Pokhara, una cittadina sulle rive del lago Phewa, a circa 200 km dalla capitale del Nepal, Katmandu. La prima volta che ci andai, nel 1987, vi abitavano poco più di 120 mila persone: oggi sono in quasi 220 mila. All’epoca del mio primo viaggio la parte abitata era quella sulla riva est e anch’io alloggiavo lì. I duecento chilometri di distanza dalla capitale li percorsi su un autobus che ci mise circa dieci ore.

Non solo era pieno al suo interno, ma anche sul tetto e nonostante non facesse proprio caldo, chi aveva trovato posto là sopra era felice, perché stava partendo per tornare al proprio paese d’origine, dopo mesi o anni di lavoro nella capitale. Ero seduto all’interno, ma dopo aver sentito canti e musiche provenire da sopra, decisi di unirmi a loro. Sì, non faceva proprio caldo, ma la compagnia meritava.

La maggior parte di loro lavorava nei vari alberghi e ristoranti di Katmandu, con dei salari da fame, ma sufficienti per mantenere le loro famiglie a Pokhara. Per loro intraprendere un viaggio era una festa; mi fece venire in mente la prima volta che presi il treno in India, da Calcutta a Varanasi, viaggiai in terza classe assieme a capre e galline. Seduti sulle panche di legno di fianco a me c’era una famiglia di sei persone che salutavano i parenti fermi sulla banchina della stazione. Erano tutti molto allegri ed emozionati. Quando il treno cominciò a muoversi tutti, all’unisono, gridarono “Bholenath”, un’esclamazione che letteralmente vuol dire Shiva l’innocente e che viene usata come buon augurio.

I viaggi in Asia sono sempre molto interessanti, parlo di quelli in autobus o in treno, ma in terza, massimo seconda classe, perché lì trovi l’umanità. Mi è capitato una volta di dover viaggiare in uno scompartimento di prima classe, perché gli altri posti erano esauriti; mi sembrava di aver preso un treno a Milano: ognuno che badava ai fatti suoi, facce serie, tutti impegnati con i loro cellulari o al lavoro con i pc portatili. Una tristezza infinita.

Invece, in mezzo alla vera umanità, si respira un’aria completamente diversa: tutti ridono, si divertono, cantano vecchie canzoni della loro tradizione, come anche l’ultimo successo di Bollywood; mangiano i manicaretti preparati dalle loro famiglie, avvolti in stracci o in carta di giornale e ne offrono a piene mani. Molti di loro non parlano inglese, ma ci si capisce a gesti. Il viaggio è una festa, la vita è una festa. Ho visto i più bei e sinceri sorrisi sulle facce di persone che definire povere è un eufemismo.

Una volta camminavo lungo un viale di Delhi, un viale a quattro corsie trafficatissimo, dove il marciapiede era separato dalla strada tramite una ringhiera di ferro alta circa un metro. Al corrimano della ringhiera avevano legato un telo di plastica nera che finiva a terra, fermato da alcune pietre. Accucciati lì sotto c’erano un uomo e una donna che stavano facendo bollire il chai su un fornello a petrolio. Mi fecero un sorriso irresistibile e mi invitarono a bere il chai con loro. Mi commuovo ancora oggi a ripensarci. Quella era casa loro.

Dicevo di Pokhara: quando passeggiavo sulle rive del lago vedevo che la sponda opposta era praticamente disabitata e, un giorno, notai una specie di palafitta. Noleggiai una barca a remi e andai a vedere da vicino. Si trattava di una stanza singola, piuttosto grande, con la parte a monte poggiata sul terreno e quella verso il lago era sostenuta da due pilastri in cemento. Una palafitta, appunto. Mi inoltrai verso l’interno seguendo un sentiero poco battuto dove incontrai alcune persone a cui chiesi se sapessero di chi era la casetta. Per farla breve la affittai e mi ci trasferii.

Dopo qualche giorno mi venne a farmi visita un uomo più anziano di me, piccolino e con una gamba offesa dalla poliomielite. Mi propose di portarmi latte fresco tutte le mattine: accettai immediatamente. Col tempo diventammo amici e una sera m’invitò a una festa che si sarebbe tenuta in un villaggio sulla montagna. Quando mi venne a prendere mi chiesi come avrebbe potuto salire lungo quella via già difficile per me, ma mi sbagliavo: andava talmente veloce che era lui a doversi fermare per aspettarmi.

Alla festa c’era tutto il villaggio, una manciata di persone e il piatto principale era capra bollita. Mi avvicinai al pentolone per dare un’occhiata. Al suo interno, immersi in un liquido biancastro, bollivano i pezzi della capra: zampe e testa tagliati a pezzi, completi di pelle e pelo. Avevo una fame tremenda, ma riuscii a mangiarne pochissima. Tutti erano felici, disponevano di poco, ma sembrava che quello che avevano non era la cosa più importante. Per loro quello che contava era la festa che significava l’occasione per ritrovarsi, per scambiarsi notizie e informazioni, proprio come accade nelle nostre zone rurali dove la festa organizzata dalla Pro Loco è il momento in cui tutti si riuniscono e parlano del raccolto, del tempo che cambia in continuazione, di chi quest’anno ci ha lasciati e così via.

È quasi incredibile - e al tempo stesso emozionante – come chi da noi viene giudicato povero e arretrato viva questa sua condizione contemporaneamente con dignità e gioia di vivere. Sembra che per loro l’importante sia esserci, con i soldi o meno poco conta. In quei Paesi quando, per esempio, si vuole mandare un pacco o una lettera, o quando si entra in una banca per ritirare dei soldi, si sa quando si entra, ma non quando si esce. Le operazioni richiedono tempo, sia per il numero dei clienti, ma anche perché l’elettricità manca di continuo o la linea (ora internet, prima telefonica) cade in continuazione, ma nessuno si spazientisce: ci vuole il tempo che ci vuole e basta. Anzi, anche in quelle occasioni, si parla, si scherza, si beve il chai, sempre con il sorriso.

Milano, salgo sul treno che mi dovrebbe portare a Genova. Viene annunciato un ritardo di venti minuti: tutti cominciano ad agitarsi, a inveire contro le ferrovie, si lamentano del disservizio e delle tasse che paghiamo e “Chissà i nostri soldi dove vanno a finire?” Uno risponde “Nelle tasche dei nostri politici, dove vuole che finiscano!” Dentro di me sorrido, perché pochi giorni prima ero in India e il mio treno arrivò a destinazione con 48 ore di ritardo e nessuno disse nulla: si continuò a chiacchierare, a bere e a mangiare come se fossero tutti a una festa.

Qualche giorno fa ho provato a rinnovare il mio passaporto. Una volta andavo in Questura, lasciavo il passaporto con un paio di fototessere e dopo una o due settimane passavo a ritirarlo. Oggi bisogna collegarsi al il sito della Questura, prendere un appuntamento per ogni persona che richiede il passaporto e, una volta ottenuta la data, recarsi agli uffici di persona per consegnare il passaporto, proprio come si faceva una volta. Ad oggi sono tre settimane che cerco di prendere appuntamento con la Questura e non ci sono ancora riuscito! C’è un numero da chiamare in caso di necessità, ma lo si può fare solo il lunedì, il mercoledì e il venerdì, dalle 8 alle 9 e non risponde quasi mai nessuno. Ci sono riuscito un paio di volte: la prima mi hanno detto che devo collegarmi con il portale dalle 7:45 in poi, per cercare di essere tra i primi a prendere l’appuntamento, perché loro inseriscono le date disponibili alle otto e, di solito, alle 8 e 5 i pochi posti a disposizione sono già stati tutti presi.

Ci ho provato, ma dopo quattro giorni di tentativi falliti li ho richiamati. Il terzo giorno che provavo a chiamarli mi hanno risposto e mi hanno detto che in settimana avrebbero aggiunto dei posti “straordinari” per luglio e agosto, ma non mi hanno saputo dire quale giorno: “Deve provarci tutti i giorni tra le dieci e le undici e sperare di ottenere un appuntamento.”

E nel caso ce la facessi vale anche per mia moglie? “No, deve prendere due appuntamenti distinti.” Ma se è già vincere alla lotteria prenderne uno, figuriamoci due! “Non so cosa dirle.”

Ma, giusto per sapere, ad oggi quando potrebbe essere disponibile il primo appuntamento? “Al momento siamo arrivati a fine novembre.” Fine novembre? Ma siamo a giugno e io a fine novembre dovrei partire! “Cosa vuole che le dica.”

Ma non vi sembra un sistema assurdo? “Assolutamente sì, ma noi riceviamo direttive dal Ministero, non possiamo farci nulla. Non ha idea di quanti ci insultano per telefono.” Ma non ci sono agenzie che fanno questo servizio per conto del cittadino, altrimenti uno deve passare le giornate davanti il computer, tra l’altro inutilmente. “Si lo fa il CAF, ma si tengono una percentuale.” Ma va benissimo. Grazie li chiamo subito.

Pronto, avrei bisogno di sapere se potete fare voi la procedura per il rinnovo del passaporto on line. “Si certo, deve venire da noi e lo facciamo insieme.” Ma c’è bisogno che ci sia io presente? “Certo, perché l’ingresso al portale della Questura è solo tramite SPID e noi non possiamo farlo per conto suo.”

Ma allora che senso ha, me lo faccio da casa senza dover venire fino ad Alessandria. “A certo, se è capace di farlo da solo le conviene farlo da casa.” Va bene, grazie per l’aiuto.

Fino all’anno scorso ho svolto la professione d’architetto: non avete idea di quante volte mi sia trovato nella situazione che vi ho appena descritto per motivi di lavoro. Innanzitutto le procedure per la richiesta di SCIA o Cila o qualunque cosa serva, variano non da regione a regione o da provincia a provincia, ma da comune a comune, così che il professionista deve sempre chiedere ai vari uffici tecnici, cosa serve loro per accettare la domanda in questione. Non solo certi Comuni accettano il tutto solo on line, ma, molte volte, il loro portale non funziona. Altri invece richiedono la documentazione sia in forma digitale che cartacea, per cui il lavoro raddoppia e lo spreco di carta è quello degli anni ’80. Ma non ci avevano detto che con l’avvento della digitalizzazione non avremmo più sprecato carta inutile?

Per non parlare delle normative per niente chiare che i vari governi di turno cambiano in continuazione, a volte rendendole retroattive, per cui cominci dei lavori con una legge che, nel corso dei mesi, cambia e ti ritrovi a rifare tutto daccapo, con i committenti che si ritrovano un progetto che non è più quello da loro approvato. Un vero delirio. E allora le persone s’innervosiscono, devono passare la maggior parte del tempo in attività che poco hanno a che vedere con la loro professione e necessitano di molto più tempo di una volta per finire lo stesso lavoro. Tornano a casa a orari improbabili, trovando un coniuge all’inizio accondiscendente, ma che col tempo lo diventa sempre meno; ci si arrabbia, si è nervosi anche con i figli, che ormai sanno di avere un padre o una madre perché vedono la loro foto sul comodino.

Ci si ammala per lo stress che si accumula e l sanità non funziona, a causa dei tagli del governo, ma anche perché tutto ormai è on line, ma non funziona bene. Alcuni siti sono fatti da persone che sembrano volerci complicare la vita invece che semplificarcela e se non hai lo SPID non puoi fare più niente; anche il denaro contante ormai è un ricordo lontano, perché ovunque chiedono pagamenti con carte di diverso genere. On line puoi comprare solo con le carte o con i siti di pagamenti on line.

Oggi passo gran parte del mio tempo ad aiutare i miei vicini ottantenni con tutte queste cose di cui loro non s’intendono. E non si può più parlare con nessuno perché ci sono sempre nastri registrati o chat on line con intelligenze artificiali che sono tutto tranne che intelligenti; e dopo che gli fai alcune domande ti dicono che non sanno come risolvere il tuo problema e ti passano un operatore che non sa scrivere in italiano e diventi scemo solo per spiegargli qual è la tua necessità.

Allora cosa intendiamo con civiltà, con umanità, con felicità? Non nego gli innegabili vantaggi che il progresso ci ha portato, ma ne vale la pena? Siamo in grado di distinguere evoluzioni scientifiche, mediche e tecnologiche che realmente sono utili a uno sviluppo della persona e al suo vivere su questi pianeta e quelle che invece ci intralciano per creare l’utile di una cerchia ristrettissima di individui?

Chi vive meglio, noi che anneghiamo nell’opulenza di un oceano tecnologico o chi vive in quello che noi definiamo il terzo mondo, dove la vita va alla velocità di una passeggiata a piedi, di un discorso tra vicini, di un treno in ritardo. Come dicono i Pink Floyd in “If”: “Se fossi un treno sarei in ritardo!”