Essere liberi è nulla, divenirlo è cosa celeste.

(Johann Gottlieb Fichte)

C’è una Bella che dorme in ciascun essere umano: risvegliatela. Così potremmo parafrasare il pensiero magico che ha dato vita alle molteplici versioni di un unico archetipo, protagonista di fiabe diverse tra cui senza dubbio spiccano per notorietà La bella addormentata nel bosco e Biancaneve.

La prima, che trae il titolo dalla versione francese di Charles Perrault (La belle au bois dormant), è detta Rosaspina (Dornröschen) dai fratelli Grimm e il motivo principale del sonno che la caratterizza trova antecedenti testuali importanti a partire almeno dalla Brunilde della saga norrena e dal Perceforest medievale per arrivare al seicentesco Pentamerone di Giambattista Basile. La seconda, resa iconica da Disney per il grande pubblico, è stata consacrata dall’edizione dei Grimm, ma alcuni dei suoi motivi principali possono già rintracciarsi in molte narrazioni precedenti come quelle dello stesso Basile.

Agli antipodi esatti della prassi iconoclasta della cancel culture contemporanea, che cannibalizza struttura, armonia e significato di ogni tradizione narrativa, ci piace collocare la visione di quei rari ermeneuti che hanno portato alla luce il legame che la fiaba possiede con gli antichi processi della metallurgia e della Natura in senso alchemico, della Natura cioè come grande processo di trasformazione.

A testimonianza dell’unicità dell’archetipo che sta alla base del racconto di Biancaneve e della Bella addormentata, oltre alle fonti succitate, ci piace chiamare in causa la poco nota Bianca-comu-nivi-russa-comu-focu (Bianca-come-neve-rossa-come-fuoco), una delle fiabe siciliane raccolte dallo sforzo compilativo unico nel suo genere di Giuseppe Pitrè.

Pur nelle vistose differenze con la Biancaneve più nota, la Bianca-come-neve-rossa-come-fuoco mette in risalto nel suo titolo la bicromia fondamentale dell’archetipo di Biancaneve che si arricchisce di un terzo colore, il nero, proprio nella narrazione dei Grimm in cui la madre-matrigna esprime il desiderio di partorire una “bambina bianca come la neve, rossa come il sangue e nera come l’ebano”, tricromia peraltro presente nell’iconico volto della Biancaneve disneyana.

Nella novella siciliana la matrigna è innanzitutto una Mamma-drago (Mamma-dràa), consueta metafora di una forza fisico-psichica inglobante, intrusiva, divoratrice che tiene chiusa in una torre, alla maniera di Raperonzolo, la figlia Bianca-come-neve-rossa-come-fuoco, ma che allo stesso tempo nella sua ingenua malevolenza si lascia sfuggire le regole magiche per uscire dalla prigione stessa insieme al principe che già a metà fiaba riesce a trovare l’amata.

La Bianca-come-neve siciliana però non si addormenta come le sue “sorelle” e ciò è dovuto al fatto che il processo metaforizzato dal sonno viene trasferito sul principe che, destinato a sposarla, è impedito nel suo scopo proprio dalla forza di un “sonno” diverso: la “perdita del ricordo” dell’amata che egli riceve come anatema dalla matrigna.

Nell’immaginario comune il riferimento a Biancaneve richiama di solito l’idea di purezza naturalmente correlata al biancore della neve. Quando invece si pensa al sonno centenario della Bella addormentata non si può che immaginare la verginale immobilità che coglie la giovane proprio nel fiore della sua adolescenza. Ad una prima lettura, dunque, alle due fanciulle sembrerebbe estraneo il colore rosso.

Per i primordiali cantastorie, la “purezza” dell’essere umano non era evidentemente uno stato sorgivo perduto per sempre con l’avanzare della crescita. Era qualcosa di sommerso, di aggredito dal tempo e dalle contorsioni dei suoi rovi. Il castello in cui dorme la Bella è infatti circondato da un bosco fittissimo di spine che impediscono l’accesso a tutti i principi tranne uno.

Allo stesso tempo, la spina replica sul piano vegetale l’analogia con il fuso con cui la Bella si punge. Basta infatti un piccolo evento per turbare il bianco della neve. Il dolore che ne consegue, che è segnato in più testi da una rossa goccia di sangue, e che di per sé potrebbe esaurirsi nell’istante della puntura, viene invece centuplicato e tradotto nel torpore cronico simbolizzato dal bosco. Cento anni dorme la Bella e Biancaneve non può resistere al sonno che le viene indotto da una mela che, coerentemente con la sua simbologia, è rossa.

Da un fuso appuntito che fa sanguinare o dal veleno di una mela rossa si genera così la letargia del bosco e del sonno. Tutto si ferma. Persone, piante, animali. Anche il fuoco che scoppietta nel camino. Il pungersi può pietrificare. È quanto nelle fiabe si usa chiamare maledizione, ma essa, in fondo, non è che il processo attraverso cui l’Anima si difende per guarire la ferita infertale dal fuso.

Maledizione è così il dormire o il perdere la memoria, strade diverse che l’Interiorità umana usa paradossalmente per ritrovare l’alba fuori dal tempo della propria innocenza che ha temporalmente perduto e che nell’uomo non è destinata a permanere nel suo stato di “candore” iniziale, ma ha bisogno di un’incubazione durante la quale processi ulteriori la conducano ad un biancore diverso. Un biancore che ha conosciuto il rossore. Una neve che ha conosciuto il fuoco.

A rendere possibile il compiersi di questo lungo processo sono azioni “magiche” diverse. Nella formula della Bella addormentata, un principe deve entrare nel bosco e affrontare le circonvoluzioni dei suoi rovi, metafora degli spinosi ammassi cerebrali, dei cespugli psichici della mente umana che ricoprono, velano, nascondono il castello dove la Bella dorme e che, volendo ricorrere all’analogia cabalistica tra albero sefirotico e corpo umano, si trova nel Cuore, lì dove risiede ciò che in ebraico è Tiferet: Bellezza.

Nella formula di Biancaneve, le due “resurrezioni” messe in atto dai sette nani minatori per salvare la giovane non bastano a liberarla da una terza prigionia: quella del sonno indotto dalla mela rossa. Serve un principe che occulti la fanciulla in un luogo sicuro insieme alla sua bara di vetro e che attenda la grazia del momento in cui Biancaneve “apre gli occhi”. Nessun bacio nella versione dei Grimm. Come il colpo che maldestramente uno dei servi del principe assesta sulla schiena di Biancaneve per disincastrare il tozzo di mela, anche il bacio sarebbe comunque un simbolo.

In Bianca-come-neve-rossa-come-fuoco c’è bisogno invece prima di sette gomitoli di filo (variante dei nani) per scappare dalla prigione, poi di due colombe parlanti affinché il principe riprenda improvvisamente a ricordare la sua Bella. Ricordare: “ritornare al cuore”.

Ma a ben guardare questa profusione di simboli, solo apparentemente contraddittori, il vero operatore della trasformazione del bianco che attraverso il rosso deve diventare un bianco più splendente è il tempo. Anzi la grazia del tempo: il tempo circolare. Come il fuso del filatoio si avvolge su sé stesso per filare l’ordito e a sua volta genera la complicazione fiabesca del sonno, così si avvolge su sé stesso il tempo. Le maledizioni del sonno e del bosco sono infatti destinate a incubare il proprio scioglimento, la propria benedizione. Il male cova il bene.

Secondo la fiaba, l’aurorale interiorità umana (Aurora è il nome della Bella in Perrault), aggredita prematuramente dal fatto stesso di essere al mondo, è sommersa ma anche “protetta” dall’involucro delle sue stratificazioni che si assiepano con regolare ciclicità attorno al suo nucleo centrale intatto, come i rovi del bosco attorno alla principessa. E tuttavia essa cela in sé stessa l’antidoto per sfoltire finalmente la foresta proliferata dalla mente temporale, per generare un principe-principio che riesca a farsi largo tra le spine e a raggiungere la fanciulla dormiente.

Dentro ogni essere umano, la mente cosciente può infatti diventare l’eroe di se stessa. L’eroe che salva l’in-cosciente purezza che gli antichi vedevano nella forma di una bella che dorme. Per fare ciò, per sbarazzarsi di “se stessi” e tornare a se stessi - ammonisce la storia - ci vuole però un’arte. E così gli antichi conoscitori della Natura in un tempo remoto hanno osservato come in fondo la fanciulla da ritrovare fosse bianca e splendente come l’argento una volta sottoposto al rosso fuoco che lo liberava dalle sue scorie.

Avrebbero potuto lasciarlo dormire per sempre insieme agli altri metalli meno nobili, nel lettino troppo piccolo di un nano ad esempio, incuranti della sua grandezza, come succede a Biancaneve. Avrebbero potuto lasciarlo in balìa ora della rabbia ora dell’accidia e così fino ai “sette” modi dell’esistenza. Ma non hanno invece esitato a sottoporlo alla prova dell’estrazione nel forno rovente, a liberarlo velo dopo velo, anno dopo anno, dal sonno di minerali che ne occultavano la brillantezza. Il sonno del “carattere”, del modo in cui ciascuno occulta la sostanza atemporale che risiede immota nel centro di se stessi.

E quando infine avrebbero visto l’argento liberarsi e diventare luccicante di un biancore nuovo, si sarebbero guardati festosi come quando si vede un malato che finalmente è guarito e “apre gli occhi”. Perché è solo così, ci dice la storia, che la fanciulla si è potuta risvegliare e diventare argento. Metafora eletta dell’innocente purezza riscattata dal tempo, bellezza che giace in ognuno e che attende da sempre di essere risvegliata.