La prima volta che Sara vide una partita di basket aveva dieci anni, fu suo nonno a portarla.

Sorrisi, saluti. Lui, persona di pochissime parole e di una pacatezza smisurata, si limitava a scuotere la testa quando la squadra faceva un’azione a suo parere sbagliata, solo rare volte lo si poteva sentire lasciarsi andare ad un leggero brontolio di malcontento. Lei, nel suo piccolo, si limitava a battere le mani per incoraggiarli e ad incrociare le dita ogni volta che si arrivava ai tiri liberi, un mero piccolo aiuto che nella sua convinzione di bambina poteva assolutamente cambiare le sorti della partita.

Solo ora, da grande, capisce che lei e suo nonno erano quelli tranquilli, i piccoli ordinari tifosi che si limitano a sedersi sulle gradinate, ad alzarsi solo durante la pausa o quando la partita è terminata. Dal loro angolo di mondo vedevano sempre quel gruppo di ragazzi e uomini che sembrava arrabbiarsi e gioire più degli altri, sembravano un corpo unico quando saltavano e le loro canzoni, insieme a quel tamburo, Sara li sentiva battere forte nello stomaco come se stessero toccando, senza che se ne accorgesse, una parte nascosta del suo essere.

Ovviamente gli anni passano, il nonno camminava sempre più lentamente ed era sovente chiedere il braccio per un sostegno. Sorrisi e saluti agli amici di sempre. Non si ricorda esattamente quando, ma finirono a guardare le partite di basket alla tv. Erano quelle della Lega A o, come le chiamava lui, quelle importanti.

Poi lui è arrivato all’ultimo quarto, uscendo di scena con un ultimo tiro da tre al suonare della sirena, e per Sara non ci sono state più partite.

Stefano segue il basket da quando ne ha memoria, ogni volta che varca la porta del palazzetto per lui è come tornare a casa. Le prime volte era solo un bambino e sua madre lo aiutava a varcare quelle mura tenendolo stretto per mano, spaventata che si perdesse in quelle onde composte da un mare di persone, lo portava con sé verso il settore delle persone che stanno sedute sulle gradinate. Però Stefano lo vedeva sorridere e, con un moto di amorevole ribellione, si strattonava dalla madre, per raggiungere le braccia di suo zio che felici lo alzavano in aria.

Sorrisi, saluti, mani che amorevolmente gli spettinano i capelli. Con lui ha imparato l’arte del rimanere in piedi, in quella parte movimentata degli spettatori che viene chiamata “curva”, dove non ci si limita ad applaudire o guardare lo spettacolo, si diventa veri e propri tifosi. Le vittorie e le sconfitte della squadra sono le tue, ma per loro rappresenti anche la più importante delle difese, quella che non provi in allenamento ma che riesce a seguirti anche fuori casa, nelle partite in trasferta, e che con le sue grida riesce a tenere lontano anche i giocatori più forti.

Da casa ha i ricordi di sua nonna che, prima delle partite, era china giorno e notte sul tavolo in cucina a cucire insieme, sotto forma di bandiera, quei due colori che rappresentano con forza un’intera città. Per anni, crescendo, ha passato partita dopo partita in quel palazzetto, intonando canti insieme a suo zio, tenendo alta la bandiera al suo fianco, gridando per gioia e per rammarico. Un giorno però il mister chiese un time out improvviso, nessuno era pronto, dalla curva si elevava solo un tombale silenzio. In una maniera mai conosciuta la partita è finita così, arrivando ad una sirena finale prima dell’ultimo quarto.

Sorrisi, saluti, pacche sulle spalle. Una sorta di muto rispetto per chi, come lui, durante la partita non conosce un posto a sedere, ma solo la solidità delle proprie gambe, nella stessa esatta posizione che lui ha tenuto per anni con orgoglio, mentre in braccio stringeva il nipote che ha visto crescere pian piano. Ogni volta che entra all’interno di quelle quattro mura il suo spirito lo avvolge e Stefano alza la bandiera, portando ora la fierezza di due persone in un solo corpo.

Durante un freddo inverno, in quella stessa città, il ragazzo della curva e la ragazza della gradinata si stringevano la mano timidamente, iniziando ad innamorarsi l’uno dell’altra. Lui ogni tanto la sera le baciava la guancia e, vestito di quei due colori, si avviava verso il palazzetto, lasciandola acciambellata sulla poltrona in compagnia di un buon libro. Un giorno però Sara decise di alzarsi da quella poltrona e di seguire il compagno.

Varcate le porte del palazzetto sentì subito il calore scaldarle le guance arrossate per il freddo, gli inizi di urla di una folla. Per la prima volta in vita sua svoltò a sinistra verso la curva e si ritrovò in mezzo a quel baccano che aveva sempre visto da lontano.

Sorrisi, saluti, pacche sulle spalle, mani che si stringono per fare conoscenza. Dall’inizio alla fine della partita è tutta un’onda di energia che inesorabilmente ti trascina, ti fa alzare le mani e urlare fino a perdere la voce. Al fianco del suo compagno sente quei tamburi che ora le vibrano nel cuore, prendendo possesso dei suoi battiti. Si ritrova, sorridendo, ad incrociare le dita quando si arriva ai tiri liberi, un goccio di fortuna e di preghiera uniti, guardando il canestro. La gioia e lo scontento diventano un sentimento collettivo che prepotente ti prende anche se inconsapevole. Non puoi non essere felice di un canestro, esattamente come sei insoddisfatto quando quella sfera arancione rimbalza sul metallo del canestro.

Al termine della partita la folla si disperde, ma l’energia ti rimane attaccata fino a che non sei arrivato alla macchina. Sorrisi, saluti e ognuno va per la sua via. Ci sono poi loro due che mano nella mano proseguono verso un cammino comune, lei con un sorriso da bambina e lui con lo sguardo innamorato, mentre due anime li guardano orgogliosi vivere, quel ragazzo della curva e quella ragazza delle gradinate.