Subdolo e inizialmente imprevedibile il Coronavirus è sempre meno un nemico sconosciuto, ma tuttavia ancora altamente pericoloso. È un virus citopatico, ovvero capace di causare lesioni alla cellula ospite e ancor più dannoso quando, in risposta, anticorpi e cellule efficaci provano a eliminarlo. Queste caratteristiche di patogenicità spiegano il severo danno polmonare. Attualmente, il problema della persistenza di numerosi casi di COVID-19 in questa fase di iniziale flessione della curva dei contagi è legato alla sua diffusione in ambito sanitario e nelle residenze per anziani e disabili.

Ne abbiamo parlato con il Prof. Giustino Parruti, Direttore dell’Unità Complessa di Malattie Infettive dell’ospedale di Pescara, il quale sottolinea l’importanza di Unità di Malattie Infettive “capillarmente diffuse sul territorio regionale, adeguatamente potenziate, che possano vigilare su precoci ricorrenze o reintroduzioni del virus”. Il distanziamento sociale dovrà proseguire parallelamente alla ripresa delle attività per ridurre i rischi di ripresa della circolazione del virus prima dell’arrivo del vaccino.

Se dovesse tracciare un identikit del SARS-CoV2 come lo descriverebbe?

Tra i virus a RNA, il SARS-CoV2 ha numerose caratteristiche da "killer perfetto" per la popolazione umana. Una larghissima proporzione di infetti non ha alcuna sintomatologia correlata all’infezione. Potremmo parlare addirittura di tanti soggetti colonizzati, non infetti. Sono soggetti con una risposta immune innata valida e quasi perfetta. La risposta immune innata è quella che non necessita della produzione di anticorpi e di cellule specializzate, la cosiddetta immunità adattativa. La risposta innata è basata sull’azione di cellule preesistenti nel nostro organismo, che riconoscono la nuova minaccia con meccanismi recettoriali di superficie molto efficienti. Quelli che controllano il nuovo virus così, non producono anticorpi, semplicemente perché non lasciano entrare il virus nel loro torrente ematico e negli altri organi linfatici del corpo dopo l'accesso nell'oro-faringe. Inoltre, poiché la prima risposta innata non lascia progredire l'infezione, la mancata risposta adattativa con anticorpi e cellule specializzate rallenta spesso la clearance virale. In altri termini, la mancata coalizione tra immunità innata e adattativa fa sì che la persistenza del virus nel portatore sia spesso lunga. Questi soggetti, dunque, hanno un "piccolo difetto": sono permissivi rispetto ad una replica loco-regionale protratta nel cavo orale e nasale. Non tossiscono, non starnutiscono, non hanno alcun sintomo, ma rilasciano una quantità talora elevata di virus nella saliva e nelle secrezioni nasali. Nella vita relazionale normale infettano solo tramite contatto ravvicinato, non per la breve condivisione di un locale, ad esempio, come quando incrociassero qualcuno su di un tram. Ma immaginate il potenziale trasmissivo di una qualsiasi figura professionale che sia a contatto con altri in maniera ravvicinata e per un tempo protratto.

In secondo luogo, una larga proporzione degli infetti manifesta sintomi lievi o moderati, senza comunque progressione verso forme cliniche che limitino in modo sostanziale la capacità lavorativa e relazionale degli infetti. Questi infetti spesso tossiscono, starnutiscono, emettono feci con largo rilascio di particelle virali, insomma non si fermano perché non stanno malissimo o si ammalano solo per qualche giorno, ma diffondono molto più degli asintomatici. Messi insieme, asintomatici e sintomatici senza rischio di progressione sono quasi il 60-65% degli infetti, in tutte le casistiche sin qui riportate. Dunque una connotazione terribilmente pericolosa rispetto ai precedenti due Coronavirus a noi noti dall'inizio del secolo.

Il SARS-CoV2 è inoltre un virus a RNA, e come tale è dotato di un alto potenziale di citopatogenicità nei soggetti permissivi, cioè incapaci di una risposta innata efficace. In altri termini, nei soggetti che per difendersi efficacemente hanno bisogno di attendere lo sviluppo della risposta immune adattativa (7-15 giorni) dopo una iniziale diffusione sistemica, questo virus presenta una notevole pericolosità. I virus a DNA, che hanno la capacità di integrarsi con il DNA delle nostre cellule e quindi di diventare una sorta di nostra espansione genomica, rispetto ai virus a RNA sono in generale meno insidiosi nella fase acuta. I virus a DNA tendono ad eludere la violenza della nostra risposta immunitaria, con mille trucchi, con i quali provano a diventare buoni conviventi della specie umana. Invece la citopatogenicità del SARS-CoV2 si associa alla progressione della malattia nel polmone. In altri termini, quelli che non sono capaci con le difese innate di fermare il virus nel rinofaringe, ne subiscono la discesa nel torrente ematico, nei linfonodi, nei tessuti, incluso quello cerebrale. Ed il virus è citopatico, cioè capace di indurre danno cellulare quando entra nelle cellule bersaglio, ed ancor più dannoso quando la risposta adattativa, maturata con la produzione di anticorpi e cellule efficaci, prova a eliminarlo da tutte le cellule ed i tessuti dove è penetrato. Queste caratteristiche di patogenicità spiegano il severo danno polmonare. Niente male per una new entry...

Una situazione complessa è quella dei pazienti già curati da COVID-19 in cui il virus SARS-CoV-2 continua a essere rilevabile ancora per diverso tempo. Quando un paziente può definirsi definitivamente guarito? Quando non è più portatore di contagio?

Allora questa è una domanda importante soprattutto per tutti gli Stati e le aree del globo che si accingono ad uscire da una fase più o meno protratta di isolamento/distanziamento sociale. In altri termini, la questione potrebbe essere posta così: dopo tanto investimento per ridurre il numero dei carrier di questo virus, come facciamo ad essere certi di sapere da chi dovremo continuare a guardarci? Ora, da una parte sta il problema dei portatori asintomatici, i quali, senza una chiara montata immune, come ho spiegato prima, potrebbero avere a lungo una carica alternante nell’oro faringe, risultando negativi ad un primo tampone senza per questo aver eradicato la replica di SARS-CoV2. Un secondo tampone naso-faringeo negativo, a distanza di almeno 48 ore, aumenta di molto le probabilità di una avvenuta eradicazione. Dall’altra, analogamente, tutti gli altri infetti sintomatici, con espressività clinica più o meno severa di malattia sistemica (febbre, diarrea, dolori articolari e muscolari, cefalea, toracalgia), con o senza coinvolgimento polmonare (tosse e/o dispnea) hanno una circolazione sistemica del virus, che continua a replicare sino alla montata immune, cioè sino a quando cellule ed anticorpi neutralizzanti permettono il blocco della replica e l’eradicazione del virus. Ora, dopo una disseminazione sistemica, il virus può richieder tempo per essere eradicato, specie se vi è stato un danno citotossico polmonare che impedisca una corretta circolazione delle cellule immunitarie. Quindi, possono crearsi santuari anatomici nei quali la persistenza può essere protratta, ma in generale non oltre 5-6 settimane. Certo è che la linfocitopenia profonda indotta dal virus potrebbe favorire delle riattivazioni post primarie da deplezione immune, ma di questo fenomeno, ipotizzabile, al momento vi è scarsa o nulla evidenza.

Quali sono le patologie che colpiscono il sistema immunitario e che di conseguenza renderebbero i pazienti potenzialmente più a rischio di contrazione del virus?

Al momento, il quadro epidemiologico della recente circolazione di SARS-CoV2 nella popolazione italiana, nostro - purtroppo - privilegiato punto di vista, ha sottolineato la preponderanza del diabete mellito su tutte le numerose forme di immunodeficit comune. Il diabete mellito riduce la validità e l’efficienza dell’immunità innata e della funzione granulocitaria e monocitaria in particolare. La comorbilità di gran lunga più frequente ed inferente nei pazienti con forme polmonari rilevanti sotto il profilo clinico è infatti rappresentata dalla malattia diabetica, seguita dall’ipertensione arteriosa in trattamento e dal sovrappeso corporeo causante insufficienza respiratoria restrittiva. L’ipotesi patogenetica su cui lavorare, ma senza ancora supporto adeguato di evidenza di laboratorio, è che il deficit dell’immunità innata conseguente alla malattia diabetica, specie in fase di scompenso, possa favorire la diffusione sistemica dell’infezione da SARS-CoV2, permettendo il raggiungimento delle basse vie aeree tanto per contiguità che per disseminazione sistemica.

Già dal mese dicembre, in diverse strutture ospedaliere molti pazienti presentavano sintomi influenzali simili a quelli del COVID-19, si può parlare di una forma meno aggressiva del virus in tempi non sospetti?

Direi proprio di no, il potenziale patogenetico del virus non sembra essersi assolutamente modificato durante la sua circolazione: la morbilità e la mortalità da Coronavirus si è di fatto mantenuta costante in tutti i contesti in cui sia stato possibile fornire ai pazienti il massimo dell’assistenza necessaria, specie dopo la recente ammissione da parte delle autorità cinesi di una sostanziale sottostima della mortalità nell’epidemia in quel Paese, non essendo stata subito computata la mortalità extra-ospedaliera da Coronavirus. A gennaio però, anche nel nostro Abruzzo era stato sollevato il problema di uno strano aumento della mortalità ospedaliera, per oltre un mese attribuito alla scarsa penetranza della vaccinazione antinfluenzale. Col senno di poi e con il contributo della sierologia, sta diventando invece evidente che alcuni casi di COVID-19 sono stati misconosciuti alla fine di gennaio. Un precoce riconoscimento avrebbe, forse, potuto innescare atteggiamenti e provvedimenti protettivi con un rilevante anticipo, ma questa ormai è solo una considerazione post-hoc.

Le persone che soffrono di allergie respiratorie presentano un rischio maggiore di contrazione del virus?

Le allergie respiratorie hanno manifestazioni molto variabili e molto diverse nell’impatto clinico, quindi non possono essere considerate come un’unica condizione. Le persone affette da asma bronchiale, se complicata da bronco-pneumopatia cronica o fibrosi polmonare, sono a maggior rischio di complicanze polmonari ad esito infausto nel caso siano infette da SARS-CoV2. Nella nostra esperienza alcuni pazienti deceduti dopo assistenza respiratoria intensiva avevano una fibrosi polmonare soggiacente, talora su base asmatica.

In realtà, una franca e sintomatica diatesi disergica (febbricola, artromialgie, tosse secca, malessere, astenia, episodi infettivi ricorrenti) potrebbe a sua volta predisporre ad infezioni da SARS-CoV2 con maggiore impatto clinico, per un sinergismo nell’attivazione citochinica alla base del danno polmonare. In realtà, nella prima analisi della nostra esperienza, una diatesi allergica o disergica non sembra essere significativamente associata ad una maggiore frequenza di interstiziopatia polmonare da COVID-19. Una valutazione più accurata della possibile rilevanza della diatesi disergica merita però una valutazione formale, condotta su un più ampio campione e sull’analisi di marcatori biochimici ed immunologici, come le IgE totali e le sottopopolazioni linfocitarie, disponibili in un sottogruppo dei nostri casi.

Quali sono a suo avviso i fattori che hanno inciso sul tasso di diffusione della patologia nonostante il distanziamento sociale?

Il distanziamento sociale ha funzionato molto bene. Nella nostra popolazione, dopo cinque settimane di distanziamento, l’effetto è apparso del tutto evidente, e sono ormai diversi giorni che non osserviamo più alcuna ospedalizzazione tra quanti hanno potuto osservare un reale distanziamento. Attualmente, il problema della persistenza di numerosi casi di COVID-19 in questa fase di plateau o iniziale calo della curva epidemica è rappresentato dalla sua diffusione – pressoché inevitabile, per le caratteristiche di questo virus – in ambito sanitario, e soprattutto nelle residenze per anziani e disabili. Queste infezioni in pazienti particolarmente fragili vanno monitorate da vicino, in regime di ricovero tutte le volte che sia necessario, fino alla risoluzione. A questa attenzione va associata una politica di sistematico ricorso al tampone molecolare per la ricerca dei portatori asintomatici tra quanti (medici, infermieri, altre professioni e mestieri di pubblica utilità) non hanno potuto fermarsi nelle proprie attività di supporto sociale o sanitario durante la fase di distanziamento sociale, continuando purtroppo ad esporsi al contagio, nonostante ogni precauzione.

In base alla sua esperienza professionale quale scenario futuro si prospetta?

Nel giro di un paio di mesi la situazione dei contagi loco-regionali, sia italiani che di molti altri Stati europei, potrebbe andare sotto controllo. Ma da qui alla fine dell’anno vedo una persistente necessità di Unità di Malattie Infettive capillarmente diffuse sul territorio regionale, adeguatamente potenziate, in modo che possano vigilare su precoci ricorrenze o reintroduzioni del virus, da contenere prontamente, con il supporto di tutte le attività territoriali e ospedaliere che in questa fase pandemica hanno sinergicamente contribuito alla risposta.

In parallelo, sarà necessario un perdurante distanziamento sociale “sistematico”, declinato nella fase di ripresa delle attività in modo capillare da ciascuna arte, mestiere e tipologia relazionale. In altri termini, per minimizzare i rischi di ripresa della circolazione del SARS-CoV2 prima dell’arrivo del vaccino, dovremo certo riprendere tutte le nostre attività, tanto quelle produttive che quelle sociali e di intrattenimento, mantenendo però in essere - per un lungo lasso di tempo - quegli accorgimenti di protezione individuale e di organizzazione strutturale che potranno impedire una nuova disseminazione di SARS-CoV2 nel nostro territorio.