«Ho ricevuto un dono da bambina e ho cercato per tutta la vita di restituirlo agli altri. Perché questo dono era talmente bello che ho pensato: se ha fatto bene a me farà bene a chiunque». Manu Lalli e il dono di abitare più a teatro che fuori. Il che, conoscendo il fuori…

Regista, specializzata nella formazione, nel 1993 ha fondato a Firenze l’associazione Venti Lucenti che colleziona numeri eclatanti. Ne diamo solo alcuni. Dal 2007 il progetto All’Opera… Le scuole al Maggio, realizzato con il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, con il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, ha portato 10.000 studenti in palcoscenico, 25.000 studenti in sala che hanno cantato dalla platea, 80.000 spettatori in totale; ha coinvolto 2500 insegnanti, dei quali 800 in scena, e 400 studenti del liceo in alternanza scuola lavoro (ora PTCO Percorsi Trasversali per le Competenze e l’Orientamento).

Aitante, capelli ebano, occhi verdazzurro, sorriso hollywoodiano. Le sarebbe impossibile sfuggire ai riflettori. Manu Lalli non è una bellezza da scoprire poco a poco. A poco a poco, semmai, si è scoperta lei che, finalmente, entra a falcate ampie a prendersi, e godersi, gli applausi. Percorsi impegnativi verso la consapevolezza le si leggono nello sguardo e trapelano dall’eloquio toscano e spumeggiante.

L’inizio?

La ragione per la quale mi occupo di bambini e di divulgazione musicale dipende dal luogo dove abitavo. Il comune di Fiesole è stato uno dei primi in Italia, e forse l’unico in quel periodo specifico, ad assumere un animatore. Poteva succedere solo negli anni Settanta quando c’era una ventata riformista e si sperava di intervenire sulle vite delle giovani generazioni. Era il tempo di “Una risata ci salverà”. Poi non c’ha salvato (ride n.d.r.).

Magari senza sarebbe stato peggio?

Appunto. Penso che quella ventata, trasformata, edulcorata, o incrementata, qualcosa abbia fatto, almeno dal punto di vista della pedagogia. Ho avuto la fortuna di incontrare in prima elementare Alfredo Puccianti, che si laureò con Pio Baldelli (con il quale poi ho studiato anche io). Puccianti lavorava con persone che abitavano in questi micro-paesini nel comune di Fiesole e che non sapevano un tubo del teatro, e nel volgere di un decennio ha coinvolto la cittadinanza intera.

A sette anni ci portava in facoltà con i nostri spettacoli. Ho conosciuto Dario Fo, Gianni Rodari, mi sono trovata quindicenne a sapere un monte di cose che gente di trent’anni non sapeva e a diventare sua assistente. Insieme abbiamo riproposto a ragazzini più piccini quello che avevamo vissuto. C’erano trenta laboratori teatrali, poi Puccianti mi sfiniva con i film: conosco la cinematografia del pianeta.

Dopo ho cominciato a lavorare nelle scuole superiori di Firenze e ho fondato l’associazione Venti Lucenti. A Rifredi c’era il festival di teatro-scuola e facevo gli spettacoli con i ragazzi con disagio sociale, o disabili (non so più come chiamarli perché le difficoltà ce le hanno, eccome, ma possiedono anche un’immensa ricchezza). All’Istituto Elsa Morante ho lavorato quasi vent’anni. Uno dei posti a me più cari perché ho proprio una passione per i ragazzi con le fragilità.

Hai vinto tanti premi, diciamolo.

Una quantità incredibile! Nel 2000 è morto Alfredo Puccianti. Non lavoravo più con lui, viaggiavo in qua e là, ma avevo tenuto aperto il laboratorio al Teatro Romano di Fiesole dove ho allestito uno spettacolo su Molière che era una specie di omaggio a lui e quella sera ho incontrato un organizzatore di opera lirica. L’anno successivo ero a Taormina a mettere in scena Traviata. Da allora ho fatto molte regie di opera dopodiché, cercando di mettere insieme l’amore per i bambini, la formazione e la divulgazione è venuto fuori questo progetto nuovo che nel 2006 ho proposto all’allora soprintendente del Teatro del Maggio, Francesco Giambrone, uomo speciale, che, con una lungimiranza e un’intelligenza rare, mi disse: «Va bene, fallo. Leghiamolo al titolo del cartellone». Che era L’oro del Reno.

Wagner, così per cominciare?

Wagner è il miglior compositore per fare robe da bambini. Il mio preferito. Gli alberi magici, il fiume, i giganti, le vicende avventurose. Paradossalmente è più difficile Verdi, passare la matassa di significati del Don Carlo, pervaso di religione restrittiva, è un’impresa, specie con gli stranieri. Una “fiaba” come L’oro del Reno è cinematografica e la musica diventa un personaggio, con quei leitmotiv: è super divertente. Un giorno Giambrone, allibito, vide in teatro una bambina con le gambe a ciondoloni che cantava in tedesco. “È L’oro del Reno di Wagner” gli spiegò con naturalezza. Anche con Rossini ti diverti, in altro modo.

Sedici anni di successi.

Ho sempre professato che attraverso la musica si veicola l’emozione con più potenza, ed effettivamente dalle reazioni ho avuto la conferma. Sono una secchiona: studio l’opera, approfondisco. Gli spettacoli non sono mai integrali, ma mantengo la lingua di riferimento perché, secondo me, è importantissimo che i bambini capiscano che ci sono le varie lingue.

Nelle opere, come nelle fiabe, ci sono talmente tanti significati che noi non vediamo. I personaggi sono potenti e pieni di amore, gelosia, odio, risentimento. Mi fa più fatica fare un’opera da bambini che per adulti. Perché la devi tagliare, sistemare senza perdere la struttura narrativa, la purezza del soggetto, ma devi anche cercare le ragioni per le quali quell’opera risuona dentro di noi e risponde alle domande che ognuno si fa. Ai bambini non puoi raccontare novelle, ma devi trasmettere la verità. Vogliono conoscere.

Come procedi?

Leggo i saggi, guardo gli allestimenti, cerco di capire. Un esempio: Carmen. Ti domandi se dei bambini così piccoli siano in grado di assorbire un’informazione violenta come quella della prevaricazione di un uomo su una donna. Se la devono interpretare devi spiegarglielo, no? La risposta è sì. Non solo hanno delle risorse che non ci aspettiamo, non solo ascoltano quello che succede intorno a loro, lo acquisiscono e lo elaborano, ma aiutano te.

Il mio grande cruccio è che quando ti confronti con chi lavora nel teatro d’opera ti accorgi che molti hanno l’idea che i bambini sono piccini e che allora si fa un allestimento un po’ cheap. No! Sono adulti in miniatura che hanno gli stessi sentimenti, le stesse rivendicazioni e hanno bisogno di un livello altissimo estetico. La capacità critica l’acquisisci a quell’età, o mai più. Infatti ai progetti- spot per i giovani non ci credo assolutamente. Hai presenti le “deportazioni” alle prove generali senza averli preparati?

Tu come li prepari?

Ci lavoro tanto e isolo dei temi che a me sembrano quelli che possano risuonare in chi sta facendo lo spettacolo e, di conseguenza, in chi lo vedrà. E comincio a raccontare. Credo nella forza del racconto, stare seduti con un po’ di gente a raccontarsi le cose. Il copione non lo scrivo prima: nasce durante. Uno spettacolo, e questo succede a tutte le compagnie, è sempre il prodotto totale del dialogo che si instaura fra le persone. È chiaro che in un gruppo di dieci adulti c’è uno scambio intellettuale altissimo, con novecento bambini è diverso. I bambini hanno un altro sistema di approccio e gli devi voler bene. Io li abbraccio tanto. Non puoi non amarli, ho i brividi anche ora a dirlo.

Poi ho la fissazione di fare stare le maestre sul palco e questo porta alla nascita di relazioni e di empatia con gli alunni: hanno davanti il publico che che li giudica entrambi. La maestra che veste il bambino, il bambino che veste la maestra e le dice che è bella. Sono relazioni straordinarie. A me piace lavorare con elementari, medie e superiori insieme perché nella vita reale non si fa l’esperienza di mescolarsi con persone di altra età mentre io miro a questo: il coinvolgimento di tutti è ciò che mi gratifica di più.

Fra i bambini che accade?

Un miracolo. Perché ci sono anche quelli tremendi. Violenti, aggressivi. Ci sono, accidenti. Accade un miracolo, ti assicuro. La metodologia di Venti lucenti, frutto del contributo di tantissime altre persone, oltre me, è quella dell’inclusione costante. Se c’è un ragazzo sulla sedia a rotelle, i compagni lo sostengono. Dietro le quinte non possono parlare perché gli si spiega che il boccascena è una bocca, appunto, e si sentirebbe tutto in platea. Avvengono delle epifanie da non credere. Se c’è uno isterico, una compagna lo calma. Un altro tiene la gonna della compagna da dietro, senza che lei se ne accorga, perché il movimento sia fluido.

In questo tipo di attività quello che non si vede è di più di quello che si vede, nel senso i bambini con i quali ci confrontiamo non fanno parte dei cori delle voci bianche. I maestri si fanno in quattro e magari a volte trovi un gruppo particolarmente dotato, ma le ore di lezione sono troppo poche perché la qualità vocale sia degna delle opere che si fanno, ma non è quello che si cerca. Che è il “contagiare”, quando c’era la pandemia la gente mi guardava malissimo (ride n.d.r.), di sedurre perché quell’esperienza non gliela descrivi, ma gliela fai vivere. Io sono la rappresentazione vivente che funziona e la mia vita è migliore grazie al teatro. Quando sento Scarpia urlare contro Tosca, piango, mi emoziono.

Si “contagia” chiunque?

No. Il teatro è per tutti, ma non tutti sono per il teatro e a qualcuno non piacerà mai. Avendo lavorato tanti anni in molti paesi d’Europa, ma mi è successo anche a Cuba, so che quando arrivi in un paese straniero e ti presenti come italiano subito ti identificano con l’opera. Mi sembra incredibile che nelle scuole italiane non ci sia un meccanismo di conclamata educazione. In Germania studiano musica per quattordici anni, in Italia si suona il flautino alle medie, uguale a decenni fa.

Un ricordo patetico.

Penoso! E suonano ancora le stesse canzoni che suonavamo noi. Quando racconto che l’opera è nata in Italia, a Firenze, parecchia gente non lo sa. Perché non riusciamo a farcene vanto. Oggi, per fortuna, c’è più un’attenzione all’interno degli enti lirici sia alla formazione degli artisti, l’Accademia del Maggio è preparatissima, sia alla formazione del pubblico che, al momento, è composto da persone di età.

I docenti?

La maggior parte di quelli che incontro sono illuminati, di cultura. Non tutti, ovviamente, ma sono trent’anni che lavoro a scuola in tutta Italia e direi per il 90 per cento gli insegnanti sono capaci. Fare l’insegnante è un lavoro poco considerato e di enorme responsabilità: puoi rovinare o portare a stelle l’essere umano del quale hai il privilegio di prenderti cura. Hanno proprio una vocazione, tipo preti, sennò non resisterebbero.

E anche Manu Lalli, in fondo, è una sorta di sacerdotessa.