Ariadne auf Naxos (Arianna a Nasso) di Richard Strauss è un'opera atipica perfino nella produzione non propriamente convenzionale del compositore di Salomè ed Elektra. Il libretto è di Hugo von Hofmannsthal, che collaborò con Strauss a numerose opere tra cui il loro più grande successo Der Rosenkavalier (Il cavaliere della rosa).

L’opera fu scritta nel 1912, poi subì una drastica revisione nel 1916. La prima versione, presentata quest’anno al Festival di Martina Franca, è in un atto e senza Prologo; al debutto a Stoccarda era risultata un ibrido strano ed accolta senza entusiasmo da pubblico e critica. Da qui la riscrittura.

Ambientata nell'Austria del XVIII secolo, Ariadne è divisa in due parti: nel Prologo un ricco aristocratico viennese (modellato sul parvenu Monsieur Jourdain di Molière) sta organizzando un ricevimento in cui saranno eseguite una nuova opera commissionata ad un giovane compositore, una commedia buffa con fuochi d’artificio alla fine.

L’opera è, appunto, Arianna a Nasso, dal contenuto tragico e piena di emozioni forti; a seguire, una compagnia di comici italiani si esibirà in L’infedele Zerbinetta e i suoi quattro amanti.

Durante il Prologo, il nobile decide, per risparmiare tempo, ma in modo del tutto insensato, che entrambi i lavori debbano essere eseguiti simultaneamente per terminare in coincidenza con l'inizio dei fuochi. Questa richiesta getta tutti nel panico e manda in crisi il compositore: interviene però l’astuta Zerbinetta, che rassicura il giovane dicendo che la sua compagnia comica è abituata all'improvvisazione.

Si inizia, quindi, con l’opera “seria”, che racconta di Arianna abbandonata su un'isola da Teseo, e ormai desiderosa solo di morire. Tre Ninfe cercano di rallegrarla, ma non ci riescono; la disperazione e la desolazione la opprimono. È in questo momento che Zerbinetta e i suoi quattro innamorati (Arlecchino, Scaramuccio, Truffaldino e Brighella) sbarcano sull'isola, e cercano di consolare Arianna.

Mentre quest’ultima canta la sua pena, viene continuamente interrotta dalle maschere, desiderose di avere il loro momento di gloria sulla scena.

Zerbinetta, con un’aria classica e assolutamente magnifica, Großmächtige Prinzessin, tenta di rincuorare Arianna, dicendole che tutte le donne subiscono lo stesso destino con gli uomini, e quindi bisogna semplicemente far finta di stare al loro gioco, in realtà sabotandolo. È un’aria virtuosistica quant’altre mai, una cadenza che passa da un incredibilmente profondo dolore a una improvvisa grande gioia.

La parte comica qui termina, aprendo la strada a un happy end romantico: le tre Ninfe annunciano l'arrivo di una nave che ha a bordo il dio Bacco; Arianna prima si illude che sia Teseo, poi lo scambia per il dio Mercurio ed addirittura per il dio della morte. Bacco la fa prima parlare, poi si rivela dichiarandole il proprio amore: anche lei si innamora e i due si allontanano verso la felicità. Zerbinetta chiude la pièce con una morale rivolta al pubblico: per le donne, ogni nuovo amante ha sempre l’aspetto di un dio.

Strauss ci mostra con questo lavoro la sua padronanza dell'opera delle diverse epoche, la capacità di manipolarne i vari stili e di imitarli, sfoggiando tutto il suo virtuosismo compositivo. La sua musica riproduce lo stile, ma più ancora lo spirito del ‘700 andando contro l’atmosfera drammatica imperante nell’opera tedesca dopo Wagner.

La storia di Arianna riafferma un topos al quale Strauss era affezionato: quando la commedia si confronta con la tragedia, è la commedia a vincere. Un'opera di argomento mitologico ed eroico, in un’epoca come quella della Finis Austriae, in cui tutti i grandi ideali del passato stanno cadendo, conserva un senso solo grazie al distacco ironico.

L'Ariadne, come ogni vero capolavoro, è un’opera artisticamente ed intellettualmente complessa: inizia come un dramma, poi diventa leggera, ariosa e scherzosa; non rinuncia neanche alla satira, poiché prende in giro non solo l'opera seria (in pratica se stessa), ma anche le paturnie dei nuovi ricchi e le ansie dei giovani compositori. Sorride, infine, ed è la morale conclusiva, delle pene d’amore, rassicurandoci sul fatto che in fondo non sono mai perdute.