La donna con l’occhio gonfio, peli di braccia e viso affettati a rasoio, è sudata. Il ragazzo indiano quando si alza sembra più alto. Gambe lunghe e magre per la corsa, i capelli fissati. Il gatto, con le pupille dilatate, siede nel trasportino. L’uomo orientale porta la camicia sbottonata, con vista su petto glabro e lentigginoso. L’altro si scrolla il pacco come dal divano di casa. Dalle scarpe vedo un blister. Le Superga bianche, scollate e comode, sporche di fango per il fiume esondato, lasciate a casa. Uno, barcollante, con acqua al collo, lo ha attraversato ubriaco. Un altro, in bici, con pantalone arrotolato.

Noi no. Non siamo passati. La metro si ferma e scendo.

Attraverso via Vergini, lenta, nell’ammuina del mercato. Fa molto caldo. Guardo i palazzi, sapendo che mi aspetta. Salgo, guardo l’intonaco, la crepa.

C’era una crepa sul muro vicino alla mia lavagna, io stringevo l’occhio e guardavo il fiore del grano, notte e giorno, giorno e notte, col naso incollato al muro, poi ho deciso di entrarci nella crepa.

(L’uomo d’acqua dolce, film di Antonio Albanese, 1997)

Un signore di una certa età mi ferma, inizia a parlare. È cortese. Mi avvio verso l’ufficio. Prevista e sfruttata è la mia fame.

Ho iniziato a mangiare tardi, usando il cibo, prima di capirlo. Ho tirato pochi dollari dalla tasca, stropicciati, anteponendo un letto. Hanno cucinato pensando di invitarmi a cena ma, mi hanno sfamato. Lo notai perché mi portò un piatto di frutta tagliata e mi raccontò della sua Berlino negli anni Ottanta. Vivemmo per un po' di un amore intenso.

Pinchos de carne asada con plátano frito, tamales, monkey bread e sloppy joe, pull pork, Pad Thai, ramen. Nel sacco a pelo, nascondevo un inventario di memoria.

Cerco un posto dove nascondermi fissando un punto ma, mi trovano subito. L’ansia mi trova sempre. La paura la segue. C’è qualcosa nella natura di stabile, di comprensibile, di lineare. La natura trova il modo. E allora penso di nascondermi lì. Di distrarmi lì. Ho visto un serpente. Strisciava. Un topo usciva dalla tana, l’upupa cercava cibo, sfumature di verde ai bordi della carreggiata. Inciampo in un nesso e mi trovano.

Guardo l’entrata dell’ufficio e svolto. Non entro. Cammino. Diecimila passi, ventimila passi. Sono di nuovo in metro. Di nuovo noto il blister. Fa male. Esco dalla metro, entro in farmacia per comprare cerotti. Me ne mostra diversi mentre penso che voglio andare. Riprendo la strada. È brutta ma, sono agitata e la percorro in fretta. Voglio vedere il mare. Prendo il bus R7. Timbro il biglietto e assisto alla scena del controllore che mette una multa a una coppia di turisti. Oggi, poteva andarmi peggio.

Scendo qualche fermata prima del mare, giro verso l’interno e osservo le vetrine. Cammino. Sono cinque ore che cammino. Lo intravedo e cambio strada. Prendo via Chiaia. Sento una musica. Chitarra e mandolino. Lui suggerisce note, lei segue. Rovisto nella tasca. Trovo centesimi. Mi scuso, versandoli. Ringraziano. Sento gocce bagnarmi il braccio. Mi alzo dalla panchina e ricomincio a camminare. Piove. Entro qualche secondo in profumeria. Cerco inutilmente Comme des Garçons White, per tornare un istante lì. Esco, ricomincio a camminare, sotto la pioggia. Ricordo a me stessa Walk Don't Run (film del 1966, diretto da Charles Walters) con Cary Grant. Ricordo a me stessa cammina, non correre. Cammino sotto la pioggia ma, ho bisogno di bello.

Una donna è svenuta alla fermata. È stesa sotto la pensilina. Videochiamano qualcuno e intravedo un uomo nello schermo. La signora resta priva di coscienza. Sono in tanti a soccorrerla. Proseguo. Mi ripeto, come un mantra, oggi, poteva andarmi peggio.

Entro in un negozio in cerca di Levi’s. Il commesso me ne porta un paio. Più grande gli dico. E ancora più grande. Per fargli capire, comodo come Jeff Bridges in The Big Lebowski (film del 1998 diretto da Joel e Ethan Coen). Ora è chiaro. Lo porta. Lo indosso. Lo compro. Esco.

Cammino tra la folla di via Toledo e arrivo a destinazione. Sono stanca. Il museo è buio a parte un corridoio dorato. É silenzioso. È perfetto. Riparato. Qui non mi troveranno. Non c’è quasi nessuno. Una coppia francese. Mi siedo su una panca e resto a guardare il dipinto di Francesco Paolo Diodati, “Piazza Vittoria”. A lungo. C’è qualcosa che mi distrae dallo sguardo fisso della donna al centro. Il palloncino verde. Quasi libero. La bambina lo lascerà. Cosa cerca con lo sguardo la donna vestita di nero? Ha visto qualcuno che conosce. L’uomo, in secondo piano, dietro l’uomo con il cilindro, sembra essersi accorto che qualcuno lo ha immortalato, come finito per caso in una foto. Sono libere queste persone? Come me che decido dove svoltare. Sono libera io? Piazza Vittoria non sembra poi così diversa.

Abbandono Gemito e Caravaggio e salgo le scale. I lampadari.

Esco, piove poco ora. Entro in un negozio per comprarle degli shorts e finisco per pagare tre t-shirt della serie che le piace. Mi siedo nel camerino per cambiare il cerotto mezzo staccato. Mi dirigo verso la metro Toledo. Sono stanca e digiuna. Mi siedo e guardo gli schermi con le solite pubblicità di qualche master e centro medico deprimente. Arriva rumorosa, e porta vento insalubre. Vorrei infilarmi nelle gallerie laterali per evitarlo ma, desisto e lo sento in faccia. Mi siedo e mi rialzo per far sedere un signore anziano con l’apparecchio acustico. Penso, mentre lo guardo parlare con la compagna, che funzionano bene. Un giorno me ne farò una ragione. La mia fermata. Esco, salgo, emergo, ancora.

E ora, rientro.

Eccolo. Sei viva? Sì. Meno male. Usciamo.

Mi sento come immobile, stanca o sconfitta sotto il getto della doccia di una fotografia di Gus Van Sant (regista di “Paranoid Park”, 2007).

In Here and Now, serie HBO di Alan Ball, cancellata dopo una sola stagione, visione corale di una famiglia progressista americana, il professore di filosofia, coprotagonista, invecchiato e depresso, restituisce il dubbio sulla sua teoria “qui e adesso”, lasciando l’interlocutore con un “non ne ho idea”. A frammenti, la vita sarebbe forse più equa.

Guardo la macchia sul retro della spalla, dove scorre la bretella del reggiseno. Si è formata l’estate scorsa, portando il cane in bici, tra sudore e fibra sintetica dello zaino. Ora non mi sembra molto cambiata ma, sono passati troppi mesi ed è ancora lì, sospetta a insospettirmi. Come sempre i dubbi, su una morte imminente e “certa, certa, certa” (Trolls, film del 2016, diretto da Mike Mitchell e Walt Dohrn), mi vengono nel trambusto, mentre il vecchio camper scorre, ora diretto al cambio pneumatici. Scrivo a tre dermatologi, ricevendo una risposta e un appuntamento per non prima di un mese. Non ce la posso fare.

Dipende da me, è colpa mia, è solo colpa mia. (…) tutto dipende da me, il medico mi dice che devo collaborare (…) tutto dipende da me. E se dipende da me, sono sicuro che non ce la farò.

(Caro diario, Nanni Moretti)

Qualcosa sulla mia faccia racconta sconforto, mi giro e gli chiedo se sto per morire. Come al solito, me ne dice quattro e continua infastidito a guidare.

Ma, come dire, sembrava che quelle campane, quel don don don misterioso che riannunciava la vita d’ogni giorno, dicesse invece che no, che tutto era inutile, che tutti erano vivi ma già morti, sepolti, anime perdute (…). Si risvegliò che gli pareva di sentire un’altra campana. E infatti, come fu sveglio del tutto, capì che un’altra campana suonava per davvero. Ma questa era più vicina: pareva quasi sopra la testa, forse a un padiglione lì accanto, alla chiesetta dell’ospedale (…). La campanella era una sola, suonava svelta e forte; tre colpi in un modo: dan dan dan, e tre colpi in un altro: den den den. Poi taceva un po', poi riprendeva i tre colpi alternati. E così avanti, sempre uguale. Suonava a morto: questo suono sì che Tommaso lo capiva bene, che lo riconosceva. Il rintocco pareva ancora più forte, dato che c’era ancora abbastanza silenzio, con tutto che si sentiva bene che la vita ormai andava. E quasi incocciava, entrando da tutte le parti, dalla finestra, dal corridoio, col suo suono acuto e stridente. Non la smetteva più: va bene che avvisava che qualcuno era morto, aveva stirato le gambe, poveraccio, e buona notte Gesù Cristo: ma era così insistente che dava in testa.

(Una vita violenta, Pier Paolo Pasolini)

Continuo a guardare fuori smarrita, come in bilico. Allora, abbandona per pochi istanti lo sguardo alla strada mentre costeggiamo il profilo del Vesuvio col contorno brullo in primavera, e mi chiede: “Sei viva?”, “sì”, “meno male”, come se avessi appena ironicamente scampato la morte. E allora mi viene da sorridere, torno a guardare fuori e sembra che almeno in questo momento, here and now, vada tutto bene.

No man is an island,
Entire of itself;
Every man is a piece of the continent,
A part of the main.

If a clod be washed away by the sea,
Europe is the less,
As well as if a promontory were:
As well as if a manor of thy friend's
Or of thine own were.

Any man's death diminishes me,
Because I am involved in mankind.
And therefore never send to know for whom the bell tolls;
It tolls for thee.

(No Man Is an Island, John Donne)