Questa storia me l’ha ispirata o forse insegnata una cara amica, colpita da un male improvviso, incurabile, devastante, che l’ha messa di fronte alla precarietà del vivere, dell’essere, dell’interpretare il quotidiano per come siamo abituati a fare.

Questa storia mi ha messo davanti a un’evidenza che non ho mai osservato con la dovuta attenzione, che è legata al bisogno intimo, profondo, che ognuno di noi ha di raccontarsi e soprattutto di essere ascoltato con la dovuta accoglienza, apertura di mente e cuore, assenza di giudizio.

Un ascolto empatico, disponibile ed equanime, ha la capacità di costruire uno spazio di incontro e confronto nella relazione, all’interno del quale le persone possono sperimentare una nuova qualità dell’esserci, talvolta con funzioni riparatorie rispetto a ferite pregresse, che apre a nuove possibilità espressive.

Questo non necessariamente accade nello studio del terapeuta, anzi molto spesso accade con sconosciuti, persone appena incontrate che proprio per questo ci infondono fiducia.

Chiunque abbia sostato nelle sale d’aspetto degli ambulatori o fatto anticamera da un medico, sa bene con quanta facilità molte persone raccontino di sé, delle proprie vicende e delle proprie malattie. Questa esigenza si fa ancora più evidente nei centri specialistici, dove persone che condividono la stessa malattia si ritrovano per gli accertamenti e le cure. C’è un bisogno profondo di raccontare se stessi che è quasi del tutto ignorato e misconosciuto dal servizio sanitario e dalle persone che vi lavorano.

Sfugge, infatti, il valore profondo del raccontare se stessi e la propria malattia che non è, come può sembrare, un’inutile perdita di tempo. Vale quindi la pena riflettere su questo aspetto, perché riguarda un’esigenza importante della psiche, che non è soltanto di tipo consolatorio.

Non è solo per trovare conforto o semplice sfogo che le persone parlano della propria malattia. A partire dai lavori pionieristici di Bruner, gli studi sulla narrazione ci hanno insegnato che il racconto è un modo per conoscere la realtà e dare ordine al mondo e alla propria storia. Nella quotidianità della loro vita, il bambino prima e l’adulto poi costruiscono storie soprattutto in presenza di eventi non canonici, vale a dire devianti dall’ordinario e consueto fluire degli avvenimenti. Il racconto serve per ordinare, rendere comprensibili e comunicabili, e non da ultimo anche per ricordare meglio, questi eventi che non rientrano negli schemi noti; in questo modo anche gli avvenimenti più inusuali, drammatici e inaccettabili trovano una spiegazione e acquisiscono senso. Non stupisce quindi che le persone ricorrano spontaneamente al racconto di fronte alla malattia, che è, come la morte, tra gli eventi che più drammaticamente sconvolgono la vita delle persone.

La malattia rappresenta una cesura grave, perché dopo la diagnosi tutto sarà diverso. La malattia sconvolge tutti i piani concreti che la persona aveva costruito per il lavoro, la famiglia, gli affetti. Ancor più stravolge la fiducia ottimistica che nutriamo nel futuro, così come la nostra visione del mondo e le attese nei confronti della vita. Per questo, essa viene sovente vissuta come un’ingiustizia, come un evento che inspiegabilmente e iniquamente ci ha colpiti.

In questa situazione, la narrazione è un potente strumento per ritrovare coerenza in noi stessi e in quel che ci accade. Attraverso il racconto cerchiamo di ritrovare un ordine, di ridare un senso alla nostra vita sconvolta dalla malattia, di ridisegnare l’identità. Quest’operazione non può avvenire soltanto nel chiuso della nostra mente, attraverso il linguaggio interiore, nonostante il linguaggio interiore sia essenziale per ripensare alla propria esperienza, esso non è sufficiente perché gli manca un interlocutore esterno.

Il punto di vista degli altri è indispensabile per mettere a fuoco aspetti di cui non riusciamo a renderci conto, ma gli altri non ci sono di aiuto solo perché offrono un diverso punto di vista; ci permettono infatti di costruire un racconto socialmente condiviso, nel quale i nuovi significati che attribuiamo alle nostre vicende sono frutto di elaborazione personale, ma trovano anche una validazione sociale. La nostra autobiografia, da evento personale, diventa così un evento sociale.

Per queste ragioni il racconto è uno strumento indispensabile non solo per trovare conforto, partecipazione, aiuto e consiglio, ma in modo più profondo per ridefinire insieme agli altri la nostra identità, i nostri progetti e le modalità per realizzarli. Questa ridefinizione dell’identità è particolarmente impegnativa nella malattia cronica, perché occorre affrontare i continui cambiamenti, per lo più di tipo peggiorativo, che essa introduce.

Raccontare la propria malattia diventa un modo per ritrovare se stessi e le proprie possibilità di sviluppo. È un ambito nel quale c’è molto da fare nelle strutture sanitarie (e non solo) e sarebbe opportuno tenere presente che non è difficile né costoso organizzare gruppi di malati dedicati al racconto o stimolare nel malato l’elaborazione di una narrazione orale o scritta, quando è possibile, sostenuta perché no, da pratiche di consapevolezza che accrescano la capacità del singolo di vivere la realtà per quello che è, momento dopo momento. Là dove è stato fatto, i risultati sono stati molto buoni, perché il malato è stato aiutato a elaborare attraverso il racconto un’immagine positiva di sé, a ricostruire una nuova identità, a ritrovare un senso in ciò che gli accade.