Un “oggetto trovato” degli scarichi, macerie della civiltà, che prendono una forma indistinta, sembrano ritornare quasi alla preistoria, assumere la faccia delle terre di nessuno, della assenza dell’uomo stampata negli orizzonti con tante schegge di sua passata e consumata presenza.

(Giovanni Leto, Le terre di nessuno1, a cura di Marcello Venturoli, ed. Associazione Culturale Hobelix, Messina, 1985)

Sono le "macerie della civiltà" che da sempre mi affascinano nelle opere di Giovanni Leto. Quelle macerie che rivelano una ricerca costante, epifanica, stilisticamente incastonata nel suo tempo e, pertanto, in continuo divenire, una ricerca che risente dell'urgenza di una rivelazione, che "non dice né nasconde, ma accenna" (come già aveva intuito Eraclito).

L'oggetto rifiutato dalla civiltà assume un nuovo significato e trova una nuova collocazione nel luogo "delle terre di nessuno, della assenza dell'uomo stampata negli orizzonti con tante schegge di sua passata e consumata presenza" (Giovanni Leto, Le terre di nessuno, a cura di Marcello Venturoli, ed. Associazione Culturale Hobelix, Messina, 1985).

La ricerca di Leto affonda nella fenomenologia dell'essere umano, nella ricerca incessante di una qualche forma di evocazione visiva. La spiritualità del suo racconto, memore di un'avanguardia recente ma comunque legata al passato di un'altra generazione, risente di uno slancio culturale dove pop e arte povera si intrecciano nella materia e attraverso la materia. In questo processo di accumulo materico e di stratificazione possiamo leggere una nuova architettura della narrazione, dell'arte di raccontare l'attuale o meglio, di raccontare la storia personale e collettiva in un gioco (e in un intreccio) di materiali e colori, creando trascendenze pittoriche e suggestioni filologiche che richiamano i Sacchi di Burri e i décollages di Rotella.

Una delle sue recenti opere, Rossori (eseguita nel 2018, il materiale che la compone è costituito da carta e pigmenti su tela) si sviluppa per accumulo verticale, materia che si aggiunge a materia fondendosi con pigmenti e colori. Un'opera pensata per omaggiare la forza e l'energia delle donne nonostante i soprusi e le violenze sul corpo e sull'animo femminile.

Di queste settimane è la rivisitazione della celebre opera di Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, per il nono numero della rivista edita da My Monkey Edizioni. Come scrive l'editore Andrés David Carrara: "Per questo nono numero della rivista My Monkey abbiamo il piacere di avere come protagonista l’artista monrealese Giovanni Leto. In questo caso è quello che potremmo definire il “leitmotiv” della carta stampata ad unire la sua ricerca artistica con questo splendido testo dello scrittore bellunese. I ritmi e le attese del protagonista del romanzo sono i tempi surreali del quotidiano lavoro redazionale del Buzzati giornalista nella sede del Corriere della Sera, ma sono anche i tempi artistici e i materiali protagonisti dell’opera di Giovanni Leto, che ha saputo così brillantemente cogliere lo spirito di questa nostra “provocazione”. Giochiamo a proporre un classico della letteratura a degli amici artisti, curiosi e ammirati nel vedere i risultati di questa provocazione".

Giovanni Leto nasce a Monreale (Palermo) nel 1946. Il suo percorso artistico inizia all’Istituto Statale d’Arte di Palermo. Nel 1964 consegue il diploma di Maestro d’Arte, lascia la Sicilia per frequentare l’Accademia di Brera. Nonostante la breve permanenza, Leto ha modo di frequentare il corso di pittura tenuto da Domenico Cantatore e le lezioni di storia dell'arte condotte da Guido Ballo. Tornato in Sicilia, Leto prosegue i suoi studi all'Accademia di Belle Arti. Risalgono a questi anni le prime esposizioni. Leto riprende la sua carriera negli anni '80, in seguito a una breve stasi. Con la partecipazione a Expo-Arte di Bari, l'artista viene notato dalla critica: Giorgio Di Genova, Enrico Crispolti, Filiberto Menna, Pier Restany, Francesco Vincitorio riconoscono i suoi lavori. Sempre di questo periodo l'importante segnalazione da parte del critico Marcello Venturoli che, dopo aver scritto di Leto in Flash Art come uno dei "dodici artisti più interessanti della Decima Expo Art", cura una sua personale a Messina, alla galleria Hobelix. È da questo momento che Leto inizia ad esporre in tutto il Paese, entrare in contatto con critici d'arte, ricevere riconoscimenti.

1 Il titolo vuole essere un omaggio al testo critico di Marcello Venturoli indicato in esergo all’articolo e un omaggio al catalogo edito nel 1988 da Nuove Edizioni Gabriele Mazzotta a cura di Giorgio Di Genova in occasione della mostra nel dicembre dello stesso anno.