L'estate alle spalle ci ha lasciato anche la freschezza di Sinarra, il nuovo album di Luigi “Grechi” De Gregori, raro esempio di coerenza e lungimiranza artistica. L’album, prodotto da Paolo Giovenchi, contiene l’inedito Bastava un fiore e alcuni brani del precedente progetto Una canzone al mese, un piccolo esperimento giusto di qualche tempo fa, che prevedeva la pubblicazione di un inedito, il 21 di ogni mese, sul suo sito web e sull'omonimo canale YouTube. Alcuni di questi brani, opportunamente rivisitati, fanno ora parte di questo lavoro, che si può trovare anche in formato fisico ed in esclusiva su una nota piattaforma commerciale. “Sono rimasto fedele a me stesso ed al mio modo di fare canzoni – ribadisce - con Paolo ci siamo facilmente sintonizzati sulla stessa lunghezza d'onda partendo quasi da uno scherzo. Invece ci siamo ritrovati in mano con un disco che è senz’altro il migliore che io abbia mai fatto. È quello, che nel bene e nel male, mi rappresenta maggiormente, col mio amore per la musica acustica e per gli arrangiamenti minimali. Adesso sono contento che queste canzoni abbiano un loro vestito definitivo, con un suono moderno e convincente."

Bastava un fiore è l’unico inedito del disco e rappresenta una potente riflessione sulla decadenza, soprattutto culturale, del nostro tempo ma al tempo stesso pare l'ultimo baluardo di una resistenza imperitura, c'è un legame fra questi stati d'animo e la pandemia in atto?

Non ho pensieri particolari sulla pandemia. Di sicuro questa tremenda situazione che stiamo vivendo non ha prodotto delle ripercussioni particolari sulla mia vena artistica. Quella canzone è stata scritta prima di questa terribile situazione che stiamo vivendo e che probabilmente non ha fatto altro che far deflagrare le fragilità che già esistevano, ma nello stesso tempo a rafforzare quella determinazione di andare avanti. A un testo alquanto drammatico, la musica di Paolo Giovenchi ha conferito un piglio più ardito e baldanzoso.

Qualcuno ha detto che le canzoni sono già state scritte e che bisogna solo prenderne coscienza e permettergli di venire alla luce, le tue invece come nascono?

Le canzoni nascono con in mente un verso. Una canzone è fatta di parole cantate, non nasce prima la musica e dopo le parole o viceversa; quindi, quando compongo un verso lo penso già abbinato a una melodia, perché sono le parole che conferiscono ritmo alla stessa. Per quanto possa essere istintivo, mi adopero per pensare già ad una frase cantata. Fino al mio terzo album (che poi uscivano solo in vinile), lavoravo come bibliotecario e quindi anche il tempo per scrivere era molto ridotto. Per incidere un disco dovevo prendere le ferie e i concerti li facevo la sera dopo l’orario di lavoro e a volte andavo a suonare nel raggio di 2-300 km, rientrando la notte tardi per prendere nuovamente servizio il giorno dopo. Anche per questo all’inizio non sono stato prolifico e, a dire la verità, anche dopo sono stato abbastanza lento: molte canzoni che ho scritto sono state tirate fuori dal cestino della spazzatura, cose che pensavo mentre le annotavo e poi mi dicevo che erano sciocchezze, salvo metterle da parte. Tornandoci sopra anni dopo pensavo: “Ma no questa così qui è bella può funzionare”. Così sono nate molte delle mie canzoni.

C'è un brano che ti rispecchia in maniera particolare?

Le canzoni sono come dei figli, per tutte c'è lo stesso impegno. Per cui è sempre una domanda che mi produce l'imbarazzo della scelta. Ora come ora direi Il guanto, ma ci sono altri pezzi che avrebbero forse raccolto un successo maggiore se interpretate da altri più bravi e famosi di me, come fece mio fratello Francesco col Bandito e il Campione. Penso a Tutta la verità su Manuela, Le vespe, Ma che vuoi da me, Pastore di nuvole. Da quest'ultimo lavoro, invece evidenzierei Tangos e Mangos o Sangue e carbone: un brano che sottolinea la durezza di un mestiere per cui quasi non c'è più memoria.

Sei stato testimone di un’epoca ruggente della canzone d'autore, per certi versi irripetibile, cosa ti manca di più del Folkstudio, cosa risuona in te quando viene nominato?

Il Folkstudio ha rappresentato un tipo di esperienza unica, dove non c'erano o meglio non contavano dei criteri di rigida selezione se non quella di salire sul palco e fare vedere il proprio valore. Lì ho anche perfezionato la chitarra grazie a una ragazza che insegnava il fingerstyle ogni sabato pomeriggio gratis. Già me la regolavo bene sugli accordi, ma lì imparai lo stile tradizionale americano. Mi mancano quei tempi, un'epoca dove tutto era possibile per la semplicità e l'immediatezza che ne caratterizzava le situazioni. Ho tentato poi di fare una cosa simile per qualche tempo in un locale a Roma, e l'esperimento, fino a quando è andato avanti mi era sembrato perfettamente riuscito.

Chi è stato l'artista personalmente incrociato che nonostante il suo talento non ha ottenuto il successo o meglio il riconoscimento che avrebbe meritato?

Goran Kuzminac è uno di questi, ma ce ne sono tanti altri che mi vengono in mente: di certo lui avrebbe meritato di più: a quell'epoca in RCA si prendevano ancora delle iniziative coraggiose, come quella del Q Disc in cui era accompagnato da Ron ed Ivan Graziani, un altro personaggio di spessore. Ovviamente c'è del rammarico anche per Rino Gaetano, un profilo unico, anche lui arrivato al Folkstudio con una personalità artistica già formata e le idee già chiare e totalmente originali. Raccolse un successo pienamente meritato che avrebbe dato ancora più frutti, se non fosse andato incontro al tragico destino che tutti sappiamo. Davvero una grande perdita per la canzone e lo spettacolo.

Sei anche molto attivo sulle piattaforme digitali, lo stesso Sinarra è stato commercializzato direttamente su una nota piattaforma commerciale? È un tuo modo per affermare che l'intero settore discografico dovrebbe pensare a delle alternative?

Mi pare palese che tutto il mercato dovrebbe essere rifondato, ma se riunissimo cento addetti ai lavori per decidere come, dopo un’ora sarebbero già venuti alle mani. Tutto quello che è legato al tempo in cui sono cresciuto e formato adesso è totalmente differente, come le modalità di fruizione della musica, la promozione, la sua diffusione: il low cost impera, ma la musica non si ferma. Potrà sembrare un paradosso, ma c'è una produzione senza freni, che mira non tanto a creare delle opere d'arte (fino allo scoccare dei fatidici anni 2000, ne eravamo tutti più o meno convinti), ma piuttosto dei lampi di comunicazione. Io cerco di tenere il passo ascoltando di tutto come ho sempre fatto, mentre il pubblico più adulto conserva il feticismo per l'oggetto discografico, che sia il Cd o vinile. Ma per i più giovani oramai va tutto sul telefono e bisogna tenerne conto, che piaccia o no.

Logiche e meccanismi che stanno per cambiare radicalmente l'approccio di chi come te fa musica da tanti anni: di certo i live stream non riusciranno mai a sostituire la magia di un palco live.

Ed invece i live stream rappresentano un'alternativa da tenere in considerazione: mi piacerebbe ad essere bravo nel gestirmi in quel tipo di situazione in modo tale da poter abbracciare un pubblico che invece per motivi di residenza, età, situazione, logistica finisce con l'essere frammentario. Internet oramai è una costante della nostra vita e può aiutare molto se si sa cosa cercare. Personalmente ho avuto il piacere di godere di dischi introvabili, di ritrovare persone che ho conosciuto ai tempi del Folk Studio, o di scoprire qualche talento su Spotify. Tornando ai palchi tradizionali persino quello celeberrimo di San Remo, ha perso via via il suo valore di promozione artistica per fare spazio alle implacabili logiche dell'audience.