Nell’ultimo tour europeo, quello che è passato anche da Milano, Lucca, Perugia e Roma, Bob Dylan ha portato in giro uno show che, come al solito, fotografava alla perfezione il momento della sua carriera. Non una parata di canzoni famose regalate come una retrospettiva su sessant’anni di musica. Chi cerca questo nei suoi concerti (e c’è sempre qualcuno là in mezzo che lo cerca) ha sbagliato indirizzo, e resta immancabilmente deluso.

Dylan fotografa ogni volta se stesso per com’è, non per come è stato. Ci rimette, perché facendo così riempie le piazze e non gli stadi, ma evidentemente è quello che vuole: uno che è sempre stato scambiato per incoerente perché ha smesso di andare alle marce per la pace, ha collegato la chitarra all’amplificatore o si è convertito, è in realtà un esempio magistrale di coerenza.

Parlando di fotografia, a corredo di questo articolo ne trovate una a suo modo rara. Scattata proprio durante il concerto di Lucca da Paolo Pacini, un collega appassionato di musica e foto, che è riuscito a ritrarre il nostro eroe in un'occasione in cui i telefonini erano sigillati in una custodia e i fotografi non erano ammessi. Lo ha fatto dall'esterno dell'area concerto, con un obiettivo da 300 mm. È un'immagine un po' sgranata, quindi, ma preziosa: fotografa Dylan mentre offre al pubblico un'istantanea di se stesso.

Per tornare invece alla pervicacia con cui fugge dalle compilation di classici, va detto che qualche regalo ai propri fan lo fa anche lui. In questo tour, per esempio, il dono più grande, oltre ad eseguire quasi per intero l’album più recente, arrivava alla fine, quando questo gigante della cultura popolare del Novecento, in piedi dietro al piano, cominciava a cantare Every grain of sand.

Cominciamo dai numeri, cercando di smettere prima di diventare noiosi: stando al sito setlist.fm Dylan l’ha cantata 320 volte in carriera. Tante? Dipende. Tangled up in blue l’ha fatta 1.710 volte, Like a rolling stone 2.037 volte, All along the watchtower, quella più eseguita in assoluto, 2.222 volte. Quindi Every grain of sand, per darci una misura, l’ha fatta poche volte, è solo la cinquantaseiesima tra le più suonate nei suoi live. Eppure è una perla che soprattutto i fan più affezionati adorano, nascosta lì, nel capitolo finale di un trittico di dischi, quelli “cristiani” (Slow train coming, Saved e appunto Shot of love) mai amati fino in fondo, nonostante contengano anche brani molto belli. Ma quella è indubbiamente a un altro piano della Tower of Song, parafrasando liberamente Leonard Cohen, è un apice a cui lo stesso Bob Dylan non ha mai tributato il giusto riconoscimento.

Ecco perché il sigillo di questa tournée ha lasciato ogni volta gli spettatori con il sorriso stampato sulla faccia, a volte con le lacrime. Io ero a Lucca, e accanto a me una ragazza americana, appena finita l’ultima nota di armonica a bocca, e dopo un ringraziamento in cui Dylan è rimasto insolitamente a lungo (per i suoi standard) sul palco chinando ripetutamente la testa (il massimo che si possa ottenere di solito), piangeva commossa. L’ho guardata e le ho detto «What a beauty!», facendola frignare ancora di più.

I meravigliosi concerti italiani di questo tour erano costruiti intorno agli ultimi due lavori di Dylan: il disco in studio Rough and rowdy ways, uscito in piena pandemia nel 2020, e la colonna sonora del sedicente concerto in streaming Shadow kingdom, che in realtà era un finto live, un film dalle atmosfere lynchane registrato in studio, forse in presa diretta, forse no, ma non importa, perché in Dylan questi sono dettagli. Come si dice, mai sciupare una bella storia con la verità. In più c’erano le cover, di solito (ma non sempre) una per serata, e due pezzi dei dischi “cristiani”.

Ecco, partendo dall’impalcatura di questo tour, si può azzardare non un saggio sulla carriera di Bob Dylan, perché sono state scritte montagne di libri, alcuni molto belli, e non è certo questa la sede per tentare improvvidamente di dire qualcosa di nuovo. Però si può provare, come fa lui quando dipinge, a ritrarre qualche momento, un incrocio, un paesaggio, un’insegna illuminata, la fiancata di un camion in viaggio, proprio attraverso qualcuna delle canzoni scelte per questa serie di esibizioni.

Quelle di Rough and rowdy ways sono scritte da un (allora) quasi ottantenne, capace ancora di slanci poetici da far tremare i polsi. Basta pensare a My own version of you in cui Dylan come un novello Frankenstein, costruisce una specie di Golem mettendo insieme «the necessary body parts, limbs and livers and brains and hearts». Un brano pieno di oscurità, e allo stesso tempo illuminato da lampi di umorismo: «I’ll take Scarface Pacino and the Godfather Brando, mix ‘em up in a tank and get a robot commando». Due attori nella parte di altrettanti gangster messi dentro a un contenitore, agitati e miscelati per ottenere una truppa robotica. La libertà e la maestria con cui Dylan maneggia le parole fa impressione anche oggi, quando non avrebbe più nulla da dimostrare. A proposito della coerenza o l’incoerenza, cita subito Whitman nel manifesto iniziale I contain moltidues. Queste moltitudini non sono solo le diverse incarnazioni di Dylan possibili, è anche la stratificazione della cultura del Novecento (e non solo) che si è depositata su di lui e nelle sue canzoni, fino a un certo punto attraverso “furti” e citazioni implicite, negli ultimi decenni invece per mezzo di riferimenti sempre più manifestii, naturalmente conservando la sua capacità di mettere insieme l’alto e (il presunto) basso, il popolare e il letterario: «I’m just like Anne Frank - like Indiana Jones/And them British bad boys the Rolling Stones/I go right to the edge - I go right to the end/I go right where all things lost - are made good again».

Murder most foul, che nei concerti non c’è perché è troppo lunga con i suoi 17 minuti, è una specie di libero documentario sotto forma di canzone che racconta la storia contemporanea americana e la cultura popolare del ventesimo secolo, partendo da quello che Dylan considera una specie di peccato originale, un punto di svolta, l’omicidio di John Kennedy a Dallas. Lungi dal considerarsi un artista unico e solitario, Bob Dylan ormai da lungo tempo si colloca nell’alveo del fiume di una cultura vasta e varia, alla quale si rifà e con la quale permea le sue canzoni con lo spirito di chi presenta un omaggio sincero. Non ha il difetto della falsa modestia (in Chronicles vol. I dice di sé che per scrivere canzoni all’altezza delle sue migliori bisogna «avere potere e dominio sugli spiriti» vedere la verità, vedere «con uno sguardo che penetra i metalli le cose per quello che sono»), ma ha l’ammirazione per chi ha sfornato i mattoni con cui ha costruito la sua casa in questi sessant’anni, da Woody Gutrie a John Lennon, da Jelly Roll Morton a Charlie Parker.

Il Dylan rivisitato in Shadow kingdom, che ha come sottotitolo The early songs, indagando un periodo che arriva fino al 1989, naturalmente è anche quello che penetrava i metalli con lo sguardo, quello che dice di essere un cantante e un ballerino ma che nel frattempo si guadagna un premio Nobel per la letteratura arrivato qualche decennio dopo. Quello di It’s all over now baby blue (gioiello di Shadow Kingdom), quello irrequieto che avverte la sua piccola che «the saints are coming through» e la invita a prendere quello che desidera alla svelta, perché non durerà. Il Dylan che canta questi versi a Newport, nel 1965, quando i fan del folk delusi dalla sua svolta elettrica finalmente lo vedono tornare sul palco da solo, con la sua chitarra acustica, e lui canta loro in faccia «It’s all over now», è tutto finito, si ricomincia tutto da capo.

Caterina, una mia amica che capisce Dylan, qualche giorno fa mi ha scritto: «Quest'uomo riesce a rivoluzionare sempre un pezzo di sé e del contesto che ha intorno», spiegando in poche parole che non si tratta di uno dei cantanti bravi che hanno scritto grandi canzoni e fatto felici tante persone. Dylan le ha fatte felici e le ha scontentate, le ha fatte innamorare per poi farle sentire tradite, ma è soprattutto uno che ha cambiato il contesto. Ancora Caterina: «Ogni volta che Dylan tiene quel passo verso se stesso (che sia svoltare all'elettrico, svestire i panni del messia di protesta, decidere di calcare il palco per sempre, non presentarsi a ritirare un Nobel, vietare i cellulari) qualcuno gli urla Judas!». Ecco, il cammino di Dylan è, su tutto, un lungo viaggio verso se stesso, un voto eterno alla sincerità da parte di un uomo che ha usato spesso la dissimulazione e perfino le frottole, ma sempre per comporre un'opera d'arte lunga una vita.

In quest'ottica, fingendo che Dylan parli sempre (anche) di sé come artista, potremmo citare il testo di un'altra canzone della setlist Most like I'll go your way: «Non posso fare quello che ho fatto prima (...) E poi il tempo dirà solo chi è caduto/ E chi è stato lasciato indietro/ Quando tu vai per la tua strada e io per la mia». Un pensiero che potrebbe essere indirizzato a una donna, a una delle donne che Dylan ha deluso, ma anche più in generale a chi si aspetta qualcosa di preciso da lui, chi vorrebbe guidarlo in un viaggio che non sia verso sé. Invece Dylan ha cambiato il contesto andando sempre in quella direzione, ovunque fosse di volta in volta.

Ci si prova, a non pensare che Dylan sia (anche) una continua spiegazione di sé stesso, ma poi arriva sul palco e le prime parole che canta, da Watching the river flow sono: «What’s the matter with me/ I don’t have much to say» [Il problema con me è che non ho molto da dire], e poco dopo «Gente che ha qualcosa da ridire su tutto, già/ ti fermano tutti e ti fanno domande» per ricavarne alla fine «Ma io me ne starò seduto su questo mucchio di sabbia/e guarderò scorrere il fiume», «I’ll sit down on this bank of sand/And watch the river flow».

L’ultima molecola dei concerti del 2023 sono i dischi venuti negli anni della conversione. Il cammino verso se stesso, in Dylan, è passato anche dalla ricerca di Dio. Renato Giovannoli ha scritto un’opera monumentale che s’intitola La Bibbia di Bob Dylan e che ricerca ogni citazione e riferimento biblico rintracciabile nelle canzoni del songwriter del Minnesota. Alcuni espliciti, altri nascosti, altri plausibili. Sono tre volumi per 1.132 pagine, il che basta a dare un’idea di quanto Dylan abbia letto, assimilato e inevitabilmente restituito i testi sacri nel corso della sua vita. E allora eccoci a quel finale che ha fatto piangere la ragazza americana, a Every grain of sand.

In the bitter dance of loneliness, fading into space
In the broken mirror of innocence on each forgotten face
I hear the ancient footsteps like the motion of the sea
Sometimes I turn, there's someone there, other time it's only me
I am hanging in the balance of a perfect finished plan
Like every sparrow falling, like every grain of sand.

[Nell'amara danza della solitudine, che svanisce nello spazio
Nello specchio rotto dell'innocenza su ogni volto dimenticato
Sento i passi antichi come il movimento del mare
A volte mi giro, c'è qualcuno lì, altre volte sono solo io
Sono in bilico su un piano perfetto e finito
Come ogni passero che cade, come ogni granello di sabbia].

Negli ultimi secondi, quando finalmente eravamo tutti in piedi attaccati alla transenna, c’è stato spazio solo per l’armonica, estratta a sorpresa da una tasca, la chiusura perfetta, prima che mi mettessi a spiegare, a chi chiedeva i bis a gran voce, che non ce ne sarebbero stati, perché non ci sono mai. Bob a quel punto probabilmente era già nel suo bus nero, con un asciugamano in testa, in partenza verso Perugia. O forse aspettava la notte, per calarsi il cappuccio della felpa sulla testa e andarsene a piedi a vedere la statua di Puccini. Impossibile saperlo, perché Dylan non è mai dove lo cerchi. Nel momento in cui credi di averlo capito, è pronto a risponderti «I’m not there, I’m gone». Magari la prossima volta torna fuori per un bis.