Ci vorranno molti anni per comprendere fino in fondo la portata della crisi innescata dalla pandemia che ha investito il pianeta in questi mesi, e che ovviamente non può essere ridotta a una questione di carattere sanitario. Molto si è scritto sulle conseguenze economiche del lockdown planetario, ma ho l’impressione sia rimasto un po’ sullo sfondo il tema centrale del rapporto fra diritti e doveri e quello della responsabilità nei confronti della collettività. Certo, non mancano coloro che pensano di ripristinare un mondo uguale a prima, considerando questa crisi come una spiacevole parentesi. Lo si vede nell’uso dei verbi, prevalentemente proiettati sul “ritornare” alla libertà di prima e allo stile di vita di prima.

È un sogno pericoloso, perché nasconde l’idea che da un momento difficile non si debba imparare nulla. Penso invece che sia necessario chiedersi cosa dobbiamo portarci dietro da questo momento, con la consapevolezza che dalle grandi crisi non si esce mai uguali a come vi si è entrati. In questo senso dovremmo dire che il periodo che seguirà ciò che stiamo vivendo non sarà semplicemente un “dopo” ma un “oltre”, nel quale dovremo interrogarci sui fondamenti della nostra vita assieme, come comunità umana.

In questa prospettiva ho riletto in questi mesi un testo nato nel cuore della Seconda guerra mondiale, nel quale una giovanissima filosofa francese getta uno sguardo sul proprio tempo e sul futuro dall’interno di una delle più grandi tragedie della storia umana.

Si tratta di uno scritto che Simone Weil stese fra l’autunno del 1942 e i primi mesi del 1943, nel pieno del dibattito sulla fondazione dei diritti umani. Il testo verrà poi pubblicato nel 1949 con il titolo La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano. Simone Weil, nel frattempo, era morta in un ospedale di Londra. Era rientrata da poco in Inghilterra dagli Stati Uniti – dove si era rifugiata con la famiglia per sfuggire alle persecuzioni contro gli ebrei – per portare il proprio contributo alla resistenza europea contro il flagello dei totalitarismi. Il libro, la cui pubblicazione seguiva di qualche mese la solenne proclamazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 10 dicembre 1948, sembrava rovesciare i termini del dibattito sui diritti umani, mettendo al centro il tema dell’obbligazione che ciascuno ha nei confronti dell’altro. Alle sue parole vale la pena di tornare per molte ragioni.

Anzitutto perché “la nozione di obbligo – scrive – sovrasta quella di diritto, che le è relativa e subordinata. Un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui esso corrisponde; l’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa. L’obbligo è efficace allorché viene riconosciuto”. Tutti noi dobbiamo dunque riconoscerci prima di tutto come obbligati nei confronti degli altri, e solo a partire da questa obbligazione possiamo comprendere il significato dei diritti di ciascuno. Su questo Simone Weil è radicale: “Un uomo, considerato di per se stesso, ha solo dei doveri, fra i quali si trovano certi doveri verso se stesso. Gli altri, considerati dal suo punto di vista, hanno solo dei diritti. A sua volta egli ha dei diritti quando è considerato dal punto di vista degli altri, che si riconoscono degli obblighi verso di lui”.

Questi doveri, che sono dunque reciproci, non si fondano su nessuna convenzione sociale, economica, politica: in questo caso essi potrebbero mutare in continuazione, e persino essere piegati agli interessi o agli egoismi di alcuni.

Siamo invece obbligati verso ogni altro essere umano semplicemente “per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia ad intervenire; e persino quando non gliene si riconoscesse alcuno. Quest’obbligo non si fonda su nessuna situazione di fatto, né sulla giurisprudenza, né sui costumi, né sulla struttura sociale, né sui rapporti di forza, né sull’eredità del passato, né sul supposto orientamento della storia. Perché nessuna situazione di fatto può suscitare un obbligo”. È questo il motivo per il quale tale obbligo verso gli altri è “eterno e incondizionato”. Eterno, perché “risponde al destino eterno dell’essere umano. Soltanto l’essere umano ha un destino eterno. Le collettività umane non ne hanno. Quindi, rispetto a loro, non esistono obblighi diretti che siano eterni. È eterno solo il dovere verso l’essere umano come tale”. Incondizionato, perché “se esso è fondato su qualcosa, questo qualcosa non appartiene al nostro mondo. Nel nostro mondo, non è fondato su nulla. È questo l’unico obbligo relativo alle cose umane che non sia sottomesso a condizione alcuna”.

Il punto è che per Simone Weil la nozione di obbligo nei confronti dell’altro non è un concetto astratto, ma quanto di più concreto possiamo immaginare. Il nostro dovere di riconoscere i diritti dell’altro è effettivamente adempiuto “soltanto se il rispetto è effettivamente espresso, in modo reale e non fittizio; e questo può avvenire soltanto mediante i bisogni terreni dell’uomo”. Si tratta di un passaggio chiave, che richiama lo stesso bisogno di concretezza che avrebbe animato, qualche anno dopo, le riflessioni sul tema dell’altro del grande filosofo Emmanuel Lévinas. La sua etica del volto, che affondava le radici nella tragica esperienza del Lager, nasceva dalla consapevolezza che tutto si decide sul piano della relazione con l’altro e che per questo è necessario per la filosofia interrogarsi sulle implicazioni concrete di questa relazione con l’altro, che si esprime nell’imporsi concreto dei bisogni dell’altro.

C’è qualcosa di originario della condizione umana in questa attenzione all’altro: come nessuna anima secondo gli egiziani avrebbe mai potuto giustificarsi davanti agli dei se non potendo affermare “non ho fatto patire la fame a nessuno” (parole che nel mondo occidentale rimandano al monito del vangelo di Matteo), così gli obblighi verso l’altro sono prima di tutto quelli più concreti: “Nessuno, cui la domanda venga posta in termini generali, penserà che sia innocente chi, avendo cibo in abbondanza e trovando sulla soglia della propria casa un essere umano mezzo morto di fame, se ne vada senza dargli aiuto. Far sì che non soffra la fame quando si ha la possibilità di aiutarlo è dunque un obbligo eterno verso l’essere umano. Essendo quest’obbligo il più evidente esso dovrà servire come esempio per comporre l’elenco dei doveri eterni verso ogni essere umano”, fra i quali Simone Weil menziona “la protezione contro la violenza, l’abitazione, il vestiario, il caldo, l’igiene, le cure in caso di malattia”, e poi la protezione dalla crudeltà, dalla carestia organizzata, dai massacri, dalle deportazioni, dalle mutilazioni.

Tutto questo, che rimane solo un rapido cenno alle argomentazioni di una delle più feconde pensatrici del secolo scorso, mi sembra contenga tre importanti insegnamenti per il nostro tempo.

Prima di tutto – come sosteneva uno dei maggiori esponenti della teologia della liberazione, Gustavo Gutierrez – il baricentro dei nostri diritti individuali cade fuori di noi, nell’obbligazione al riconoscimento dei diritti eterni e incondizionati degli altri. Per questo, dice Simone Weil, non si devono mai confondere i diritti “con i desideri, i capricci, le fantasie, i vizi”: una lezione importante in un tempo nel quale spesso la libertà personale e l’affermazione dei propri diritti coincide con la soddisfazione egoistica dei propri diritti, in totale dispregio dei bisogni dell’altro. Una lezione che echeggia anche nell’articolo 2 della Costituzione italiana che coniuga il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo con “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

In secondo luogo, la nostra obbligazione nei confronti degli altri non va ridotta al presente, ma riguarda anche, afferma Simone Weil, “quegli esseri non ancora nati che verranno al mondo nei secoli a venire”. Una prospettiva che il teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer, esattamente nei mesi in cui scriveva la filosofa francese, declinava in questo modo: “Per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene?” e che diverrà via via sempre più importante con la crescita della consapevolezza che le scelte umane hanno il potere – ricorderanno filosofi come Hans Jonas, Serge Latouche o Giuliano Pontara – di compromettere irreversibilmente la vita delle generazioni future.

Infine, le conseguenze dell’obbligazione nei confronti dei diritti dell’altro hanno a che fare principalmente con la giustizia. “Ciò che deve essere sovrano – scrive Simone Weil – è la giustizia. Tutte le costituzioni politiche, repubblicane o di altro tipo, hanno come unico fine – se sono legittime – d’impedire o almeno di limitare l’oppressione verso la quale la forza inclina naturalmente. E quando c’è oppressione, non è la nazione ad essere oppressa. È un uomo, e un uomo, e un uomo”. Ancora una volta il fulcro non viene posto nell’affermazione di un principio, ma nella concretezza della relazione con gli altri.

Ecco. In un tempo nel quale si ha l’impressione che spesso prenda il sopravvento una concezione individualistica dei diritti, questo richiamo di una giovane filosofa francese, morta a soli 34 anni, all’obbligazione verso gli altri fa riflettere.

E per chi, come me, lavora con i giovani, solleva questioni cruciali: quali percorsi educativi vanno attivati per far comprendere l’importanza decisiva, per la convivenza umana, di questa prospettiva? Come osteggiare i messaggi politici e culturali che rinforzano la diffidenza nei confronti dell’altro e trasmettono una concezione asfittica ed egocentrica dei diritti?

Su questo dovremmo forse interrogarci coraggiosamente più spesso. Perché davvero è difficile immaginare un mondo migliore se non si investe nella possibilità di far crescere persone capaci di guardare oltre il proprio limitato orizzonte.