L’isola dell’Asinara, a pochi chilometri dalla costa nord-occidentale della Sardegna, ha una storia complessa ed affascinante. È la terra degli opposti, una terra che vive di contrasti: nella natura, a volte morbida a volte spinosa, nel clima dolce e poi improvvisamente ostile, nella storia antica e recente e nella memoria individuale che l’ha segnata. Intreccia vicendevolmente le sfumature accese della sua natura vergine con il destino sofferente delle carceri che, nei secoli, ha ospitato.

Le prime tracce di insediamenti umani sull'Isola dell'Asinara risalgono ai tempi del Neolitico, ma è a metà dell’Ottocento che comincia questo particolare legame tra mare e prigionia. È il 1885 quando i cinquecento pescatori e pastori presenti nell’isola, nonché gli unici abitanti, vengono allontanati per regio decreto, insediandosi tra Porto Torres e Sassari, fondando successivamente il celebre borgo di Stintino.

A causa di una grave epidemia di colera, l’isola venne infatti riqualificata in un Lazzaretto, istituendovi una stazione di quarantena alle dipendenze del Ministero della Marina, e in una Colonia Penale Agricola, che ospitava prigionieri politici e pericolosi criminali. Nascevano così le prime celle “vista mare”, suddivise in due diramazioni: la prima a Fornelli, a sud dell’isola, e l'altra a Tumbarino, all’estremo nord. Gli anni successivi sono caratterizzati dalla costruzione di nuove infrastrutture a servizio della colonia penale, ma è con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale che l’isola divenne un unico grande carcere: 25.000 prigionieri austro-ungarici furono infatti qui trasferiti sotto osservazione sanitaria, a causa di infezioni e contagi contratti al fronte.

L’Asinara, nei decenni a seguire, ha accolto soldati e militari in un regime di totale isolamento: è a metà degli anni Settanta però che l’isola si trasforma nell’Alcatraz del Mediterraneo, quando detenuti ritenuti particolarmente pericolosi vengono destinati alla diramazione centrale del carcere, poco sopra Cala d’Oliva. Nel pieno degli Anni di Piombo, il terrorismo rappresentava il nemico numero uno per lo Stato, il quale necessitava di un posto assolutamente inespugnabile in cui brigatisti e mafiosi sottoposti al 41 bis potessero essere rinchiusi e sorvegliati giorno e notte.

Dei mille reclusi in tutto il territorio dell’isola, un quarto lavorava all’esterno: i detenuti meno pericolosi venivano impiegati nei lavori di manutenzione, dall’allevamento del bestiame, all’agricoltura, occupandosi delle provviste di legno e carbone.

All’epoca, attorno alle carceri, c’era un vero e proprio ecosistema umano che, per motivi logistici, abitava sull’isola: il direttore, i medici, gli amministrativi, gli educatori. Per questo, ad oggi, si intravedono ancora i segni di villaggi disabitati, che un tempo erano veri e propri alveari produttivi.

In quella stessa diramazione centrale sorgeva il bunker del boss di Cosa Nostra Totò Riina, chiamato “la discoteca” perché costantemente illuminato, creato da Carlo Alberto Dalla Chiesa, il Generale dei Carabinieri trucidato a Palermo nel 1982.

Ed è proprio tra queste mura impregnate di sofferenza che è iniziata un’altra storia di contrasto e dualismo. Enrico Mereu, noto soprattutto come lo Scultore dell’Asinara, è arrivato nell’isola nel Gennaio del 1980, trasferito da Torino come sotto ufficiale dell’arma dei Carabinieri, diventando poi Brigadiere di Polizia Penitenziaria. Fino al 1998 ha prestato servizio nella diramazione centrale del penitenziario, a Cala d’Oliva, condividendo mura silenziose e cieli incontaminati con i detenuti di massima sicurezza. Nonostante in lui la passione per l’arte fosse insita già da bambino, è in quegli anni che scopre questa sua conflittualità interiore: l’agente scultore, diviso tra creatività e reclusione. Nel contrasto di un tempo senza libertà e nella libertà senza tempo di quest’isola incontaminata.

C’è una caletta stretta e frastagliata a nord dell’isola, poco sopra Cala D’Oliva. Qui, lo scirocco che soffia caldo e avvolgente da sud-est porta con sé, tra le onde, detriti di legno che si spiaggiano gentili tra gli scogli. Enrico non è il tipo di artista che abbatterebbe un albero per le sue opere, ma qui accoglie e raccoglie ciò che il mare gli regala, ciò che la terra gli dona. È un artista maieutico: lavora la pietra ed il legno, percependoli come elementi vivi, rendendoli, tra le sue mani, ancora più veri. Percepisce le sfumature del legno come vene pulsanti: elimina solo il superfluo liberando l’opera.

Lo stesso anno in cui Mereu ha terminato il servizio presso il supercarcere, anche il penitenziario con i suoi otto distaccamenti è stato dismesso. L’isola è rimasta chiusa al pubblico fino al 1999, preservando forse la natura cruda e selvaggia che la abita, garantendo la sopravvivenza della flora e fauna autoctone. Nel 2000 l’Asinara è stata dichiarata Parco Nazionale e tutta l’isola si è così svuotata, ad eccezione di un unico abitante. Enrico Mereu, ad oggi, è l’unico residente dell’isola, dal 1980.

È il custode generoso di questa terra dal magnetismo estremo, talmente bella da lasciar traspirare la sofferenza di tutti i detenuti che qui vi hanno passato mesi, decenni o che qui sono morti. Nell’estate del 2021, durante un’esperienza di volontariato nell’isola, verso tardo pomeriggio mi sono incamminata poco più su del villaggio di Cala d’Oliva, verso il penitenziario. Le visite alla struttura erano già terminate, le sbarre del cancello d’entrata chiuse. Affacciandomi però, seduto vicino ad una cella dalla porta paradossalmente così turchese, intravedo un uomo vestito di bianco, dai capelli sale e pepe raccolti in un codino basso. È così che ho avuto l’onore di conoscere Enrico Mereu, la sua storia e quella dell’isola, inevitabilmente e intrinsecamente legate l’una all’altra.

Nella cella numero due sono, ancora oggi, esposte le sue opere, testimonianze energiche del dualismo che pulsa vivo in questa terra: la natura limpida, la sofferenza silenziosa, l’azzurro delle porte delle celle riflesso negli occhi dell’unico custode dell’isola.