Nelle campagne di Kitakata, nel Giappone settentrionale, c’è una strada che si snoda attraverso le risaie, un portale d’accesso con il tetto di canne, sistemate ancora con una sapienza di secoli, e un tempio Zen Sōtō riparato dal fianco boscoso di una montagna. La stessa famiglia ne è responsabile da più di quattrocento anni. Si chiama Keitokuji, 慶德寺. È la patria del mio cuore, il paese natio della mia anima. È lì che vivono le persone che hanno salvato la mia vita.

La prima volta che sono stato ospite a Keitokuji era un inverno di tanti anni fa. Lavoravo ad Ōsaka. Questo per me rappresentava il coronamento di anni di studio e quasi due decenni di sogni. Eppure ero continuamente inquieto, preso dallo sforzo di raggiungere quello che cercavo, di capire quello che non riuscivo a capire basandomi sulla razionalità, lo studio, la conoscenza. Ogni volta che mi sembrava di essermi avvicinato, scoprivo di avere solo girato in tondo. Quello che cercavo mi eludeva.

Mi preparavo a trascorrere il Capodanno da solo in quello che si chiama “studio apartment”, il che vuol dire che quando apri le braccia tocchi entrambi i muri contemporaneamente. Il Capodanno e l’Obon sono le due festività più importanti in Giappone. L’Obon è il periodo in cui le anime dei defunti ritornano a casa, e si celebra in estate. Il Capodanno invece è il momento in cui la famiglia giapponese si riunisce per concludere l’anno passato e ricominciare tutto insieme. Temendo che mi sentissi solo, un carissimo amico prese accordi con il Keitokuji, dicendo che “una persona” sarebbe andata a trovarli (in giapponese non esistono maschile e femminile).

Il viaggio dalla stazione centrale di Ōsaka richiese ore e ore. Partii e raggiunsi Tōkyō con uno Shinkansen (il treno ad alta velocità) chiamato Nozomi, “speranza”. Da Tōkyō presi un nuovo Shinkansen chiamato Yamabiko, “eco”, fino a Kōriyama, sentendo l’inflessione del giapponese cambiare sempre più nella sua varietà settentrionale. Da Kōriyama, presi un treno locale. Pulito, puntuale, e lento al punto giusto da darmi il tempo di assaporare ogni curva, ogni macchia di alberi, il fianco di ogni collina, il profilo di ogni montagna. Mentre la velocità della corsa rallentava, i battiti del mio cuore acceleravano. Era come accordare uno strumento al “la” del violino di spalla prima del concerto. Nel mio caso, l’orchestra era la totalità del mondo intorno a me. Tutto quello che vedevo, ogni dettaglio, ogni frammento del tempo che trascorrevo in viaggio, splendeva. Come la volpe del Piccolo Principe, cominciai ad essere felice molto prima di essere arrivato.

Ad aspettarmi c’era la moglie del mio maestro. Sapeva solo che sarebbe arrivata una persona straniera, e per qualche motivo si aspettava che sarebbe stata una ragazza. L’equivoco fu di breve durata: ero l’unico bianco a scendere dal treno. Dico “il mio maestro”, ma lui non si è mai definito tale e io non l’ho mai chiamato in questo modo. È sempre stato così, da quando ci siamo incontrati. Quando sono entrato nella sua casa, deve avere sentito il fragore dei miei sentimenti, e quanto disperatamente il mio cuore cercasse di appartenere alla terra che amavo, in cui ero venuto a vivere dall’altra parte del mondo.

Quando chiudo gli occhi, vedo tutti i dettagli dei Keitokuji chiaramente come una fotografia. La scala di gradini bassi che conduce al portale di ingresso, che è sempre aperto, e attraverso il quale si intravede la sala principale. Il muro di cinta intonacato di bianco e sovrastato dai rami di ginko biloba. La statua di Jibo Kannon e quella di Jifu Jizō, il protettore dei bambini e dei pellegrini, vestita di rosso. La sala interna, con il suo soffitto dipinto, l’altare, la parete scorrevole che risale all’epoca Edo.

Negli anni che ho trascorso in Giappone, sono tornato a Keitokuji ogni volta che ho potuto. Sono stato molte cose, mentre ero lì. Ospite, allievo, malato. Più di tutto, ho ricevuto la grazia di essere me stesso, e di imparare dal mio maestro e da sua moglie.

Sua moglie si occupava della gestione del tempio con efficienza, brio e intelligenza tipicamente giapponesi. Sembrava avere sempre tempo per tutto, avere già programmato tutto al minuto, o avere sempre una soluzione a portata di mano, e una battuta sagace pronta. Aveva studiato in una scuola cristiana a Yokohama. Mi diceva spesso: “Mi hanno insegnato che il senso della croce è trasformare il meno in un più. io non sono cristiana, ma questo insegnamento mi piace molto”.

Alla sera, ci sedevamo a tavola e mangiavamo il cibo che lei preparava. Cose buonissime, con così tanti piatti che alla fine non sapevo più dove metterli. Talvolta bevevamo della birra, o del sakè. Sempre con moderazione. Ridevamo. Loro correggevano il mio giapponese quando sbagliavo, cioè in continuazione. Mi facevano i complimenti quando dicevo qualcosa di giusto. Soprattutto, ascoltavo.

La notte mi distendevo sui tatami di paglia, circondato dai suoni di un mondo diverso. D’estate era il frinire dei grilli e il gracidare delle rane nelle risaie. D’autunno, il vento che passava tra le foglie degli alberi, come il ricordo di un sogno. D’inverno, il suono della neve che si accumulava un fiocco per volta, del ghiaccio che cresceva appeso al tetto di paglia. Di primavera, la pioggia che tamburellava sul tetto di canne, o gocciolava lungo la grondaia. Al mattino, mi svegliavo con la voce del mio maestro che intonava i sūtra, e invece di alzarmi restavo ad ascoltarlo per un po’. All’epoca non sapevo ancora che cosa significassero quelle parole, e d’altra parte non avrei potuto, senza averne fatto esperienza nella mia vita.

A Keitokuji potevo chiudere gli occhi e riposare davvero. Qualsiasi cosa portassi con me annidata nel cuore non oltrepassava mai la sua soglia. Durante il giorno, facevo volentieri qualsiasi cosa mi permettessero di fare, che fosse raccogliere le foglie, piantare i bulbi dei crochi, aiutare con le pulizie. Imparavo da ogni cosa, e ascoltavo avidamente quello che il mio maestro mi spiegava sulla storia del tempio, sul significato degli oggetti nella sala principale, sul contenuto dell’insegnamento Zen. Adesso so che c’era un’altra conversazione in corso, di cui all’epoca non ero consapevole, ed era quella conversazione che ogni volta riportava il mio cuore a casa. Nel comportamento del mio maestro e di sua moglie c’era la natura dell’esistenza dell’essere umano sulla Terra, e la cura per uno straniero che veniva nella loro casa come il pellegrino chiede asilo al calare della notte.

Ho imparato dal mio maestro il significato del saluto con le palme delle mani unite, chiamato gasshō 合掌. Finché le mani sono separate, si può scegliere di prendere quello che si vuole e lasciare quello che non si vuole. Con le mani unite, si può solo scegliere di accettare quello che viene offerto. Io però all’epoca ero un ribelle. Un giorno, il mio maestro mi disse: “Manu, la vita è mujō”, cioè “transitorietà”. Conoscevo il concetto, l’avevo studiato in letteratura e in filosofia, ma questa volta si trattava di me. Ne ho sofferto molto. Pensavo che con mujō si intendesse “inutile”, perché la vita passa, come ogni cosa. Invece no. Ogni cosa si trasforma continuamente e cambia senza posa, ma questo non le impedisce di avere un senso e uno scopo. Proprio perché non ci sarà mai un altro istante uguale a quello presente, ogni singolo istante conta. Un’espressione Zen, che avevo imparato studiando Cerimonia del Tè, afferma: ichi go ichi e 一 期一会, “ogni volta è l’ultimo incontro”.

Il Capodanno in un tempio buddhista è un periodo impegnativo, pieno di cose da fare. La sensazione di festa, e allo stesso tempo di continuità con una tradizione ininterrotta da un tempo troppo lungo per poter essere contato, era palpabile. Esiste un rito chiamato otagi age お焚き上げ, in cui vengono bruciate cose appartenute ai defunti. Quando venne la sera, il maestro mise un treppiede di ferro nel giardino, con sopra un braciere. Vi pose ciò che doveva essere bruciato, e lo accese. Le fiamme divamparono, inondando la neve del loro riflesso. L’immagine del maestro in piedi sotto la neve, davanti all’oscurità, vive dentro di me come uno dei miei ricordi più belli. Credo di avere unito le mani in segno di saluto. In quel momento, per me, era la manifestazione della bontà e della grazia, il segnale al viandante smarrito, al pellegrino perduto, che la luce splende anche nella notte più oscura. Che la luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno sopraffatta.

Dopo la mezzanotte, si è soliti visitare un santuario shintō, e porgere i propri ossequi ai kami, i numi della religione shintō. È una tradizione antica, chiamata hatsumōde 初詣. L’anno del mio primo Capodanno a Keitokuji, era caduta tanta neve da arrivarmi alla vita. Tanta che persino i veicoli spazzaneve faticavano a muoversi. Così dovemmo andare a piedi. Mentre camminavamo attraverso i campi, il silenzio rotto solo dal suono del nostro corpo attraverso la neve, ho guardato in alto e ho visto le stelle. Mi è venuta in mente la fine del Paese delle Nevi di Kawabata Yasunari, in cui il protagonista descrive la sensazione dell’universo che precipita dentro di lui.

Di nuovo, la voce del maestro. “Non c’è preoccupazione per il passato, né preoccupazione per il futuro. Per quanto sia difficile, per quanto sia faticoso, vivere qui ed ora, con tutte le forze”. Devo confessare di avere pensato, in un primo momento: tutto qui? E mi sbagliavo. Qui e ora, con tutte le forze. Così, la conoscenza diventa esperienza, e l’esperienza diventa coscienza. È adesso il momento di vivere. È adesso il momento di fare attenzione. È adesso il momento di agire. Il medesimo adesso non tornerà mai più, ma contiene tutti gli “adesso” del passato e tutti gli “adesso” del futuro. E così, millenni di tradizione, religiosa, filosofica, culturale, si personificano in un sorriso, una parola gentile, uno sguardo d’intesa.

Siamo lontani da anni. Quando mi alzo, vedo un panorama diverso, e non mi è più possibile saltare su un treno e prendere rifugio nel luogo che mi ha protetto durante la mia notte oscura. Prendo rifugio nella bontà e nell’esempio del mio maestro e della sua sposa, e nell’affetto e nella gratitudine che provo per loro. E comprendo ora, dopo essermi ribellato per tanti anni, che cosa intendeva il maestro quando mi diceva Sokushin zebutsu 即心是仏, “il cuore del buddha è quello che hai già”. Non vedo l’ora di poterli incontrare di nuovo, di essere di nuovo a Keitokuji, e d’altra parte non me ne sono mai allontanato. È qui, in questo esatto istante, facendo quello che faccio meglio che posso, in una terra diversa, in una fede diversa, che risiede il mio Risveglio, e assolvo al mio compito, e conduco la mia pratica.