In quest'epoca di maniacale ossessione per il cibo, di chef stellati e idolatrati e piatti smaniosi di venire fotografati e pubblicati sui social prima ancora di essere gustati, è difficile credere che esistano realtà dove cucinare e mangiare siano atti semplici, naturali. Luoghi dove di stelle non si parla a meno che non si decida di mangiare fuori alzando lo sguardo verso il cielo o dove gli chef si fanno chiamare cuochi e a volte nemmeno quello.

L'Italia, fortunatamente, ne è piena. Ricordo due posti in particolare, uno a Nord, al confine tra Lombardia e Piemonte e un altro al centro, sulla costa marchigiana.

Il primo si trova nella periferia di Abbiategrasso, arrivarci è semplice, basta seguire la strada per il cimitero, che, detto così, non suona benissimo, oppure chiedete della Cantagrilla. Superate le ultime resistenze e alcune vecchie cascine ecco che la strada accennerà una discesina - siamo all'inizio della piana del fiume Ticino - la trattoria resta subito lì sulla destra con la sua tettoia seminascosta da un glicine monumentale - un must per ogni trattoria tradizionale lombarda che si rispetti - qualche tavolino sparso, cani liberi apparentemente senza padrone, due o tre galline scappate dal pollaio. Si parcheggia alla selvaggia, dove capita.

Il locale è tutto lì da vedere, l'entrata con bancone bar, dietro cui si intravede la cucina. A sinistra un ampio salone con tavoli ravvicinati, a trenino, ad indicare la forte presenza tra i clienti di gruppi e famiglie numerose. Volendo però si potrebbe mangiare nello spazio di fronte al bar anche se quei tavoli di regola appartengono ai bevitori affezionati. C'è anche un trespolo altissimo con una televisione anteguerra sempre accesa e al massimo volume. Meglio optare per il salone.

Alla Cantagrilla si mangiano sempre le stesse cose. Si va lì per quello, all'inizio per curiosità o forse perché uno non ci vuole credere, poi ci si affeziona e si torna. Lì non esiste stagionalità, estate, inverno non fanno differenza, aspettatevi il cotechino anche a Ferragosto. In questi tempi di incertezza non è poco.

Ma sediamoci a tavola. Sono ospite di Gabriele, un amico che di mestiere fa il mungitore e abita ad un tiro di schioppo da lì. Suo padre ha fatto lo stesso mestiere e ha frequentato la Cantagrilla per tutta la vita e così il nonno. “Poco o nulla è cambiato da allora” mi assicura Gabriele. E mi indica, sfiorandola, la tovaglia bianca, spessa, inamidata. Bicchieri e posate sono usurati, lisi da decenni di servizio. Piatti in ceramica pesante, come una volta. Caldi.

Niente menù, un ragazzo in camicia bianca annuncia l'ordine di apparizione delle pietanze e raccoglie le preferenze: antipasti misti caldi/freddi per cominciare. In un batter d'occhio arriva un vassoio di alluminio con affettati elegantemente disposti, puntuale segue anche il pane. Poi nervetti in insalata, la giardiniera acetatissima, le cipolline in agrodolce. Finalmente il cotechino, di due misure diverse più un sanguinaccio. Che si beve? Vino della casa, Bonarda. Si inizia con una caraffina da mezzo, ma scende così bene e in poco tempo le caraffe diventano due, poi tre. Nel frattempo scegliamo il primo, tortelli in brodo o spaghetti al sugo. La sala si riempie, c'è un gruppo di cacciatori e accanto una famiglia che festeggia una comunione. Sparsi qua e là gruppetti più ridotti, da tre, quattro persone. Anche una coppia. Li vedo che mangiano grissini e si guardano sorridenti e complici. Saranno habitués? Finisco i miei spaghetti, sinceri, anche se non proprio al dente e colgo dal tavolo accanto anticipazioni sui secondi: faraona arrosto, pollo alla cacciatora, arrosto di vitello. Contorni: insalata mista, patate al forno. La clientela è vivace, piacevolmente rumorosa, i tavoli non sono molti, si sente la felicità di esserci.

Ma il brusio eccitato dei presenti cala improvvisamente quando compare in sala il patron del locale, un piccolo ometto avanti negli anni, cappellino bianco da panettiere in testa, grembiule sudicio, calzerotti di lana bassi su polpaccio pallido, ciabatte.

Eccolo, il viso scavato, sopracciglia cespugliose fuori controllo, baffi a tutto campo, alla Cecco Beppe. Appare tenendo teatralmente in equilibrio tra le mani un lungo vassoio con sopra un pezzo di bollito gigante. Una performance che la gente adora, un rito che si ripete da decenni. Fosse in città qualcuno lo avrebbe già definito l'ultimo post-dadaista dei fornelli, o forse avrebbe delle grane con certe frange vegane arrabbiate. Qui no.

Lo osservo mentre fa il giro dei tavoli e taglia pacificamente la carne con un coltellone da macellaio non prima di aver allietato i presenti con qualche storiella gustosa che scatena grasse risate. A quel punto è lui ad esclamare “Slunga!” e quello è il segnale, tutti allungano i piatti e ricevono bollito e salsa verde a volontà. Fatto il giro, il patron scompare e la sala riprende a rumoreggiare.

Tornano i camerieri, le caraffe vuote vengono sostituite con quelle piene. Finito il bollito cala la tensione.

Ma il pranzo continua. C'è ancora spazio per una fetta di meringata - immancabile, deliziosa, anche se industriale - un caffè, bevuto nelle tazzine piccole e dal bordo spesso, una grappa.

Si paga – poco - e si va fuori. I bambini ad inseguire le galline o a vedere le stalle vicine, i grandi a far due passi per digerire o a fumare all'ombra del glicine profumato. E le nonnine, vestite a festa con la borsetta in mano ad attendere il loro turno sul sentiero fangoso davanti all'unico cesso, esterno. Una turca, anche questa, indimenticabile.

L'altro posto si trova a Fano, a pochi passi dall'Arco di Augusto. Il locale cambia spesso nome, per lungo tempo è stato “L'Approdo”, più recentemente è diventato “Il Faro”, ma non cercate un'insegna, non la troverete.

La vetrina è fosca, le volte che ci sono stato c'era una tenda e una piccola statua del Budda (un tentativo di depistaggio?), niente altro. L'interno è caotico, i tavoli non sono mai apparecchiati, istintivamente verrebbe voglia di andare via. La proprietaria in compenso è una donnina affabile, si chiama Gianna, fanese d'adozione. Nei suoi occhi una luminosità inquieta rivela le sue origini triestine.

Ci accoglie sorridente e leggera e con la stessa leggerezza delude le nostre aspettative: “Questa notte c'è stata una mareggiata, i pescatori non sono usciti, se volete ho delle uova, vi faccio una frittata”. “Pesce niente?” avevamo chiesto, sorpresi, la prima volta. “Il pesce c'è quando lo pescano. Qui non usiamo roba scongelata”. Messaggio chiaro. Pensate un po', qui il cliente se vuole mangiare pesce gli tocca tener d'occhio il mare, come se fosse lui il pescatore! La trovo una cosa straordinaria.

E quando succede è sempre un’esperienza che segna, indimenticabile. Il fritto misto della Gianna viene scodellato direttamente sul tavolo, senza piatti. Ho visto compassati clienti giapponesi in stato di estasi leccare l'assito fino all'ultimo grano di sale. E nelle fredde sere d'inverno la zuppetta di totani freschi, quando c'è, è un vero antidepressivo. Nessun menu fisso quindi, mai. Nulla di scontato, solo quello che di volta in volta concede il mare. Bellissimo.