Nell’era della pienezza di Zeus regnava la metamorfosi come status normale della manifestazione. Mentre nell’era già interessata dalla profezia di Themis la realtà si irrigidiva, gli oggetti si fissavano.
(Roberto Calasso, La follìa che viene dalle ninfe)

Compito e scopo dell’umana potenza è generare e introdurre una nuova natura o nuove nature in un corpo dato. Compito e scopo dell’umana scienza è trovare la forma di una natura data, ossia la differenza vera o natura naturante o fonte di emanazione.
(Francesco Bacone, La grande instaurazione, Libro secondo, I, 1620)

Un piacere stereoscopico ce lo procurano l’incarnato, il fogliame, il verso del pelo, la vernice incolore, la patina oleosa. Percepire in maniera stereoscopica significa acquistare contemporaneamente mediante un unico organo di senso due qualità sensorie. Dice Angelus Silesius: Nello spirito i sensi son tutti un senso e un uso: chi vede Dio, lo gusta, lo tocca e ascolta e annusa. Noi sentiamo che il gioco dei sensi si muove leggero, quasi misterioso velo, quasi sipario del meraviglioso. Su questa tavola imbandita non esiste cibo che non contenga un granello d’aroma dell’eternità.
(Ernst Junger, Il cuore avventuroso, Il piacere stereoscopico, 1938)

Due sono i riferimenti mistici fondamentali del concetto di Natura rediviva: un passo del profeta Amos (8,1.2) in cui una cesta di frutta viene presa ad emblema profetico della maturazione dei tempi apocalittici per Israele, e un celebre passo di San Paolo (Lettera ai Romani, 8,19-22) in cui anche il creato viene associato alla dinamica del travaglio spirituale in tensione verso l’universale partecipazione alla Resurrezione di Cristo. Se la vita umana è gestazione di un feto spirituale che deve ancora nascere, al Cielo, pure il creato, al cui vertice l’Uomo che lo riassume, si rivela quale trasformazione progressiva la cui destinazione è la manifestazione di una perfezione data dalla Redenzione, già misteriosamente operante nell’immanenza delle cose. Poli cosmici di quel Barocco senza tempo che è dramma e gloria, decadenza e rinascita, incessante avanguardia. (Gaetano Delli Santi, La forza generativa del barocco, Fabio D’Ambrosio, 2006). Come il corpo glorioso del Risorto conserva le piaghe della crocefissione così la Natura rediviva, manifesta un’ipervitalità “innestata” in un’incelabile ferita esistenziale.

La mistica del frutto che si perfeziona con il distacco, cioè con la morte, ergo il processo che trova nella massima individuazione la riconoscibilità di un’altra vita cioè Cristo/Frutto che manifesta pienamente la propria gloria nella Croce. Se la Natura è movimento, variazione, allora nell’equidistanza fra verticalità e orizzontalità della sua centralità immota la Natura rediviva è subliminalmente crocefissa. Non importa la mano che l’ha posta fuori dall’ambiente originario per esaltarla antinaturalmente. Quel che importa è la celebrazione che la visione fa di se stessa. La fragilità effimera del contingente viene redenta dalla glorificazione della fragilità. Analoga funzione morfologica applica Sabrina d’Alessandro nella sua opera Il Libro delle parole altrimenti smarrite nel quale trasforma in icone di corpi testuali, esibiti scenograficamente, preziosità lessicali arcaiche, desuete, resuscitando antiche forme che assumono ipso facto nuovi colori, suoni, sensi narrativi. Muta il contesto; muta il valore e la comunicazione. Recisione e rinascita, processo pure fisico, già postmoderno in quanto permeabile a più codici ermeneutici.

Ci sono Nature redivive in cui emerge il linguaggio dell’abbandono, la lirica delle spoglie; in altre l’idea della ricostruzione vitalistica, ove l’artificio simula un senso di spontaneità più efficace della percezione degli equivalenti empirici. Come nelle opere di Paola Nizzoli in cui l’iper-realismo genera un’aura fantasmagorica mozzafiato. Opere che sembrano provenienti da altri mondi, aliene in quanto Nature elevate a potenza; un 3D nella qualitas come nella quidditas. Lo Still life sacrificale trofeizzazione tassonomica, ma antiscientifica, di Nature colte nel loro cerimonioso disfacimento, assolutizzate nella sincope fra uso e scarto. C’è in realtà una profonda umanizzazione, nella studiatissima posa e nelle significanze posizionali simboliche, veicolate pure nelle composizioni più astratte, abbozzate. Nature simbolicizzate almeno in quanto segnate dallo e nello spaziotempo.

Qui l’arte riattinge alle proprie sorgenti ancestrali dove la rappresentazione è magnetismo totemico delle cose contrabbandate dai loro simulacri rituali. Golem oggettuali. Anche nel Mito uno dei segni più potenti, il Vello d’oro, come il Palladio o l’Egida, cos’erano se non Nature recise, e quindi redivive? Ne conservano l’ambiguità, il mistero. Un impenetrabile racconto fra trauma e ricomposizione. Ricapitolazioni cosmiche per sineddoche, sinestesia e retorica enfasi, medicina dell’horror vacui. Se l’immaginario è il mondo, il vertiginoso elenco del creato, se la materia immaginale è l’edibile, l’usabile, allora la pittura assume un adamitico ruolo individualizzante. Baconiano. L’Arte, la Natura ricreata dall’arte, quale filosofia del discrimine. Pittura filosofica, senza soluzione di continuità fra visione e ob-jectum, la Natura rediviva può rivelarsi provocatoria/dissolutiva, come nei rivoluzionari temi storici dell’osteria, dell’ebbrezza, delle carni squarciate.

Lo Spaccio di carne di Pieter Aertsen o la Macelleria di Annibale Caracci. Lo Still life è intramontabile allegoria della pittura che varca la tipizzazione. Abbiamo cataloghi interi di questo fenomeno, le cui matrici possono esser simbolicamente ridotte all’empirismo baconiano, da cui l’autocelebrazione egemonica, e al misticismo cristiano, nella spiritualità corporale di Naturazioni d’abbandono. Lo Still life persiste polisemico in quanto res assorbente l’immaginario, aperta alla ricontestualizzazione. L’indeterminatezza dell’ambientazione invita a riallocare allegoricamente. Ma è idea di allegoria perché non si dà linguaggio convenzionale che abbracci in parallelo tutta la natura, se non la Natura stessa che si dà come codice. Il fenomeno si sviluppa fluidamente fra Mito della Modernitas e tradizionale celebrazione della continuità organica umanità/creato. La mitologia della Nuova Atlantide di Francesco Bacone fonda l’idea di una ibridazione e selezione della Natura tale da trasformarla in un quid in cui non si distingue più fra spontaneità/artificio, assecondando quello schematismo latente che ricompare nelle dinamiche sottotraccia proprie della Natura Rediviva.

Se lo Still life assolutizza un tempo semantico preciso fra maturazione e corruzione, fra l’apocalisse del Dio che era, è e viene (Ap. 1,8) e l’inizio della decadenza, allora non basta l’archetipo ninfico dello Specchio a risolvere il fenomeno, ma va richiamato l’emblema del Pettine, dello scorrere manifesto del tempo, sancito dall’alterità dell’ambientazione. Il tavolo, la tovaglia, il pavimento: indicano le Naturazioni senza dire nulla oltre a una totale ancillarità. Eppure sono contesto genetico! Servono a far trionfare il connubio idea/visione, trofeo di un’esistenza che si erge a essenza. Gli elementi vengono posti, quasi sonnambulicamente, in un’aura attoriale in cui il significante si slabbra dal significato. La Natura recita senza svelare il proprio mistero ma semplicemente permettendo che venga illustrato. Il nesso causale evapora. Ne sarebbe felice Heinz Von Foerster. La Natura quale oggetto, simbolo di se stessa. La stessa scelta compositiva assume un ruolo di rifondazione che sana la frattura fra frammento e a-peiron, avvicinando la numinosità dell’Indistinto alla liricità dell’irripetibile.

La Natura rediviva è corpo spirituale, proiettato oltre lo spaziotempo, cristallizzato in un non luogo, in un non tempo. Idea utopistica, puramente artistica, assorbente immaginari più che vissuto, elegie più che fisica referenzialità. Questo mi ricorda Bentivoglio nel suo Tipota (1999), che prende corpo da discorsi poetici di Fellini sulla sorte dei fondali scenografici terminate le riprese. Non è l’uccisione dell’animale o la recisione del fiore a interessare chi guarda una Natura rediviva, ma l’attenzione è tutta concentrata sulla visione quale realtà autarchica. Il contesto subisce l’oggetto. Un bricco d’acqua vicino a una testa d’aglio è già enigma. Sub-jectum e ob-jectum si incrociano nell’esibizione. La situazione narrativa domina i suoi componenti e l’esaltazione lirica dell’oggettualità solitaria colma l’apparente deficit soggettivo. Non può neppure dirsi un genere come altri, ma più un approccio, uno sguardo. Anzi, un’idea di sguardo. Alla funzione contemplativa si aggiunge una funzione etimologicamente collettiva cioè raccogliente aggregati affettivi. L’Uomo colleziona frammenti di mondo. Li ritesse in unità organica per allontanare l’idea di morte, per imprimere senso di perpetuazione.

Lo Still life realizza un riscatto redentivo dall’opposta dispersiva funzione di consumo. La Natura ritorna libera nel Mito dell’identità, nella massima individualizzazione, per una pura estetica rivelativa. La relazionalità resta endovisionaria. Il curatore è virtuale collezionista di artisti e di opere, a loro volta collezionanti visioni. Il catalogo è lista sia pratica che poetica (Eco, Vertigine della lista) perché elenca opere esistenti ma de iure assume un valore aggiunto quale emblema riassuntivo rinviante a un’Essenza, a un Discorso. L’iterazione delle visioni genera di per sé un senso di unità organica sovraesemplaristica. Visione di visioni. Dizionario di sintassi, non lessicale. La mercurialità vitale trova una fissazione non standardizzabile, già i rapporti di senso vengono reificati e l’oggetto assorbito dal consumo, nel celebrare l’oggetto quale rito riscattandolo dall’assenza di sguardo. Il coniugio fra controllo assoluto della manifestazione e assoluta idea della spontaneità calma l’animo, rasserena la mente. Un mantra, un ikebana occidentale. La contemplazione delle Nature restituite si rivela plurale: dalla vanitas alle vette della sublimazione estetizzante, dal lirismo intimistico alla musealizzazione possessiva, dalla retorica angosciante dell’accumulazione allo scarto della selettività baconiana, fino alla simbolicità oggettuale, alla reattività espressionista, alla corruzione trasformativa, all’allusività ambientale, alla tracciabilità dell’umanizzazione.

Sembra scorgersi un nuovo luogo: quello dell’indicibile fenomenico, una retorica ermeneutica: quella del linguaggio che scorre, videogramma e circumscrittura, sotto il linguaggio, spinozianamente concordante, dei corpi e delle idee. La “pressione contestuale” (Eco, Vertigine della lista) qui è data semplicemente dall’hic et nunc, dalla totalità sollecitante di uno spaziotempo che apre, essendo uno, all’essenza, che è unitaria. Luce/luogo, senza soluzione di continuità, quale fatto preciso, unico. E’ il tempo della manifestazione. Tutti i dettagli dentro la visione. Sono la visione, connotata solo dall’essere posseduta da un tempoluogo. Il resto resta ai margini del cono oculare. Può leggersi tomisticamente: l’elencazione specializzante, parossistica, delle proprietà accidentali evoca l’idea della sostanza cioè della forma compiuta, lascia intravedere l’essenza, l’idea dello sguardo che vede le cose come sono. Senza aggettivazioni. L’eccesso della determinatezza ci parla dell’Ineffabile. La lista del percepibile, giungendo ai limiti umani, recupera l’unità dell’esserci. L’Occhio fisso di una cinepresa ferma si pone quale rappresentato protagonista garante del rappresentabile. La retorica della selezione esemplare fa di un token un nuovo type dell’unicità contingente, totalizzata ma esperibile.

La conoscenza per similitudine viene ridotta al minimo, portando a una visione quale similitudo mundi, un allegoria del Mistero quale necessità rappresentativa di alteralità irriducibile. La continuità con l’Uomo resta nella comune fragilità, nella volontà di vedere. La scelta visiva si fa accettazione senza riserve del Fenomeno, nuova religione dell’Esteriore che ci contiene. Il racconto va oltre la spettacolarizzazione per nutrirsi di immaginari dove ordine/chaos trovano un equilibrio nell’evocazione di una schietta originarietà. Si soddisfa il desiderio jungeriano di una ritornante corrispondenza dalle cose, dagli accadimenti. La pseudotipizzazione rompe la serialità della res per esaltare l’unicità dell’accidente universalizzandolo quale “et in arcadia ego” alla Poussin, quale resurrezione ideativa.

Lo sguardo si “mette in posa” per raccontare l’inenarrabile dynamis della Qualità, inverando esteticamente il principio di Antoine Laurent Lavoisier. Dal rigor mortis alla cupio dissolvi attraverso il trionfo della volontà di senso che continua imperterrita pur nella rescissione della mano umana. Anche l’uomo, quando è oggetto di intenso/significativo sguardo, inizia a irrigidirsi in una posa. Se infatti tutto è oggetto/situazione allora è l’Idea, lo Sguardo, che differenzia commutando il genus “mela” in quell’unica mela, “specializzata”. L’uomo accelera la morte della Natura e la Natura ritorna a se stessa tramite l’autoesclusione dell’uomo. La Natura rediviva non esiste se non come racconto di un processo che resta Altro, cioè Mito, in quanto tale partecipato. Inutile alambiccare sociologicamente. Noi continuiamo a contemplare vegetali, minerali e animali con lo Specchio dello Spirito e con il Pettine del Tempo, convinti che la Veritas sia tiepolianamente filia temporis (Roberto Calasso, Rosa Tiepolo).