In attesa dell’annuncio di una data d’uscita italiana della serie tv The night Logan woke up, presentata in anteprima nazionale lo scorso ottobre al Florence Queer Festival, sembra quasi paradossale ripercorrere la straordinaria carriera di uno dei più giovani e genuini interpreti del cinema contemporaneo, che in estate ha annunciato un inaspettato addio al grande schermo. La notizia che si presentava come una bufala o clickbait è stata poi confermata dal regista canadese che dichiara di aver chiuso con il cinema, ma di essere pienamente soddisfatto dei suoi lungometraggi e della libertà con cui li ha realizzati.

In effetti è impossibile dimenticare la libertà espressiva del suo folgorante esordio nel 2009 con J’ai tué ma mère (Ho ucciso mia madre, in italiano ndr) presentato a soli 20 anni nella sezione Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes. Un fatto notevole di per sé, ma ancora più notevole è la qualità artistica della pellicola che da subito cristallizza due delle tematiche trainanti della filmografia di Dolan: il rapporto madre-figlio e la scoperta della propria identità. Protagonisti Anne Dorval, attrice feticcio, e lo stesso regista che, ispirandosi al suo vissuto biografico, restituisce allo spettatore il contrasto amore-odio che sta alla base della relazione di un figlio con la propria eccentrica madre. Mischiando citazioni d’autore come il ralenti alla Wong Kar-wai e un caratteristico utilizzo della musica e di sequenze evocative all’interno della narrazione, Xavier Dolan dimostra una notevole padronanza stilistica del mezzo e si guadagna immediatamente dalla critica l’epiteto di “Enfant Prodige”.

Il suo talento registico è sicuramente riconfermato con il secondo film Les amours imaginaires (2010) che vede protagonista un triangolo amoroso, nel quale due amici di lunga data, interpretati da Monia Chokri e dallo stesso Dolan si contendono le attenzioni del bello e impossibile Nicolas (Niels Schneider). Ritratto della follia che offusca la mente quando ci si innamora, rendendoci vulnerabili e insicuri, impreziosito da una confezione che impiega magistralmente la musica, le luci e i colori per caratterizzare i personaggi ed esprimere ancora più intensamente i loro drammi personali. Un racconto sensoriale che si focalizza sui corpi, sui gesti e sulle impercettibili espressioni facciali, risaltate da un ampio utilizzo di primi piani e slow motion.

Tuttavia, la piena maturità artistica la raggiunge al terzo lungometraggio Laurence Anyways (2012), presentato a tre anni dal suo esordio nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes. Un film stratificato e avvolgente che racconta la parabola di un insegnante trentenne, Laurence (interpretato da un magnifico Melvil Poupaud), alla ricerca della propria libertà personale, indagando il difficile percorso e le conseguenze della decisione di avviare il processo di transizione di genere. Dimenticando ogni pregiudizio, la pellicola indaga le incomprensioni e le grandi gioie di questo viaggio intricato mettendo al centro la travolgente storia d’amore tra Laurence e la sua fidanzata storica, Fred (Suzanne Clément). Un’ode alla libertà individuale veicolata con un linguaggio filmico che traduce le esplosioni emotive in poesia visiva. A tal proposito, resta indimenticabile la sequenza che fa anche da copertina al film, dei due protagonisti che passeggiano in una cittadina innevata e incorniciata da un irreale cielo azzurro sotto una pioggia di vestiti sgargianti.

Giunto alla sua quarta opera, con Tom à la ferme (2013) Xavier Dolan si inoltra in un territorio fino ad ora inesplorato e si confronta per la prima volta con l’adattamento dell’omonima pièce teatrale invece di partire da un soggetto originale. Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, il film ha diviso la critica e segna una chiara volontà di sperimentazione da parte dell’autore. La storia segue l’elaborazione di un lutto, partendo da un’impostazione classica del melò per sconfinare nei territori del thriller, dal tono inizialmente intimo e drammatico per diventare quasi grottesco. Nonostante le perplessità di alcuni, il talento registico è nuovamente confermato e per la prima volta Dolan gioca con il formato dello schermo, tratto stilistico che segnerà la sua fortuna nel prossimo film.

Mommy (2014) segna quello che potrebbe essere considerato l’apice della sua carriera, sia di critica e pubblico che di maestria narrativa. Presentato in concorso al Festival di Cannes, dove ha ottenuto il premio della giuria ex-aequo con Adieu au langage di Jean-Luc Godard. Il film vede un ritorno alle origini, mettendo in scena nuovamente un rapporto madre-figlio travagliato e ricco di pathos, con una splendida interpretazione di Anne Dorval e Olivier Pelon. La storia indaga la disperazione di una madre single che fatica a guadagnarsi da vivere e allo stesso tempo a crescere il figlio adolescente che soffre di deficit dell’attenzione. Un film intimo e universale che dosa alla perfezione momenti estremamente drammatici a sequenze di pura euforia come la sequenza sulle note di Wonderwall degli Oasis dove il protagonista sfonda l’anacronistico formato a 4:3 per dare pieno sfogo e libertà alla sua felicità. La vetta emotiva è probabilmente raggiunta dalla magnifica sequenza what if accompagnata da Experience di Ludovico Einaudi che precede la drammatica e inevitabile decisione finale della madre, racchiudendo in sé la tesi del film sull’impossibile bellezza di un tragico rapporto affettivo.

Dopo il successo di Mommy, il giovane regista prova il salto di qualità a livello produttivo, prima coinvolgendo un cast d’eccezione poi con il primo film in lingua inglese. È solo la fine del mondo (2016) è il sesto film del regista canadese e nuovamente viene presentato a Cannes, questa volta accompagnato da un cast stellare, che conta Léa Seydoux, Marion Cotillard, Nathalie Baye, Vincent Cassel e il compianto Gaspard Ulliel. Tratta da una pièce teatrale, la pellicola soffre un po’ il testo di riferimento e risulta claustrofobica nella messa in scena di impronta teatrale, quasi interamente interna alla casa, con dialoghi prolissi e interpretazioni sopra le righe. Nonostante riesca a veicolare il disagio emotivo del protagonista, ritornato nella casa d’infanzia dopo 12 anni per comunicare la notizia della sua morte imminente, rimane ingabbiato il talento espressivo del regista che può osare solo in brevi sequenze di flashback. Ottiene comunque il Grand Prix e il premio della giuria ecumenica alla croisette.

Mentre La mia vita con John F. Donovan (2018) è la prima produzione in lingua inglese del regista originario del Quebec. Presentato in anteprima al Toronto Film Festival e con un cast pieno di star hollywoodiane dovrebbe segnare la sua consacrazione a livello internazionale, ma il travagliato processo di post-produzione, con le continue modifiche al montaggio attuate dallo stesso Dolan (che hanno portato al taglio del personaggio interpretato da Jessica Chastain), rimarcano il destino icariano di questo progetto. Il film segue due storie in parallelo, quella di un bambino aspirante attore e della sua stella del cinema preferita, con l’obiettivo di smascherare le ipocrisie dello star system hollywoodiano. Una premessa nobile, tuttavia non pienamente raggiunta da una pellicola che manca di quella brillantezza e autorialità di cui splendevano le prime opere del regista. I passaggi narrativi un po’ scontati, la struttura intricata e alcuni personaggi non molto a fuoco rendono il film un’operazione riuscita a metà, che conserva comunque i tratti stilistici caratteristici della sua filmografia.

Dopo alcune partecipazioni attoriali in produzioni Hollywoodiane, come in It e Boy Erased, Xavier Dolan ritorna dietro la macchina da presa con quello che sarà inaspettatamente il suo ultimo film: Matthias e Maxime (2019). Ritorno in Canada, ritorno al francese e ritorno a una storia intima, quella di due amici d’infanzia in un periodo di limbo tra la spensieratezza giovanile e le inquietudini della vita adulta vengono completamente destabilizzati da un irrefrenabile sentimento l’uno per l’altro che non riescono in nessun modo a sopprimere. Un film intimo e raffinato, con una regia misurata e di grande efficacia nel riportare sul grande schermo la bellezza e il caos interiore che il sentimento suscita nei due protagonisti. Opera che dovrebbe segnare la piena maturità artistica del regista, rimane però un po’ vittima di soluzioni stilistiche e narrative già viste nella sua filmografia e sicuramente meno impattante delle sue prime pellicole.

Un saluto al cinema che lascia un certo amaro in bocca, poiché lascia la settima arte priva di uno dei suoi interpreti più innovativi a soli 34 anni. Un artista a tutto tondo che nei suoi film ha fatto, oltre che da regista, anche da sceneggiatore, montatore, attore, costumista e produttore. Tra le motivazioni da lui citate per spiegare la sua scelta nomina una certa insoddisfazione nei confronti del sistema cinematografico e una mancanza di motivazione data dalla difficoltà a trovare distributori e dal fatto che i suoi film attirano solo un pubblico di nicchia. Tuttavia, per chi come me ha iniziato ad amare il cinema anche e soprattutto grazie ai suoi film non può che rimpiangere la libertà espressiva invidiabile e l’ineguagliabile carica emotiva che tutte le sue opere, anche quelle imperfette, inevitabilmente sprigionano.

Non possiamo quindi che augurarci che le sue realizzazioni future, che siano sul piccolo schermo o altrove, possano tornare ad emozionarci come ci hanno emozionato i suoi film.