Lo scorso 16 dicembre 2022 è stato messo in onda uno Speciale di Rai Scuola dedicato al genocidio dei rom e sinti con la regia di Alessandra Peralta, tratto da un’idea di Pietro De Gennaro, Autore Alessandro Greco, Produttore esecutivo Luigi Bertolo.

Un argomento di cui non si è mai parlato tanto, forse perché nell’immaginario collettivo le popolazioni rom e sinti sono sinonimo di “sporchi, brutti e cattivi”. Nella cultura della popolazione romanì, come afferma uno dei protagonisti delle interviste, il rom italiano Santino Spinelli - musicista, compositore, poeta, saggista e docente universitario, nel suo saggio Le verità negate, questo ‘genocidio rimosso’, si chiama Samudaripen e sta ad indicare la “soluzione finale” della dittatura nazista, ossia lo sterminio di rom e sinti durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il 16 dicembre del lontano 1942 infatti la follia di Heinrich Himmler lo conduceva ad ordinare la deportazione verso il campo di sterminio di Auschwitz di ogni individuo di razza rom e sinti che viveva nella sua Germania nazifascista.

Ma l’antiziganismo e l’odio razziale, il ‘problema zingari’ che inquinava la purezza razziale dei tedeschi fu solo un momento di apice di «secoli di accuse e odio viscerale, che gli Stati europei non hanno mai voluto realmente superare». Il termine Samudaripen nella lingua romanì significa letteralmente “tutti uccisi” e come sostiene lo storico Luca Bravi esiste anche un secondo termine, Porrajmos che significa "grande divoramento" per indicare lo sterminio delle popolazioni romaní il quale afferma «quando parliamo di rom e sinti nel contesto del nazismo e del fascismo, parliamo di mezzo milione di persone che sono state sterminate e uccise». Ma nonostante si tratti dell’equivalente della Shoah ebraica, avvenuto nello stesso momento, negli stessi campi di sterminio e con le stesse modalità, questo genocidio non viene riconosciuto allo stesso modo, risulta «non inserito nella legge del luglio 2000 che istituì la Giornata della Memoria e vissuto ancora oggi come semplice appendice alla Shoah ebraica».

I rom, dichiarati dal regime “una razza inferiore”, furono assassinati a decine di migliaia non solo nei campi di concentramento di Auschwitz-Birkenau, Chelmo, Belzec, Sobibor, e Treblinka, ma anche nei territori che l’esercito aveva occupato in Unione Sovietica e in Serbia e molti zingari vennero rinchiusi nei campi che erano stati creati per il lavoro forzato. Nei cosiddetti campi zingari, Zigeunerlager della Grande Germania, o Reich, centinaia di rom morirono a causa delle orrende condizioni di vita.

Per la maggior parte, le famiglie Rom furono deportate ad Auschwitz-Birkenau, dove furono confinate in un settore dedicato detto “il campo delle famiglie zingare”. Circa 23.000 tra rom, sinti e lalleri, intere famiglie, ad Auschwitz hanno vissuto ammucchiate nel settore destinato agli Zingari.

La cosa più sconcertante fu che alcuni medici, come il Dr. Josef Mengele, furono autorizzati a compiere esperimenti in particolare tra gli ebrei gemelli e nani, alcuni provenienti anche dalle famiglie zingare del campo. Nel documentario vengono mostrate le immagini di alcuni bambini tagliati e ricuciti in maniera disumana, con parti di carne appese, arti tagliati, teste aperte e richiuse, maschi trasformati in femmine e femmine tramutate in maschi, un orrore che i sopravvissuti riescono a malapena a raccontare. Anime inconsapevoli della sorte che sarebbe toccata loro, corpi profanati, abusati in tutti i modi possibili fino a cancellare ogni traccia di umanità nei cuori degli aguzzini che li sezionavano facendone dei cadaveri viventi. Peralta mostra la pazzia di questi comportamenti attraverso il riflesso di una finestra chiusa dai cui vetri di specchia la solitudine dei campi, oppure dal volto di un ragazzino dietro il vetro con lo sguardo triste e rassegnato, o dal corpo di una delle vittime che vola in un paesaggio autunnale.

I rom che non morirono per il diffondersi di epidemie di tifo, vaiolo e dissenteria, furono trucidati nel 1944, - circa 2.898, la maggior parte malati, anziani, donne e bambini - nelle camere a gas di Birkenau. Ci racconta un testimone che furono fatti uscire dai loro ricoveri puzzolenti dove erano trattati peggio delle bestie e furono incolonnati nella direzione delle camere a gas. Molti lo compresero e provarono disperatamente a fuggire, ma furono costretti a entrare in quei forni e a subire da vivi la peggior sorte che si potesse immaginare, tutti insieme, anime inermi, resti di un’umanità considerata indegna di una civile esistenza. Pochi fortunati si salvarono riuscendo a nascondersi, almeno 19.000 dei 23.000 i rom che furono inviati ad Auschwitz morirono nel campo e i sopravvissuti vennero condotti a Rapolla in Basilicata e lasciati come un pacco di panni sporchi nella più assoluta solitudine e povertà.

Conosciamo il numero esatto di 23.000 dal libromastro dello Zigeunerlager (campo degli zingari) di Birkenau, dove da un lato venivano riportati i nomi degli uomini, dall’altro i nomi delle donne, un documento salvato grazie a Tadeusz Ioachimowski, un prigioniero polacco addetto alla registrazione dei nomi, che tornò nei luoghi della sua prigionia e dissotterrò con sicurezza insieme ai compagni di prigionia Irenuesz Pietrzyk (matricola 1761) ed Eryk Porebski (matricola 5805), il libromastro avvolto in stracci fatti a brandelli dal tempo che aveva sotterrato in un vecchio secchio di latta nei pressi della baracca 31 nell'estate del 1944, prima che quell’area del campo di sterminio fosse totalmente liquidata.

Chi furono i veri responsabili? Hitler e i nazisti? Sì, certamente! I Capi di Stato che glielo lasciarono fare? Sì, senza dubbio! Qualche folle che potrebbe aver finanziato consapevolmente e inconsapevolmente il disegno di Hitler? Certo! I cittadini che col loro razzismo chiedevano di risolvere il ‘problema degli zingari’ cittadini di serie B fastidiosi, ladri, furbi e imbroglioni, neri come le loro anime, disobbedienti e incivili? Sì, sì, sì! Ma non solo, furono anche quei cittadini che non vollero vedere, che lasciarono fare e se ne lavarono le mani, accontentandosi del loro mediocre privilegio, che non si vollero rendere conto, nemmeno dopo, di quello che era successo, che continuarono la loro esistenza nell’agiatezza incuranti della sofferenza altrui. Anche loro furono e continuano ad essere, anche oggi, quando non vogliono guardare e vedere le ingiustizie e le persecuzioni di uomini e popoli, assolutamente responsabili, perché senza la loro cecità certi massacri, fisici e morali, non sarebbero accaduti.

E per dirla con Fabrizio De André:

Per quanto voi vi crediate assolti
Siete per sempre coinvolti

(La canzone del Maggio - Fabrizio De Andrè)

Eppure da tutta questa sofferenza può nascere davvero qualcosa di portentoso, quando l’uomo è chiuso da mille impedimenti, quando si trova solo contro tutto e tutti, quando è annichilito e limitato da ogni direzione, innesca la sua vena creativa e trova il modo per urlare ai posteri il suo profondo lamento lasciando in eredità l’arte, la poesia, il genio che non può essere soffocato da nulla e che fuoriesce molto spesso in musica.

La musica era uno strumento essenziale per la cultura rom, un modo di comunicare e di raccontare la memoria di quei giorni infernali. Per tanti anni il dolore per il Samudaripen rimase celato nelle anime dei superstiti, dei familiari e dei discendenti delle vittime del genocidio, poi Santino Spinelli si è fatto portavoce del dolore del suo popolo, raccogliendo le testimonianze dei sopravvissuti tra i quali suo padre Gennaro. Ha ricercato le musiche concentrazionarie, ossia quelle musiche nate nei campi di concentramento, creando il repertorio ascrivibile ai rom.

Il Maestro Francesco Lotoro - musicista, pianista, direttore d’orchestra, esperto di musiche concentrazionarie -, afferma che nei Zigeunerlager è nata una letteratura musicale «di livello universale, non solo per l’alta ispirazione melodica, ma anche per la forza dei testi e per una potenza espressiva del terreno musicale» che attinse solo parzialmente da un precedente repertorio: era musica originale, nata nei campi, un fiore germogliato dallo sterco lasciato al suolo dalla follia nazifascista.

Nei campi di sterminio, in condizioni di vita disumane, la creatività delle famiglie romanì produsse frutti musicali originali e emotivamente coinvolgenti, che hanno visto l’interesse di musicisti non-rom come Lotoro e rom come Santino Spinelli. Le famiglie, le donne, i bambini, gli uomini, annullati nella loro umanità, hanno lanciato il loro urlo, un lamento silenzioso che emerge dai loro spartiti interiori.

Nell’atrocità della prigionia, le immagini di repertorio selezionate dalla regista Alessandra Peralta, sono capaci di raccontare uno dei momenti più sconvolgenti del comportamento umano nei confronti dei propri simili, imprimendo uno sguardo poetico, ricercando ogni istante positivo, di gioia, di tenerezza, di bellezza, sposando le immagini ai suoni e alle note lasciateci in eredità da uomini resi relitti umani. Il documentario racconta con le parole di studiosi e testimoni, ma Peralta ce lo mostra, se lo sguardo è attento, con la sua telecamera che sorge spontaneamente dal terzo occhio. È la missione della regista riuscire a far vedere il bello, l’originale, il poetico, l’assurdo eppure il genio che cresce e si sviluppa nei campi di anime bruciate, dove non dovrebbe crescere nulla, dove un velo di pudore dovrebbe far breccia nel cuore dei carcerieri, che con i fucili in mano, che con la loro arroganza, spingono uomini, donne, bambini, anziani, verso il loro destino di dolore e morte.

I circa 35.000 rom che vivevano in Germania, nell’arco di poco tempo, furono considerati addirittura persone geneticamente pericolose. Ogni anno, non solo gli ebrei, ma anche rom, talvolta anche insieme, cercano di commemorare le vittime del genocidio rom attraverso l’inno Gelem, gelem, una canzone scritta da Žarko Jovanović nel 1949, usata come inno del popolo rom, adottato ufficialmente dai delegati del primo Congresso Mondiale Rom svoltosi a Londra nel 1971. Il titolo è scritto anche in altre grafie ed è conosciuto anche con altri nomi, fra cui Opré Roma e Romale Shavale.

In quell’occasione Santino Spinelli lesse la sua poesia Auschwitz:

Faccia incavata,
occhi oscurati,
labbra fredde;
silenzio.
Cuore strappato.
Senza fiato,
senza parole,
nessun pianto.

Queste parole sono state riportate in lingua romanì, italiana ed inglese, su una targa in maiolica laertina affissa alla base del Monumento al Samudaripen dei Rom e Sinti, una statua scolpita in pietra della Majella da Tonino Santeusanio che si trova a Lanciano presso il Parco delle Memorie.

La statua rappresenta «una donna con in braccio un bambino che fugge e si libera dal filo spinato che la imprigiona. La donna rappresenta la continuità, la possibilità di futuro dell'etnia Rom e Sinti, il bambino è il futuro. Il filo spinato rappresenta il genocidio etnico e la ruota del carro, collocata a lato, rappresenta l'etnia Rom e Sinti». La ruota del carro si trova anche al centro della bandiera della popolazione Romanì, simbolo del viaggio della famiglia e soprattutto della libertà.

Tutte le immagini sono tratte dal documentario Rai Scuola.