondo.

Dalle Piramidi si vede bene la coltre di smog che avvolge il centro del Cairo, causata dalla bassa pressione e dalle numerose fornaci che inquinano l’aria, costruite lungo le sponde del Nilo. Lo si capisce bene dai capelli sporchi quando ci si lava la testa. Ormai ci muoviamo disinvolti fra le Piramidi, i molesti noleggiatori di dromedari e cavalli già ci conoscono, sanno che non siamo interessati a farne uso e non insistono più per convincerci. Gli stessi vendono anche hashish e pare sia di buona qualità. Scendiamo poi nel fatiscente e fangoso borgo di Giza, situato a pochi passi dalla Sfinge, dove i bambini si divertono sui cavalli di cartapesta della colorita giostra artigianale situata nella piazzetta centrale. Qui incontriamo anche Franco e Vittorio, i due tecnici ferraresi che da mesi lavorano alla costruzione dell’Holiday Inn. Assieme saliamo infine sui dromedari, dopo ci fumiamo un narghilè davanti ad una ricca spremuta di carote e per pranzo, in un piccolo spaccio sulla via rimediamo del pane ed una scatola di sardine a testa.

Da Giza prendiamo il bus per la cittadella di Saladino, posizionata su di una collinetta non distante dal centro e che tutti da giorni ci consigliano di visitare. Si tratta di una imponente fortezza del 1183 voluta dal sultano omonimo, un musulmano sunnita di origine curda, per proteggere il Cairo dagli assalti dei crociati. Al suo interno, di notevole interesse la moschea di Muhammad Ali progettata da un architetto ottomano turco e ispirata nella sua forma alla celebre moschea di Santa Sofia ad Istanbul, famosa per le pareti ricoperte di alabastro. Altre caratteristiche della moschea sono i suoi slanciati minareti altri 82 metri, la cupola in stile ottomano e la torre con l’orologio ceduto dal re Luigi Filippo di Francia nel 1836 in cambio dell’obelisco del tempio di Luxor. L’opuscolo guida sottolinea che l’orologio si ruppe durante il trasporto in nave e non ha mai funzionato, mentre l’obelisco troneggia in Piazza della Concorde a Parigi.

Al ritorno in albergo ordiniamo la cena in camera e quando viene il cameriere a chiedere il conto rifiutiamo di pagare il piatto di riso perché troppo freddo, gelato. È un cameriere indisponente e scortese con noi due ma ossequioso per un baksis con i clienti che indossano giacca e cravatta. Ne segue una accesa discussione che ci vede costretti a mandarlo fuori dalla camera in malo modo: “Fai venire un responsabile, uno meno idiota di te!”. Dopo una decina di minuti torna a bussare alla porta tutto buono e gentile per dirci che è andato a sgridare il cuoco. Tregua è fatta ma guai abbassare la guardia.

Martedì 13 febbraio, eccoci soddisfatti al Consolato. Il mio passaporto nuovo è finalmente pronto ma incredibilmente valido sino all’11 agosto 1979, soltanto sei mesi. Inoltre, invece di consegnarmi anche il passaporto vecchio valido ancora tre anni, come da prassi in questi casi, lo hanno annullato con sopra il visto sia egiziano che sudanese: “Adesso come la mettiamo?”. La Grimaldi si scusa dicendo di aver letto da qualche parte che il passaporto vecchio andava annullato. Quando chiedo che mi mostri tale ordinanza cade nel vago. Fa niente, rimedierò strada facendo, per adesso sono troppo contento di lasciare in fretta il Cairo e continuare il viaggio dopo tanti giorni di sosta obbligata.

Ora, tutto si rimette in moto. Come prima tappa andiamo subito al Consolato somalo, dove il solito impiegato anti-sovietico sostiene che difficilmente riusciremo ad avere anche il visto etiope: “Colpa di russi e cubani, non vogliono che nessuno assista al loro massacro dei rivoluzionari eritrei”. Continua: “Prima i russi erano in Somalia e nessuno poteva venirci, mentre era però facile andare in Etiopia, adesso si sono messi con gli etiopi ed è tutto cambiato”. Ridendo ci saluta con una delle sue sintesi: “I russi sono dei poveracci, a Mogadiscio bevevano una Coca-Cola in tre”.

Andiamo poi di corsa a prenotare il biglietto del treno per Luxor di venerdì 16 febbraio. L’enquire office serve solo le prenotazioni del “night train and sleeping wagon”, cioè quello che parte ogni sera alle 19 e arriva alle 6 del mattino dopo ma a noi interessa vedere il paesaggio con la luce del giorno e quindi ci rechiamo allo sportello del “day train”: seconda classe, carrozza 9, sedili 59 e 60, con partenza alle 7,30 dal binario 8 e arrivo a Luxor alle 17,30, al costo di US$ 5.50.

In questa stazione enorme e labirintica, nel frastuono di una grande folla in movimento, con sportelli diversi per ogni destinazione e file separate tra uomini e donne, un signore egiziano ascolta, sente che siamo diretti a Sud e vuole sincerarsi che andiamo a visitare i luoghi più noti e a lui cari, come i templi di Luxor e Karnak, l’antica Tebe, la Valle dei Re e quella delle Regine. Insiste poi per farci segnare sul taccuino pure le tappe d’obbligo da vedere ad Aswan: Isola Elefantina, il mausoleo di Aga Khan, il villaggio nubiano, la diga, l’obelisco incompiuto e i templi di Philae. Spiega che dal barcone che attraversa il lago Nasser vedremo il maestoso complesso di Abu Simbel, smontato e ricostruito tale e quale in bella vista sulla costa occidentale. Con la costruzione della diga, nel 1960 fu necessario spostare il complesso nel luogo in cui si trova ora, 280 km a Sud-Ovest di Aswan. All’arrivo a Wadi Halfa in Sudan, invece, secondo il nostro appassionato interlocutore, vedremo una zona del lago invasa da gru e uccelli strani. Ci intrattiene con racconti interessanti ed è venuto per noi ormai troppo tardi per andare ad Alessandria e ad El Alamein, come avevamo progettato ad inizio giornata. Cambiamo velocemente programma e decidiamo di andare a visitare Menfi, un museo a cielo aperto che dista appena 20 km a Sud del Cairo, sulla sponda occidentale del Nilo. Si ritiene che il sito risalga attorno al 3000 a.C. e la colossale statua adagiata al suolo di Ramses II, ricordato come il più grande e celebrato faraone dell’impero egizio, è di gran lunga la più spettacolare testimonianza artistica di Menfi, alta quasi dieci metri. Tra le decine di reliquie, oltre alla magnifica statua senza piedi di Ramses II, spicca la Sfinge di Alabastro, un’altra delle più importanti statue d’Egitto scolpita in un unico blocco di questo materiale.

Mercoledì 14 riesco a riavere il visto sudanese sul nuovo passaporto senza spese extra ed anche al Government Building mi spostano il visto egiziano dal passaporto vecchio a quello nuovo per potere uscire dal Paese. Passiamo dal cosiddetto New Market, situato alle spalle della pensione Roma, dove al mercato nero sul dollaro alcuni mercanti concedono un cambio molto vantaggioso. Qui vendono sigarette americane di contrabbando, preferite dai locali alle egiziane Florida che sono comunque ugualmente buone. Notiamo pure che parecchi cinema proiettano film indiani, molto apprezzati in Egitto per i racconti intrisi di una morale banale, distante dal modo occidentale di fare cinema. Si percepisce in modo vistoso la differenza fra la cultura mediorientale e la nostra.

Questo è il nostro bramato ultimo giorno al Cairo. Dopo la consueta pillola per la malaria andiamo a farci un buon pranzetto al ristorante del Circolo italiano. Al cuoco, il giorno prima avevo dato 20 piastre di mancia, un buon compenso extra per lo standard egiziano. In genere si dà una o anche due piastre. Ancora con le banconote in mano l’addetto alla sala giochi ci aveva consegnato il conto di 10 piastre per aver usato il biliardo. Al momento non avevamo il denaro sufficiente, così il cuoco ci ha restituito 10 piastre. Oggi si presenta al tavolo per chiedere le 10 piastre di ieri. Gli rispondo bokra (domani), tanto domani partiamo. Non bisogna mai dire che si parte perché diventano pesanti, ti “lisciano” e fanno la fila per avere il baksis. Nella richiesta di baksis sono spudorati e se non li accontenti fanno il musetto lungo come i bambini. Con l’addetto ai frullati ci abbiamo litigato, si teneva il resto senza dire nulla. Adesso non diamo più niente a nessuno e lentamente si sono rassegnati: “Quei due sono fatti così” e, strano ma vero, ci rispettano più di prima.

Lasciamo una città del Cairo piacevole e vissuta intensamente per oltre un mese, divisa tra baraccopoli e palazzi in marmo, carri trainati da asini e limousine, innegabili ma “normali” contraddizioni che caratterizzano tutto il continente e non solo. Alla cattiva sorte dei più umili tutto sembra risolversi con un rassegnato “maalesh, maalesh” (fa niente). Dopotutto al venerdì, sia per strada che in moschea, i più poveri e i più ricchi si inchinano assieme per pregare Allah.

Oggi, venerdì 16 febbraio, dopo 35 giorni di permanenza al Cairo, alle 7 del mattino saliamo sul treno per Luxor. Un viaggio di 700 km percorsi attraverso un paesaggio incantevole che alterna il verde della fertile valle del Nilo ad un vasto deserto, spesso abbagliante. A tratti vediamo il letto del Nilo navigato da sinuose feluche a vela latina, con l’albero tipicamente inclinato verso la prua. Costeggiamo per dieci ore questo mitico fiume che, nei suoi quasi 7 mila chilometri, attraversa otto stati africani ed è tradizionalmente considerato il corso d’acqua più lungo al mondo. A onor del vero si contende il titolo con il Rio delle Amazzoni. Fino al ponte di Nag-Hamadi abbiamo il fiume sulla sinistra poi, nell’ultimo tratto verso Luxor, la ferrovia passa sul lato orientale.

Anche qui abbiamo il solito diverbio, questa volta con il cameriere della carrozza ristorante per la consueta abitudine di non portarti mai il resto. Lo fanno con gli occidentali che in genere non osano reclamare. Con noi però non funziona. Ci piace conoscere le diverse abitudini, per avere più termini di paragone e reagire in modo adeguato, con l’intento di vivere il viaggio come interlocutori rispettosi e da rispettare, attenti ma non passivi.