“…et jette dans mes yeux pleins de confusion
des vêtements souillés, des blessures ouvertes,
et l’appareil sanglant de la Destruction!” (Baudelaire, “La Destruction”, Le Fleurs du Mal)

Valerie Hegarty è un’artista contemporanea che vive e lavora a New York, molti dei suoi lavori infatti si possono trovare alla Nicelle Beauchene Gallery. Lo scorso 17 maggio si è inaugurata al Brooklyn Museum con durata fino al 1 dicembre 2013 “Alternative Histories”, una mostra comprendente alcuni lavori dell’artista, in particolare opere site-specific con temi come la colonizzazione, e altre fasi storiche dove la repressione è stata dominante. La produzione artistica della Hegarty va dal 2002 a oggi e le sue opere colpiscono fin dal primo sguardo, non passano inosservate. La componente dominante della Hegarty è la D di Distruzione. Come Pete Townshend, leader degli Who che nel 1967 distrusse la sua chitarra sul palco, o come Paul Simonon nella famigerata copertina di London Calling del 1979 dei The Clash.

Distruggere.
Nei suoi lavori l’arte esce nella vita, o la vita esce dall’arte, è tutto un uscire, un fuori-uscire dalla tela che non contiene più, la bidimensionalità viene lacerata, Fontana rules. La tela non contiene più i peccati della pittura, la cornice non ci sta più a fare da deittico, ma sembra urlarci sordamente: anche io vivo! Anche io sono qua! Tutto strabocca, irrompe, evade, esplode. Tutto è corroso, corrosivo, sciolto, disciolto, sotto l’acido della memoria, come nei ritratti splat-splash di Washington. Nulla si salva, tutto è naufragio, incendio, devastazione, degenerazione. Il confine tra bio e artificio si fa sottile e armonioso, come in Autumn on the Hudson Valley with Branches del 2009, ecco un quadro innevato, sommerso da un manto soffice e ghiacciato di neve pallida ma non esanime, raffigurante un paesaggio, i buchi sulla tela sono diventati spazi vuoti di infinito, di aria ineffabile, ed ecco, che dall’esoscheletro del quadro spuntano rami, la realtà è un proseguo della pittura e si fa carne, vita.

Questi rami che sono abbracci spezzati da una struggente malinconia invernale. I lavori della Hegarty sono estremamente tattili, ricordano tanto il polimaterismo futurista, e il connubio di primordio più oggetto di impronta new dada, con la scarica pittorica alla Rauschenberg, come non ricordare Bed del 1955? O Canyon del 1959? Anche alla Hegarty piacciono i volatili e se Rauschenberg usò un’aquila, Valerie riprende i corvi alla Hitchcock sempre in preda alle still life, a nature morte, a frutti abbandonati su tavole fantasmagoriche. Ci sono anche picchi molesti, che tarlano quadri e cornici per lasciare furiosi e detestabili tracce di sé come in First Harvest in the Wilderness with Woodpecker del 2011. Colla, sabbia, fili, piume, plexiglas, schiua, vernici, poster, acquerelli, acrilici, carta, gel, nastri, un’enumerazione materica inglobante ed esplosiva, iridescente e distruttiva.

Watermelon tongue del 2012 vede protagonista un’enorme, famelica, esorbitante, lingua prendere vita da una fetta di anguria, il trompe l’oeil, il cetriolo di crivelli è solo un lontano ricordo. La tela non assorbe più. La materia è un incidente con la vita. Il velo di maya si è rotto. Con questo lavoro la Hegarty critica e contestualizza il fenomeno delle colture truccate di angurie in Cina, dove sopra ai frutti vengono spruzzati certi tipi di ormoni per velocizzarne e aumentarne la crescita soprattutto all’interno. Di impatto visivo e tattile anche Exploding Peaches (Whit frame) del 2012, le famose nature morte seicentesche prendono forma nello spazio tridimensionale, le pesche sono vittime di esplosioni convulse, suadenti, incontenibili, ormonali, le varietà cromatiche dal giallo tenue al rosso sangue sono sfumature di una vita fucilata.

A proposito delle nature morte, viene in mente un capitolo di un saggio di semiotica curato da Lucia Corrain e Paolo Fabbri, citando Proust in All’ombra delle fanciulle in fiore: “... Cercando di trovare la bellezza dove non mi ero mai immaginato che fosse, nelle cose più usuali, nella vita profonda delle nature morte”.

E qui non solo la vita è profonda, ma sprofonda nell’aldiquà, invadendo la nostra dimensione. Il quadro respira, i soggetti anche, esso soffre, essi soffrono, sembra quasi ricordare il Ritratto di Dorian Gray, la tela mostra il marcio, ce lo riconsegna, siamo testimoni di uno sfiorire di eterna bellezza. Una pittura bruciata, disciolta, liquefatta, un incendio irrazionale e stravolgente, in Headless George Washington with table (Marlborough Installation) del 2012 la Hegarty propone un cambio di storia, una virata tra le pagine dell’American History. L’installazione raffigura il celebre ritratto di Washington, una versione che fu salvata da un incendio della Casa Bianca del 1812, ma qui si presenta la storia parallela, quella che alle fiamme non si salva.

Lo scontro è anche tra astrazione e raffigurazione, tra caos e compostezza logica, i flussi pittorici sono cordoni ombelicali solitari, viscere filacciose e pendolanti, virus a piede libero. Autumn on the Wissahickon with Tree del 2010, vede come soggetto un quadro di un paesaggio, distrutto, dilaniato, da crepe e colori furiosi, grondanti, straripanti, e attorno proprio come un’epidemia, un virus infernale, ammala il muro ospitante, crepandolo, contorcendolo, quasi abbattendolo come una foglia morta.

La Hegarty cristallizza l’attimo del terremoto, dell’inondazione, dell’incendio, della furia, del ciclone, della catastrofe. Ma la Hegarty è anche quella specie di miracolo, quel filo dell’erba che cresce attraverso la crepa del cemento, perché dalla ceneri si può sempre risorgere. E’ dal caos che nasce il nulla che è tutto. Una valchiria di materia, è l’eco, un ruggito di un Wagner trionfante, è la creazione della distruzione, o sarà la distruzione della creazione?