Per vivere serve coraggio. Non nelle situazioni eccezionali che a ciascuno e ciascuna di noi capitano nei momenti cruciali dell’esistenza. Occorre coraggio nelle piccole azioni quotidiane, nel cercare la strada per la compassione, nel suonare al campanello dell’accettazione, nel bussare alla porta della chiarezza, nello spolverare la giacca della connessione o della fiducia o della calma. Per vivere serve coraggio e cioè occorre di quando in quando accarezzare il proprio cuore e sentirne il palpitare, perché il coraggio è proprio e solo questo: un moto del cuore, un soffio dell’anima, una spinta di allineamento del sé verso il sé.

Non sempre riusciamo nell’intento, nonostante i buoni propositi, i nodi al fazzoletto, i manifesti degli auspici vergati con la vernice rossa sulle nostre retine. Nel corso dell’esistenza e anche nel breve tempo di una sola giornata, ciascuno di noi è un po’ temerario e un po’ pauroso, talvolta audace, talvolta riflessivo, in qualche caso ardito, in altri prudente: alterniamo i nostri passi tra gli opposti, abitiamo costantemente tra gli estremi, pendoliamo tra le aberrazioni e la bontà più luminosa. Siamo insieme nani sulle spalle di nani e giganti sulle spalle di giganti. Abbracciamo il coraggio e con questo abbraccio, grazie a questo abbraccio, per il tramite di questo abbraccio, ci facciamo coraggio.

Nelle tenebre del temerario

La persona temeraria osa, si espone ai pericoli, denota audacia non ponderata, non teme. Con il timore e il temere però la parola temerario non ha nulla a che spartire: è fiorita in giardini diversi, ha le radici piantate in altri terreni. Temere significa avere paura. Il verbo deriva dal latino tĭmēre (con l’accento sulla prima “e”) che significava ‘aver paura’, ‘preoccuparsi’ e che ha generato sia timido che timore.

Il temerario è invece l’essere umano che non valuta il rischio e che con imprudenza si avventura in territori non noti. Il sostantivo italiano è un prestito latino: temerārĭus voleva dire ‘avventato’, imprudente’, ‘casuale’, ‘fortuito’, derivato dell’avverbio temĕrē (con l’accento sulla prima “e”) che voleva dire ‘senza riflessione’, ‘alla cieca’, forma ablativa di un sostantivo disusato temus -ĕris, con il significato di ‘oscurità’. Quell’avverbio temĕrē appartiene alla stessa famiglia di tenĕbrae, che in italiano è diventato tenebre. Il temerario non sfida la sorte ma dalla sorte è governato, procede con gli occhi bendati, vaga di qua e di là semplicemente perché non conosce la propria meta. Il temerario è una persona notturna, priva di luce, avvolta nelle tenebre che ne puntellano il nome. Il temerario non teme solo perché è all’oscuro di ciò che sarebbe bene temere. In questo appare naïf, non del tutto consapevole, incapace di valutare i rischi delle sue azioni e dei suoi comportamenti.

Scriveva Gabriele D’Annunzio, il vate pescarese, esaltando la gioventù: “Salutami i giovani che - essendo robusti - sono temerari”. E aggiungeva subito il suo motto: “Memento audere semper”, ricordati di osare in ogni situazione. Il cieco temerario avanza nella notte della propria inconsapevolezza. Osa, per l’appunto, sempre, anche quando non è opportuno. D’Annunzio, ancora lui, nella tragedia La nave, scriveva: “Ancóra una volta, ancóra una volta la temeraria getta su la terra il dado e gioca col suo dèmone”. Il temerario gioca a dadi, non sfida nessuno, fa i conti con i propri demoni e i propri notturni fantasmi. Commentava a metà del Seicento il drammaturgo spagnolo Pedro Calderón de la Barca: “Il valore è figlio della prudenza, non della temerarietà”.

Gli arditi sono hard

A volte una posa, a volte una frase, a volte un semplice gesto può apparire ardito. Cioè coraggiosamente sopra le righe. Non solo inaspettato ma frutto di un osare, di un andare al di là di quanto fosse atteso. La parola ardito (come il suo derivato ardimentoso) è un prestito germanico per il tramite di altre lingue. Il suo significato più profondo ha a che vedere con la proprietà di resistere alla scalfittura o alla lavorazione, cioè la durezza. In francese antico hardi voleva dire ‘coraggioso’, derivato da un ipotetico verbo hardian che significava ‘rendere duro’.

La persona ardita è in promo luogo inscalfibile, duro come la roccia. Tant’è che la parola ardito si connette al germanico hard che ha prodotto in tedesco hart e in inglese hard. Quando contrapponiamo le soft skills, le competenze trasversali che accomunano tutte le professioni, alle hard skills, le competenze tecniche indispensabili per svolgere un determinato lavoro, possiamo far tornare alla mente la parola ardito. E se associassimo la parola ardito alle hard skills, potremmo divertirci a considerare le soft skills come l’opposto di ardito, cioè skills discrete, non sfrontate, rispettose e riguardose.

Lo ricordino Leonardo/a, Gerardo/a, Riccardo/a e Bernardo/a che in quel -ardo/a finale conservano una traccia dell’hard, della durezza e un po’ dell’ardimento.

La fortuna aiuta gli audaci

L’audace osa, sfida, arrischia e in qualche caso ha la meglio. “La fortuna aiuta gli audaci” è un vecchio adagio tradotto in italiano da un verso dell’Eneide di Virgilio. È il re dei Rutuli (abitanti del Lazio) Turno a pronunciarla. Lui, antagonista del troiano Enea, incita i compagni ad attaccare l’esercito troiano ma – nel racconto virgiliano – Turno non avrà fortuna.

La parola audace ha come genitore l’aggettivo latino audax -ācis che voleva dire ‘audace’ e ‘impudente’, derivato a sua volta del verbo audēre che significava ‘osare’. Il latino audēre appartiene alla stessa famiglia di avēre e cioè ‘desiderare’, ‘bramare’, da cui è disceso in italiano l’aggettivo avaro. Nel Convivio, Dante Alighieri cita l’audacia: “La prima [virtù] si chiama Fortezza, la quale è arme e freno a moderare l’audacia e la timiditate nostra”.

Il poeta e scrittore tedesco Johann Wolfgang Goethe la invoca: “Qualunque cosa sogni d’intraprendere, cominciala. L’audacia ha del genio, del potere, della magia”. Commenta lo scrittore russo Anton Cechov: “Il talento è l'audacia, lo spirito libero, le idee ampie”. Osa, audacemente, il pittore francese Eugène Delacroix: “Senza audacia, ed estrema audacia, non vi è bellezza”.

Aggiunge, con un misto di mestizia, di consapevolezza e di ardimento Charles Bukowski, poeta e scrittore statunitense: “Si fa solo un giro, sulla giostra. La vita è degli audaci”. Già, è proprio così, si fa un solo giro, sulla giostra.

Gli impavidi tengono la testa alta

In alcune situazioni le persone appaiono per nulla intimorite o scoraggiate. Si approcciano alla meta con fare sicuro, con un atteggiamento baldanzoso, imperterrite nel raggiungere il risultato che si propongono. Giuseppe Mazzini strigliava gli italiani: “Pensate quali siano i vostri doveri e accingetevi a compierli impavidi, colla fronte alta e col contegno che s’addice ai difensori d’una causa santa”.

Ecco, le persone impavide sono proprio così: con la testa alta e il petto gonfio di speranza e di volontà. Nell’essere impavidi ciò che manca è la paura. Il contrario di impavido è pavido, cioè colui che ha paura, dal latino pavēre che voleva dire ‘essere colti dallo spavento”. Quel verbo pavēre si può confrontare con un altro verbo latino, pavīre, che voleva dire ‘battere la terra’ e che fa intravedere un significato originario di ‘battere (i piedi e i denti)’ inteso come manifestazione esteriore della paura. Discendente di quel pavīre è la parola italiana pavimento. L’impavido tiene dunque la testa alta, non rivolta al pavimento a cui invece guarda chi ha paura.

Al cuore del coraggio

Serve sempre più coraggio per navigare tra i flutti di una tempestosa conteporaneità. La sede etimologica del coraggio è il cuore. In latino, cor, cordis . Il cuore balza, vibra, saltella, come quando ti innamori, ma anche gioca e s’impietrisce, nel gioco imprevedibile della vita. Si diventa coraggiosi per essere concordi (cioè con il cuore che batte con lo stesso ritmo) ma anche per essere discordi (perché bisogna sapere affrontare i conflitti, saper gestire le relazioni più tese, senza alzare le mani e le armi).

Si diventa coraggiosi anche per ricordare. Queste due parole, coraggio e ricordo, sono lontane parenti: hanno un bisnonno comune, che è appunto il cuore. Ricordare significa attivare la memoria, che è anch’essa una parola potente. Memoria fiorisce da una radice antica mar, smar, che vuol dire mi ricordo, conosco, ma anche desidero. E il ricordo è quindi una forma di desiderio, desiderio di qualcosa che è stato, che non è più e che forse non sarà più. Ricordare è un’attività cardine (anche cardine riporta a cuore e coraggio). Coraggio. Serve coraggio per navigare tra i flutti di questa tempestosa contemporaneità

Il tracotante che non pensa

Le persone tracotanti hanno scarse capacità di pensiero, se il pensiero è ponderazione, cioè capacità di riporre i pesi giusti sui bracci della bilancia per osservare l’inclinazione che assume la vita con le sue le relazioni, i suoi perché e i suoi affinché.

L’aggettivo tracotante è il participio presente di un verbo dell’italiano antico, tracotare (anche nella versione oltracotare) che derivava a sua volta da coitare ovvero ‘pensare’, esito popolare di cogĭtāre ‘pensare’. Il prefisso tra- ha in questo caso il significato di ‘oltre’, nel senso di ‘andare al di là di ciò che è giusto pensare’. L’orgoglio presuntuoso e arrogante proprio di chi fa della tracotanza la cifra dei propri comportamenti è in realtà frutto di uno sviamento, lo sviamento dal ben pensare.

Lui, Joe Temerario

Rosalino Cellamare, in arte Ron, ha scritto nel 1984 una canzone allegra e malinconica al tempo stesso su un personaggio a suo mood “temerario”.

E se mio figlio sapesse già parlare mi direbbe
tu, tu come stai stasera ti senti solo vuoi che resti con te?
Ma sì, parliamo un po', io dormire no proprio no!
Dai camminiamo insieme per questa strada vuota
E dimmi tutto di te, della tua vita, dai comincia tu.

Oh, oh, oh, oh, oh
Sono figlio di questa lunga notte nera e poi
Oh, oh, oh, oh, oh
Vivo in quella strana casa con mio padre e mia madre e ho
Dieci fratelli stessi occhi scuri stessi capelli
Andiamo a caccia di notte come i gatti neri
Ci troviamo sopra I tetti tutti quanti
Sotto una grande luna che

Oh, oh, oh, oh, oh
Che mio padre ogni sera corre fuori a guardare mentre
Oh, oh, oh, oh, oh
Mia madre è lì alla finestra guarda sempre lontano
Quella coda di fuoco quando passa un aeroplano
passa un aeroplano
Lei vorrebbe salire, sì, vorrebbe partire poi sparire
Lontano

Sparire lontano
Poi ogni sera resto solo come ogni sera resto solo
Si potrebbe andare al cinema o mangiare un gelato
Poi si blocca, sorride: potessi dargli un bacio, presto dammi un bacio
Oh, oh, oh, oh, oh
Se lui avesse già le orecchie per potermi ascoltare
E una testa in mezzo da accarezzare gli direi
Io, io sono un uomo, tutti mi chiamano
Faccio mille acrobazie col mio aeroplano
E diecimila volte ho già toccato il cielo
Perché come un falco io

Oh, oh, oh, oh, oh
Arrivo a tremila metri e poi mi butto giù in picchiata
Oh, oh, oh, oh, oh
Ma che emozione ogni volta sfidare la vita
Rotolando nel cielo sopra il mio aeroplano
Ma ogni sera resto solo come stasera sono solo
Cosa dici andiamo al cinema, magari a fare un volo
Ma perché non sorridi?
Presto dammi un bacio, presto dammi un bacio