Iniziando a sfogliare l’Hortus Amoenissimus di Franciscus De Geest, si entra subito nella sua magia: il frontespizio manoscritto informa infatti il lettore che tutte le piante sono state disegnate riproducendo la loro forma originale fin nel minimo dettaglio.

La scena dipinta ad olio della pagina successiva la potremmo definire “parlante”: vi viene infatti rappresentato un uomo inginocchiato, quasi sicuramente De Geest, che offre alla Dea Flora la sua opera, sovrastato dalla dea Fama che, in un cartiglio didascalico, riporta il nome dell’autore ed il titolo dell’opera. Ogni particolare di questa scena ci introduce alla bellezza del testo che stiamo per sfogliare, a cominciare dallo sguardo appassionato dell’artista, rispettoso della creatura divina che ha davanti a sè ma anche consapevole del valore dell’opera che ha in mano. In questa pagina, quindi, si ritrovano tutti gli elementi che il lettore incontrerà successivamente : lo splendore e la raffinatezza del disegno, l’eleganza del tratteggio, la vivacità dei colori… Tutti elementi che contribuiscono a rendere l’Hortus Amoenissimus un perfetto esempio dei capolavori che possono derivare dall’incontro tra la bellezza della natura e la bravura dell’artista. L’uso attento dei colori lascia supporre che il De Geest abbia dipinto le piante osservandole nel loro contesto naturale per mostrarle così come esse appaiono in natura, quasi che il foglio di carta donasse loro la capacità di tornare a vivere. Il lettore ha così l’impressione di trovarsi in mezzo ad un giardino fiorito, dove si alternano sfumature e giochi cromatici diversi.

Bisogna poi anche considerare che gli erbari, o i florilegi come in questo caso, non sono nati solo per rappresentare al meglio le varie piante, con un intento che si potrebbe quindi definire “reale”: altrettanto forte è sempre stata l’esigenza da parte dell’uomo di incarnare, tramite questi splendidi disegni, virtù ideali e morali. Del resto, il XVII secolo, quando viene pubblicato l’Hortus Amoenissimus, è anche un periodo storico particolarmente ricco di simbologie. Nel clima culturale dominato dal barocco, era usuale ricercare significati più o meno nascosti dietro quello che si vedeva: l’uso abbondante della metafora e del simbolo in tutte le varie forme d’arte (letteratura, pittura, scultura…) è proprio una delle caratteristiche predominanti di questo periodo.

Un perfetto esempio di questo è il narciso, di cui si trovano tantissimi esemplari nell’Hortus Amoenissimus: e qui è d’obbligo il rimando al terzo libro delle Metamorfosi di Ovidio, in cui viene narrato il mito di questo bellissimo giovane che si era innamorato dell’immagine di se stesso riflessa in uno specchio d’acqua, fino a morirne prematuramente nell’inutile tentativo di abbracciarsi. Il fiore sbocciato nel punto in cui egli cadde assunse il suo nome e diventò, di conseguenza, il simbolo dell’egotismo e della vanità. Oltre a questo significato all’interno della mitologia greca, nel corso dei secoli il narciso ne ha assunti altri, sicuramente più positivi: nell’antica cultura ebraica, infatti, fu considerato il simbolo della bellezza e della fertilità femminile. Il narciso, quindi, assomma in sé tutta una serie di significati culturali che non possono non venire in mente quando si guarda i bellissimi esemplari rappresentati nel florilegio. E proprio partendo da questo fiore possiamo toccare anche un altro aspetto presente nell’Hortus Amoenissimus. Infatti, anche se il Florilegio è prevalentemente una raccolta di piante decorative da giardino, non si deve dimenticare che molte di queste erano usate anche come medicamenti. Proprio i narcisi sono un esempio di ciò: i bulbi di varie specie di narciso sono emetici, mentre i fiori della stessa pianta hanno notevoli proprietà astringenti.

E si può citare anche la malva, molto apprezzata nell’antichità per le sue proprietà emollienti e sfiammanti: il nome stesso deriva dal termine greco “malakos” che significa “molle, morbido”. Plinio Il Vecchio consigliava di bere una spremuta dei fiori di malva ogni giorno per tenere lontani i malori, mentre Cicerone era solito arricchire le sue pietanze con germogli di malva. Per rendersi conto della considerazione in cui era tenuta questa pianta, basti pensare che nel 1500 (quindi, solo un secolo prima della pubblicazione dell’Hortus Amoenissimus) la malva era chiamata “omniorbia”, cioè “in grado di sconfiggere tutti i mali”. In conclusione, sfogliando questo florilegio, non possono non tornare in mente le parole di Plinio il vecchio: “La provvidenza della Natura non può essere ammirata e compresa a sufficienza. Ella ci ha dato le piante che abbiamo ritenute tenere e grate per alimentarci. Ci ha dipinto i rimedi nei fiori dilettando gli animi con la vista ed unendo ancora una volta i rimedi con le delizie”.

In collaborazione con: www.abocamuseum.it