Oggigiorno il nome di Gabriel Chevallier evoca principalmente il ciclo Clochemerle, la nota saga umoristica apparsa in tre volumi tra il 1934 e il 1963, tradotta in svariate lingue e distribuita in milioni di copie. Tuttavia, la prima opera pubblicata nel 1930 da questo scrittore lionese era di tutt'altro atteggiamento, come il suo titolo, d'altronde, lasciava già intuire: La paura.

Il libro, che ha per protagonista un alter ego dell'autore stesso, Jean Dartemont, prende avvio nella Parigi del '14, durante le ultime settimane – votate ancora al furore nazionalista e a un cieco entusiasmato collettivo – che precedono quelle ben più tetre e disperanti con cui la Francia dovrà fare i conti allo scoppio del primo conflitto mondiale.

Malgrado il proprio disinteresse per tutto quel che concerne le operazioni belliche, se non addirittura l'avversione per le armi, Jean si arruola comunque all'età di diciannove anni, subito dopo aver cominciato il primo anno di università. Come buona parte dei ventenni è curioso, tendenzialmente ardito e immaginosamente imperituro. Nel breve periodo di addestramento, però, ha modo di rendersi conto di quanto fragili e precari siano gli equilibri sui quali si regge l'intero esercito francese e di quanta supponenza avessero finora dimostrato tanto il popolo quanto i suoi più ottusi governanti. Una volta al fronte, poi, ha modo di convincersi appieno del senso di inutile precarietà che avvolge ogni singola manovra militare, ogni attimo estorto alla vita, ma con la consapevolezza di una morte forse soltanto rimandata:

Una vampata che sembrava investire il mondo intero ci strappò al torpore. Avevamo appena superato una cresta, e il fronte, davanti a noi, ruggiva con tutte le sue bocche infuocate, fiammeggiando come una fucina infernale i cui mostruosi crogioli trasformavano in una lava di sangue la carne degli uomini. Ci veniva la pelle d’oca all’idea di essere solo una palata di carbone destinata ad alimentare quella fornace, al pensiero che dei soldati, laggiù, lottavano contro la tempesta di ferro, contro l’uragano di fuoco che faceva ardere il cielo e tremare le fondamenta della terra. Le esplosioni erano così ravvicinate da produrre l’impressione di un unico bagliore e di un boato ininterrotto.

Sembrava che qualcuno avesse buttato un cerino sull’orizzonte zuppo di benzina, e che un genio malefico continuasse a versare del punch su quelle diaboliche fiammate e sghignazzasse lassù celebrando la nostra distruzione. E perché nulla mancasse a quella macabra festa, perché un contrasto ne accentuasse ulteriormente l’aspetto tragico, vedevamo razzi leggiadri innalzarsi verso la cima di quell’inferno e sbocciare come fiori di luce, per poi ricadere, moribondi, con uno strascico da cometa. Eravamo abbagliati da quello spettacolo, il cui angosciante significato era chiaro solo ai veterani. Fu la prima visione che ebbi della furia scatenata del fronte1.

Chevallier – che la Grande Guerra l'aveva vissuta in prima persona e che in queste pagine si affida a una voce fittizia solo per ragioni stilistico-narrative – non risparmia nulla alle proprie descrizioni, tanto qui che altrove: ci sono le trincee, l'alterigia ingiustificata dei comandanti, i loro ordini arbitrari, gli assalti incomprensibili, la disperazione più avvilente, il freddo, la fame, il sangue, la sozzura, l'ombra della morte che tallona chicchessia. Di questa «furia scatenata», di questa odissea trituratrice che non risparmia nessuno, tanto meno quelli rimasti ancora in vita, il protagonista fa le spese quasi subito, ferito seriamente nel corso di un attacco in cui brandisce ordigni che non sapeva e non sa ancora utilizzare. Durante il lungo periodo di convalescenza, all'interno dell'ospedale militare, viene a contatto con infermiere cariche di ingenuo patriottismo, ed è qui che ha modo di tracciare una sorta di personale manifesto antieroico che discorda vigorosamente con la propaganda, la retorica e gli eroismi strumentalizzati dal governo:

Il gesto dell'eroe è un parossismo di cui ignoriamo le cause. Al culmine della paura si vedono uomini diventare coraggiosi, di un coraggio terrificante perché disperato. Gli eroi puri sono rari quanto i geni. E se per avere un eroe bisogna massacrare diecimila uomini, preferisco fare a meno degli eroi.

Nelle osservazioni di Chevallier, Jean Deartmont e i suoi compagni diventano quindi l'antitesi della visione romantica del militarismo, delle presunte virtù guerriere, dell'orgoglio di chi si immola insensatamente per la patria, mentre gli uomini che occupano i posti di comando sono invece dei burattinai insensibili e spietati che non lesinano orrori di ogni tipo alle truppe costrette con la forza alla più misera obbedienza:

Quando si è vista la guerra come l’ho vista io viene da chiedersi: «Perché mai si accetta una cosa simile? In nome di quale tracciato di confini, di quale onore nazionale la si può legittimare? Come si può travestire da ideale ciò che è pura delinquenza, e fare in modo che venga approvato?».

E ancora:

Con che diritto dispongono di me, questi strateghi di cui ormai conosco le nefaste elucubrazioni? Rifiuto la loro gerarchia che non ha niente a che vedere con il valore, rifiuto le politiche che hanno portato a questo disastro. Non ho alcuna fiducia negli organizzatori di massacri e disprezzo persino le loro vittorie, perché ho visto fin troppo bene di cosa sono fatte.

Lasciato l'ospedale militare e ripresa ineluttabilmente la via del fronte, Jean si reimmerge, e in misura tanto più infausta, nel clima della guerra combattuta, di quella paura che in maniera tanto emblematica dà il titolo al libro e che nelle dinamiche del conflitto rappresenta sempre e comunque l'ago della bussola.

Calato nuovamente nel gelo mortifero delle trincee, ecco riemergere l'angoscia che distrugge la solidarietà, il bieco istinto di sopravvivenza, l'abulia di chi distoglie lo sguardo dal compagno in fin di vita o già cadavere, l'invidia nei confronti di chi riceve incarichi per le retrovie o dell'imboscato di turno che ha saputo eludere i controlli.

La guerra in tutto il suo abominevole squallore, in cui non c'è mai vigliaccheria perché la paura – il solo e unico sentimento che anima l'intero esercito – è ovvia e naturale, laddove il terrore che domina l'animo di tutti non è mancanza di animosità o coraggio, non è colpa e non è difetto, ma la normale reazione di un essere umano che viene costretto a imbracciare un'arma e scagliarsi con essa contro altri esseri umani piegati allo stesso misero destino. In barba agli slogan che volevano (e che in fondo continuano a volere) i soldati come militi impetuosi e pronti al sacrificio, Chevallier rivendica invece la vulnerabilità degli uomini, il sentimento di inappellabile sgomento che li accomuna di fronte all'imminenza di una morte atroce e senza senso.

Morte che Chevallier, come l'alter ego di quest'opera attraverso cui rielabora la propria esperienza bellica e intensamente vi riflette, era riuscito a evitare con tutto l'imbarazzo e i sensi di colpa che gravano di solito sugli scampati. Ma la condanna ultima non è riservata ai soldati-schiavi, né ai superstiti né ai caduti, a chi si è immolato irragionevolmente sull'altare della guerra perché tanto spossato dai propri comandanti da non possedere la forza per immaginare una rivolta; la condanna definitiva e improrogabile è piuttosto verso chi ha scelto – per ambizione o tornaconto – di servirsi di milioni di persone come fossero soltanto le pedine di un gioco inoffensivo:

Se noi non sapevamo dove stavamo andando, almeno i capi avrebbero dovuto sapere dove stavano portando le loro nazioni. Un uomo ha il diritto di essere stupido per proprio conto, ma non per conto degli altri.

Note

1 Tutte le citazioni provengono dall'unica edizione italiana, Gabriel Chevallier, La paura, Adelphi, 2008, trad. Leopoldo Carra.