Quando arrivò a Parigi, nell’estate del 1948, trovò una città da poco uscita dal martirio di una guerra atroce, divisa tra l’entusiasmo di una ritrovata libertà e il nuovo tormento dei regolamenti di conti e delle rappresaglie verso chi aveva collaborato con gli invasori nazisti, per 4 lunghi anni al comando della ville lumière. Lei quella guerra non l’aveva vissuta perché’ veniva da un altro mondo, quello più povero di tutto l’emisfero occidentale, dove la miseria e la violenza erano – e tuttora sono – storia di tutti i giorni. Parigi per lei, ancora adolescente, rappresentava un sogno, quello degli anni folli dallo straordinario fermento creativo, degli artisti e dei poeti, dei boulevards e dei Café gremiti di folla, ma soprattutto di nuove prospettive di vita.

Ultima figlia di una numerosa famiglia haitiana benestante, Jacqueline Joseph non avrebbe conosciuto la nera povertà della maggior parte dei suoi connazionali, ma avrebbe seguito la sorte delle donne del suo ceto sociale: matrimonio combinato, casa, figli e regole non scritte ma imperanti di comportamento conformista. La sua sfida alle convenzioni cominciò fin da bambina. E poiché era impossibile parlare con un padre autoritario, Jacqueline scelse il silenzio, anzi un vero e proprio mutismo che ruppe solo quando ottenne il non facile permesso di trasferirsi a Parigi.

Salpò da Port au Prince nel giugno del 1948 e compì in nave il suo sedicesimo compleanno. Non importavano le ferite lasciate dalla guerra a quella capitale del mondo, e forse neanche le vide. Finalmente poteva liberare il suo talento artistico e affrontare una nuova impresa ardua, quella di mettersi in gioco, lei poco più che bambina, di fronte a personaggi del calibro di Picasso, Braque, Matisse, Chagall o Ernst.

Il coraggio non le mancava, anche se per una donna, anzi una ragazzina, la strada era anche più difficile da percorrere. Fu allieva di Claude Perset, architetto, scenografo e decoratore, conobbe le opere di Braque, ma in particolare fu influenzata da quelle di Gauguin. Nei suoi primi anni parigini frequentò Marija Marevna Vorob’ev, pittrice russa di fama internazionale che prima della Seconda guerra mondiale aveva avuto una tumultuosa relazione con Diego Rivera, da cui ebbe una figlia, Marika. Fu proprio Marika, divenuta amica di Jacqueline, a parlarle di quel padre, grande pittore e muralista, che lei, però, non aveva neanche mai visto.

Le porte dell’atelier del maestro messicano si aprirono invece per una Jacqueline poco più che ventenne, la quale volò a Città del Messico e diventò una delle sue allieve predilette. Era il 1955, Frida Kalo era morta da pochi mesi e Diego si dedicava con grande impegno alla didattica. Al momento della partenza regalò a Jacqueline un catalogo delle sue opere con una dedica in cui la incoraggiava a tornare da lui per poter sbocciare come un ‘fiore raro e smagliante’.

Al suo ritorno in Francia Jacqueline Joseph aveva comunque già definito un linguaggio personale che univa la cultura umanista delle sue esperienze parigine con l’insegnamento di Rivera e la luce e i profumi dei tropici. Anzi, più si allontanava da Haiti, più le immagini e i colori della sua terra si ingigantivano fino a diventare quasi un’ossessione.

Soprattutto le donne furono i soggetti irrinunciabili della sua arte. Accovacciate nei mercati di strada davanti alla loro povera mercanzia, riunite in un groviglio di corpi e braccia che sembrano formare un tutto unico e indissolubile, come indissolubile appariva il loro destino. All’inizio i loro volti avevano occhi e lanciavano sguardi, poi tutti i lineamenti scomparvero per lasciare il posto ad ammassi umani senza identità, come spettri di un incubo senza fine.

Sempre le donne sono protagoniste delle attese serali nella luce rosata delle spiagge caraibiche e dei pomeriggi di siesta nelle ville della ricca borghesia haitiana. Gli uomini no, loro resteranno fuori dalle opere di Jacqueline Joseph fino a molto tempo dopo. Fu soltanto intorno agli anni Settanta che li incontriamo nelle tele dedicate al carnevale. Carnevale haitiano, ovviamente, quello che Jacqueline si ricordava della suoi anni giovani, con uomini sconvolti in danze forsennate, proprie, forse, di quelle pratiche voodoo tanto in uso ad Haiti e di cui lei era persino spaventata. Sono quadri inquietanti che rivelano le sue angosce mai sopite. D’altronde tutte le sue opere, sin dagli anni giovanili, appaiono pervase da profonda empatia, anche se mai l’artista perde di vista un’eleganza formale intrisa di innato spirito esotico.

Una volta tornata in Francia dopo i mesi messicani, Jacqueline si stabilì a Saint Paul de Vence, in Provenza, dove conobbe André Verdet, pittore e poeta francese, Alberto Magnelli, artista italiano, e divenne amica di Jacques Prevert e di Francoise Gilot, pittrice e compagna di Picasso. Fu allora che incontrò Victor Nesti, artista eclettico e versatile, nato a Londra e poi trasferito a Firenze dove aveva seguito i corsi di Ottone Rosai all’Accademia delle Belle Arti. Fu lui il compagno della sua vita e con lui cominciò un’esistenza ‘nomade’ che li portò in tutta Europa, dalla Svizzera alla Germania, a Torino e a Capri e infine a Castiglioncello e poi a Pisa.

Ci furono mostre importanti, come quelle a Palazzo Strozzi nel 1972 e 1973. Prima ancora aveva partecipato alla Biennale di Venezia, come rappresentante della Repubblica di Haiti. Di lei scrisse, tra i molti altri, il critico Dino Carlesi:

Le tele sono testimonianza di una solitudine che va al di là dei piccoli gruppi chiusi dentro spazi assolati. Sono tele senza case, senza tetti assolati, senza prospettive paesaggistiche, in cui l’esotico non è lo stravagante, lo straordinario, ma la muta sequenza di queste attese personificate.

E Carlo Ludovico Ragghianti sottolineava:

Un artista come Diego Rivera non poteva sbagliarsi nel comprendere il sentimento sincero che anima la sua pittura. Mi sembra che lei riesca a togliere alle sue figure ogni facile distruzione aneddotica, per evocare un mondo silenzioso e favoloso con un autonomo trasporto di contemplazione.

Resta dunque incomprensibile oggi, a tre anni dalla sua scomparsa, l’oblio che ha accompagnato gli ultimi anni della sua esistenza. L’avvento dell’era di internet, che ha radicalmente trasformato i metodi di comunicazione, lasciando inesorabilmente indietro chi non ha saputo o potuto inserirsi in nuovi percorsi artistici, ha le sue responsabilità. La vicenda personale dell’artista ha ugualmente contribuito all’allontanamento del grande pubblico e della critica. Dalla morte del marito Victor, avvenuta nel 2008, Jacqueline Nesti Joseph non ha infatti più dipinto una sola tela, giungendo persino a distruggerne alcune in qualche momento di disperata follia.

Ma c’è una ragione di più che ha reso invisibile questa artista, come molte altre che hanno attraversato il ’900 lasciando tracce importanti, scomparse in fretta dagli schermi. Essere artista-donna non è mai stato facile, a partire dal Rinascimento fino all’Impressionismo. Ce lo ricordano figure come Artemisia, Susan Valandon e Berthe Morisot, tra le poche ad essere riuscite, con grandi difficoltà, ad emergere in un mondo che, anche per l’arte, era esclusivamente maschile. E per quelle rare pittrici che sono emerse, uno stuolo di artiste di valore è rimasto nell’ombra per non aver avuto le stesse occasioni dei colleghi uomini. Purtroppo poco o niente è cambiato in epoca moderna e contemporanea. Non più tardi di un paio di anni fa il Centro Pompidou ha dedicato una mostra alle pioniere del ’900, mostrando il loro contributo essenziale, ma sconosciuto, all’evoluzione dell’arte. «Ho scoperto queste artiste donna attraverso ricerche durate diversi anni, ma continuo a scoprirne di nuove», sottolineò la curatrice Christine Machel. «Sono 110 quelle presentate nell’esposizione, ma ce ne sono almeno un altro centinaio che avrei potuto aggiungere, se avessimo avuto lo spazio».

Di questo esercito di fantasmi ‘trasparenti’ fa parte anche Jacqueline Nesti Joseph, che dopo aver combattuto molte battaglie è stata costretta da eventi personali, storici e sociali a gettare la spugna all’ultimo round. Gli ultimi anni di vita li ha trascorsi immergendosi in quel mondo silenzioso e tragico da cui era fuggita battagliera quando aveva appena 16 anni e che ha ritrovato identico o forse anche peggiore di quando lo aveva lasciato. Il destino doloroso della sua terra, che ci sembra lontana anni luce, ma che è solo a poche decine di chilometri da paradisi turistici, è rimasto immutato nei secoli. Quelle donne dai corpi contorti e senza volto aspettano ancora il riscatto. Così l’arte raffinata di Jaqueline Nesti Joseph che per prima è entrata con forza penetrante nella loro umile realtà.