Segantini – ritorno a Milano, è la mostra allestita al Palazzo Reale di Milano a cura di Annie-Paule Quinsac e Diana Segantini, una produzione del Comune di Milano, della Fondazione Mazzotta e Skira, con 120 opere provenienti da importanti musei e collezioni private europee e statunitensi.

La scelta di legare il pittore a Milano non è casuale, perché la città ambrosiana ebbe un peso rilevante nella sua biografia e nella sua formazione artistica. Si tratta di ricordi dolorosi, come quando, orfano di entrambi i genitori e affidato a una sorellastra, appena dodicenne è arrestato per ozio e vagabondaggio e internato in un riformatorio. Il soggiorno ambrosiano è stato, però, anche snodo fondamentale della sua affermazione artistica per la successiva formazione presso l’Accademia di Brera con i primi riconoscimenti e la conoscenza dei fratelli Grubicy, mercanti e critici d’arte, che ne intuirono il valore, lo tennero sempre aggiornato del panorama pittorico internazionale e ne diffusero l’opera.

La mostra è un doveroso tributo a un artista che, adorato in Giappone e apprezzato in Austria, Germania e Svizzera, è poco conosciuto e considerato dal pubblico italiano e, fino a qualche decennio fa, sottovalutato dalla critica nazionale. Molte sono state le cause di questo oblio: dal un punto di vista della fortuna critica, come ha voluto sottolineare Annie-Paule Quinsac, curatrice dell’esposizione, il futurismo avversò pregiudizialmente la pittura di Segantini, mescolando critica d’arte e irredentismo, come emerge da questo feroce commento di Umberto Boccioni: “Segantini, ignorantissimo, circondato da tedescherie, posa a grande sacerdote d’una nuova religione della natura e piano piano sdrucciola dagli azzurri ghiacciai italiani alla sterile bassura germanica. E’ l’era scientifico-estetica tedesca. Nell’arte italiana si fa strada, parallela all’organizzazione proletaria, marxista-tedesca, l’organizzazione dello spirito …”. Purtroppo, fecero l’effetto opposto anche gli immancabili e retoricamente celebrativi versi di D’Annunzio nelle Laudi: “Implorazioni di monti, voci del regno alto e santo, / … la rupe e il ghiacciaio albeggia solo come un camino che attende / grandi orme venture …”. Infine, il crollo dell’impero asburgico, dove , dopo la morte del pittore, si cominciava a curarne la fama (Segantini, nato ad Arco di Trento nel 1858, era pur sempre cittadino austriaco), ritardò ulteriormente il suo riconoscimento. Ma anche dopo la sbornia nazionalista del ventennio fascista, con l’affermazione dell’egemonia franco-parigina, che bollò di provincialismo tutto quanto esulava dalla linea che dall’impressionismo portava al cubismo, all’astrattismo e alle avanguardie, uno dei più autorevoli critici italiani, Roberto Longhi, inserì Segantini tra “i nostri modesti adorabili provinciali”.

Oggi, vinti questi secolari pregiudizi, possiamo godere tutta la bellezza e la novità divisionistica delle sue tele in una sinfonia di colori e di forme che vogliono unire emozione e sentimento: l’emozione viene dal quid che ci pervade nell’immedesimarci panteisticamente in quella natura che è fatta della stessa pasta della nostra essenza umana, il sentimento germina dalla cognizione di questa emozione, che ci avvicina ai soggetti, umani, animali, vegetali e minerali dei suoi quadri. Per non cadere in quella retorica che aveva fatto di Segantini un eroe “maledetto”, morto a poco più di quarant’anni in una dispersa baita delle alpi svizzere dell’Engadina mentre cercava di immortalarne il paesaggio in un Trittico della Natura per l’Esposizione Universale di Parigi del 1900, bisogna ricordare che, dopo, i derelitti anni dell’infanzia e dell’adolescenza, la vita dell’artista era cambiata. Grazie, appunto, alla “protezione” dei Grubicy e della loro galleria, Segantini riuscì ad affermarsi, anche economicamente, fino a sistemarsi in un lussuoso chalet in Engadina e, pur definendosi “orso della montagna”, soleva frequentare la bella società svizzera ed europea che amava villeggiare nelle montagne elvetiche e si avvicinò ai circoli intellettuali velatamente anticlericali, filo-massoni e repubblicani, cosa che provocò la rottura con la scapigliatura democratica, tendenzialmente socialista e anarchica.

Nonostante questo, come ha notato Anna Maria Brizio: “Subito, con Segantini, il divisionismo nasce con una forte spinta populista e progressista; con un implicito, anche quando non è apparentemente dichiarato, coinvolgimento nelle tensioni sociali contemporanee …”. Su questo discorso s’innesta poi il problema del “simbolismo” segantiniano, da molti visto come una facile scappatoia dalla realtà in un’idealizzazione arcaica della natura, ma che, in effetti, si pone come implicita componente di quel misticismo panteistico, che, lungi da essere un mero esercizio letterario o decorativo, interessò altre forti personalità dell’arte di fine Ottocento. D’altronde, Segantini era nato in montagna e montanaro era rimasto, calando in città, Milano, solo per necessità e aggiornamento; dunque, la sua predilezione per i paesaggi alpini non era una scelta “decadente”, ma consustanziale alla sua natura: “Io non credo di fare cosa che non sia strettamente e imperiosamente volontà del fato e stabilita nell’armonia generale dell’universo nel tempo e nello spazio”.

Rimaneva il problema, non solo di Segantini, ma di tutto il divisionismo, di riuscire a conciliare scienza e sogno, mistero e natura, impegno e contemplazione. Solo lui e pochi altri ebbero la capacità di pervenirne a una sintesi esteticamente compiuta, lasciando la testimonianza, come ha scritto Bellonzi, “di una scelta suggerita dal carattere sacrale dell’esperienza artistica, occupando il vuoto lasciato dall’insufficienza delle religioni storiche”.