Nel settembre del 2001 ero seduto insieme a tanti altri come me in un’aula della Facoltà di Studi Orientali della “Sapienza”, e ascoltavo Tullio De Mauro aprire i cancelli della Linguistica con incredibile competenza e grande senso dell’umorismo. Da vero gentiluomo napoletano quale era, parlava con affetto del Napoletano, “nobile lingua”, e da strenuo sostenitore dello Strutturalismo di quando in quando lanciava qualche frecciata a Noam Chomsky e alla Grammatica Generativa, all’idea cioè che esista una super-matrice innata nel cervello di ognuno, che si manifesta poi nella lingua madre che si apprende da bambini. Un insieme di regole dalle quali si possano far derivare tutte le regole di ogni lingua storico-naturale.

Chi studia Linguistica comincia con il Corso di Linguistica Generale di Ferdinand de Saussure, e impara presto a fare i conti idee quali “arbitrarietà del segno”, “onnipotenza semantica”, “Langue e parole”, “significante e significato”. Sono tutte idee logiche e perfettamente sensate, solo che nessuno ci aveva pensato prima o, se ci aveva pensato, non ne aveva parlato in termini così chiari.

“Arbitrarietà del segno” vuol dire che non c’è nessun motivo necessario per cui una cosa debba chiamarsi con il nome che ha. Non c’è nulla nella biologia della capra che fa sì che essa debba chiamarsi “capra”. È una semplice convenzione. Lo stesso vale per tutte le altre parole in tutte le altre lingue. Per chi ha letto il romanzo Il Mago, parte del Ciclo di Earthsea di Ursula K.Le Guin, la meraviglia della storia risiede anche nella legge che regola l’esercizio del potere: per padroneggiare la magia è necessario conoscere il vero nome delle cose, nella lingua che venne usata per crearle all’inizio del tempo. Nel mondo di Earthsea, il “segno” della lingua originale non è arbitrario, e ogni cosa risponde al proprio vero nome quando esso viene pronunciato.

Ho sempre trovato questa una intuizione molto intelligente. Nella mitologia della mia cultura, il mondo venne creato attraverso una parola, e la prima responsabilità affidata da Dio all’essere umano è dare un nome a tutte le cose. Proprio come il primo atto ufficiale, come genitori, è attribuire un nome al bambino appena nato. Il nome è ciò che radica qualcosa nella realtà e la rende conoscibile. Ciò che può essere nominato può essere conosciuto, mentre ciò a cui non è possibile attribuire un nome spaventa. È per questo che l’antagonista di Harry Potter viene chiamato continuamente “tu sai chi” oppure, per chi preferisse un libro meno inflazionato, chi prende prigioniera Lucia Minnella ne I Promessi Sposi è chiamato l’Innominato. Il “significato” è ciò che una parola indica, il “significante” è l’insieme di suoni con cui si costruisce quella parola, la sua forma acustica, se è orale, o le lettere da cui è composta, se scritta. Noi guardiamo un insieme di lettere e vediamo immediatamente il significato. Uno straniero, magari di una cultura che usa un sistema di scrittura diverso, vede solo le lettere.

Tra significante e significato esiste un rapporto curioso. Il significato esiste indipendentemente dalla forma che assume la parola, ma senza significante non può manifestarsi nella realtà. Non può essere espresso, e non può essere comunicato. La profonda saggezza di questo concetto mi ha sempre affascinato. Più avanti, la bibliografia del corso di Linguistica ci portò a conoscenza dell’ipotesi Sapir-Whorf, secondo la quale la visione del mondo di un individuo cambia a seconda della lingua che parla. Per i curiosi, questa è la base del film Arrival. Naturalmente si tratta di un’ipotesi, e non di una verità scientifica. Posso però confermare per esperienza diretta che, quando penso in una lingua straniera, cosa che mi capita di frequente per una serie di ragioni personali e professionali, ci sono operazioni che mi riescono più semplici in una lingua e sfumature che si possono esprimere nell’una ma non nell’altra. Dunque, forse la lingua non altera la mia visione del mondo, ma la mia capacità di articolarlo sì.

E veniamo a Confucio. Famoso perché si pensa a lui e ai biscotti della Fortuna come all’alternativa cinese dei Baci Perugina. Da giovane gli preferivo altri autori più anarchici e più mistici, o “esoterici”, se vogliamo. Lo Yijing, con i suoi esagrammi, o il Dàodéjīng, con la sua insistenza sull’agire senza pensiero di profitto o di convenienza. C’è però una parte del pensiero di Confucio che trovo infinitamente saggia e dolorosamente attuale nel mondo odierno, specie nella sua sfera più “occidentale”. Si tratta del concetto della Rettificazione dei Nomi.

Confucio non lasciò nulla di scritto, quindi per sapere cosa insegnasse bisogna basarsi su quanto hanno raccolto e trascritto i suoi allievi. Tuttavia, Confucio non si esprime mai in modo complesso, né parla per immagini o parabole. Arriva direttamente al punto, il più semplicemente e chiaramente possibile. La Rettificazione dei Nomi è questo: si deve fare in modo che una parola corrisponda al suo significato. Può sembrare banale, ma non lo è per niente.

In Giulietta e Romeo, Shakespeare fa dire a una Giulietta non ancora quattordicenne (cosa che in molti tendono a dimenticare): “una rosa, anche con un altro nome, continuerebbe a profumare di rosa”. Una frase come questa sembra violentemente rivoluzionaria, o reazionaria, a seconda dei punti di vista, rispetto all’idea che si possa decidere quello che si è e quello che non si è. Nel discorso di Giulietta però c’è solo una dimensione logica, non etica. Quale che sia il significante che le si attribuisce, “rosa”, “rose”, bara 薔薇, warda وَردَة, il fiore sarà sempre quello. Il problema vero è quando si prende un altro fiore e si pretende di chiamarlo “rosa”. Lì crolla tutto. Letteralmente.

Nella mitologia della nostra cultura, nello specifico Genesi 11:4, un gruppo di persone decide di superare i confini del buonsenso e della ragione e di innalzare una torre tanto alta da raggiungere il cielo. Dio, comprensibilmente contrariato, decide di impedirlo, e per farlo non ha bisogno di ricorrere a mezzi come terremoti, inondazioni, carestie o piogge di zolfo. Gli basta rendere gli uomini incapaci di comprendersi. Il significato rimane lo stesso, ma i significanti non lo sono più. Senza potersi capire, non resta altro da fare che abbandonare il progetto. Quando due persone non dispongono più di un significante sul quale entrambi concordano, la comunicazione diventa impossibile e l’attività umana complessa si ferma. Per questo Confucio insiste che il primo passo verso qualsiasi miglioramento della condizione umana è quello di ristabilire il corretto rapporto tra i nomi e ciò che essi indicano. Se questo rapporto viene meno, qualunque sforzo è destinato al fallimento.

Per inquadrare il discorso in prospettiva, si deve considerare fra l’altro che le lingue sono sistemi estremamente economici. Se ci sono due identiche parole per lo stesso significato, una tende a scomparire. Se rimangono entrambe, vuol dire che c’è una differenza, una sfumatura, presente in una e assente nell’altra. “Camminare”, “avanzare”, “proseguire”, “incedere”, sono tutti sinonimi, ma non sono esattamente la stessa cosa. Conoscere tutte le possibili varianti di una parola significa poter scegliere, e la facoltà di poter scegliere è il veicolo della libertà. Se c’è un solo modo di dire una cosa, c’è un solo modo di pensarla. E quando c’è un solo modo di pensarla, non c’è più libertà. Basta leggere 1984 di George Orwell e osservare come la Neolingua sia essenziale per la conquista e la conservazione del potere. Dovunque vi sia stata una dittatura, si sono distrutti i libri e si è controllata la lingua.

La lingua è, insieme alla coscienza, ciò che ci distingue davvero dal resto delle specie viventi. Certo altre specie hanno sistemi di comunicazione estremamente complessi, ma solo noi siamo capaci di parlare per ipotesi, solo noi possiamo proiettare il discorso nel futuro, e solo noi possiamo usare il linguaggio in maniera creativa. Qui risiede la trappola più insidiosa. Che differenza c’è tra raccontare una menzogna e raccontare una storia? Chi ascolta la storia è consapevole che ciò che ascolta non è una narrazione della realtà. Chi ascolta una menzogna, no. Quando nella nostra mitologia il mondo viene creato per mezzo della parola, e la salvezza viene per mezzo della Parola, l’insegnamento di fondo è incredibilmente importante. Le parole costruiscono la realtà nel cuore e nella mente dell’altro. Quando l’altro non sa che la realtà costruita dalle parole che ascolta è falsa, è indifeso contro di esse. E quando scopre che la realtà che credeva vera è in effetti falsa, perché frutto di una menzogna, allora si infuria.

Nel suo libro Memorie di uno Yogi, Yogananda spiega così il motivo per cui tutte le più grandi religioni contengono una proibizione contro la menzogna. La parola si traduce in realtà solo quando è Dio a pronunciarla. Se a pronunciarla è l’uomo, o la donna, può solo trasformarsi in storia, con il consenso di chi ascolta, o in menzogna, senza il consenso.

L’estrema conseguenza della Rettificazione dei Nomi è che la sincerità, cioè il far corrispondere le proprie parole alla realtà delle cose, ha la precedenza su tutto, anche sul rispetto. In cinese, la parola chéng è scritta 誠, formata da 言 “dire” e 成 “diventare”. Non si sarebbe potuta trovare rappresentazione migliore, miglior “significante”, per un “significato” così cruciale.

Che la verità sia più importante del rispetto è un’affermazione coraggiosa e pesantissima, in un angolo di mondo in cui offendere la sensibilità di qualcuno sta assumendo rilevanza penale. A maggior ragione se si pensa che Confucio aveva strutturato il proprio insegnamento come fondamento per una società armoniosa ed equilibrata, dopo che la Cina era stata per secoli un territorio di frazionato in piccoli regni continuamente in guerra l’uno con l’altro.

Il problema fondamentale insito nel “politicamente corretto” è che il valore supremo a cui tendere è il non offendere nessuno. Confucio dissentirebbe, e a buon diritto. Non offendere nessuno significa imporre al proprio pensiero un’autocensura tale da rendere impossibile dire qualsiasi cosa, rendendo di fatto la lingua inutile. Sostituendosi in questo modo al potere sovrannaturale che toglie all’essere umano la comprensione della parola altrui come punizione per avere osato sfidare la sua autorità. Confucio invece afferma che sì, il rispetto è certamente importante, ma non tanto da ledere la centralità della virtù cardinale dell’ “onestà, sincerità”.