In un recente e piacevole film prodotto da E! (A Royal Rendezvous), spicca un "game changer", uno di quegli attori che - all'interno di un cast estremamente gradevole, come in questo caso - alza il l’asticella e determina la posta in gioco. È il caso di Marcus Lamb, attore irlandese, con una carriera impressionante tra teatro, cinema e TV (e recensioni spettacolari) che si è aperto in questa nostra piacevole chiacchierata, analizzando le complessità di confrontarsi con mezzi espressivi diversi, l'emozione di essere un attore beckettiano e i progetti che lo vedranno coinvolto nei prossimi mesi. Il tutto illustrando la storia del suo cognome, con una gradita sorpresa dalle eco vittoriane; mi racconta – infatti – di essere il pronipote di Elsie Martindale (ed ha chiamato la sua primogenita come lei) sposata con lo scrittore Ford Madox Ford e, conseguentemente, di essere nipote della figlia di Ford: Katherine, moglie del pittore irlandese Charles Vincent Lamb, con il quale visse nel Connemara.

Qualche tempo fa ho letto che le piacerebbe lavorare di più in Irlanda. È ancora così?

All'epoca avevo fatto molte tournée, soprattutto in America con DruidSynge e la Druid Theatre Company. Abbiamo messo in scena tutti i Six Plays di John Millington Synge e provato per quattro mesi, un'esperienza molto coinvolgente. Abbiamo portato in scena tutte le opere di Synge ed il pubblico arrivava intorno alle 12 per, poi, rimanere fino alle 23. Nello stesso periodo sono stato a Singapore con AC Productions, poi a Shanghai e a New York con Gare St. Lazare, oltre che a Tokyo dove ho recitato in Aspettando Godot con il Mouth on Fire Theatre (di cui sono membro effettivo). Quando ho fatto questo commento, mi sembrava non fossero in molti a conoscermi qui, dato che ho lavorato molto all'estero e volevo essere più visibile professionalmente nel mio Paese.

Quali sono le sfide di lavorare con diversi mezzi espressivi? Sembra molto a suo agio con tutti...

Trovo che il lavoro in TV e al cinema sia più isolante, come se dovessi fare tutto il lavoro investigativo da solo. Quando arrivi sul set trovi, metaforicamente, una scultura completamente formata e il regista può semplicemente chiederti di plasmare gli elementi in modo un po' diverso, ma la struttura è tutta lì; mentre in teatro arrivi il primo giorno e trovi una grande massa di argilla che devi scolpire insieme agli altri attori, il che è molto più interattivo e comunitario. Trovo che il teatro sia più facile, perché si ha il tempo e lo spazio per sviluppare l'opera e i personaggi. Un aspetto che ho imparato nel corso degli anni è che, per quanto riguarda il teatro, è più utile non fare troppo lavoro sul personaggio, ma capire il progetto dell’opera e ciò di cui si ha bisogno e che si vuole dalla compagnia, in modo che il proprio personaggio si evolva inavvertitamente.

Il mio approccio, sia in teatro che sullo schermo, è quello di sviluppare il mio personaggio il più tardi possibile. Ho letto, ad esempio, che chi ha lavorato con il compianto attore John Cazale ricorda che sembrava quasi non avesse creato nulla, ma quando la macchina da presa si accendeva, tutto cominciava ad emergere. Si tratta di un approccio molto delicato, particolarmente adatto allo schermo con il suo linguaggio comportamentale, mentre per il teatro, che è più orientato alla lingua, più muscolare e fisicamente impegnativo, credo sia necessario un approccio più tecnico. Inoltre, più vado a teatro e più recito, più mi rendo conto (soprattutto nel teatro irlandese, con la sua enorme tradizione linguistica e letteraria) che la voce è di fondamentale importanza. Si può sentire tutto ed essere immersi nel personaggio, ma se questo non arriva al pubblico c'è un blocco invalicabile tra la tua ispirazione interna e la sua ricezione.

Perché è così affascinato dalle opere di Beckett e quali sono, secondo lei, le sfide da affrontare nel rappresentare i suoi personaggi?

C'è un libro di Jonathan Kalb (Beckett in Performance) che contiene interviste a numerosi attori. Una in particolare, con David Warrilow che ha recitato in Un Pezzo di Monologo (la prima opera di Beckett, che ho interpretato nel 2011) della durata di 25 minuti. Se non erro, afferma che modo in cui Beckett l'ha scritto è rivolto a rappresentare lo stato emotivo e psicologico dell'attore in grado di seguire la progressione logica di ciò che aveva scritto. Nella mia esperienza, si inizia ad abitare le parole e a creare una sorta di ecfrasi, dipingendo il quadro nella mente del pubblico, avvicinandolo emotivamente, visualizzando un determinato stato durante il Monologo, perché è la storia di un uomo che si alza notte, dopo notte, dopo notte e descrive ciò che vede, aprendo con le battute: "la nascita fu la sua morte". Parla di sé in terza persona, perché è diventato psicologicamente distaccato, forse in seguito ad un trauma, e questo è il suo modo di affrontare un’esistenza molto limitata. Ricordo che quando ho recitato il primo spettacolo, ho ammiccato un paio di volte e la grande regista Beckettiana: Sarah Jane Scaife - presente allo spettacolo - disse che ero stato fantastico ma mi suggerì di non sbattere le palpebre per tutta la durata della rappresentazione. Ho seguito il consiglio e questo ha fatto sì che lo spettacolo diventasse un'opera d'arte performativa, dato che mi muovevo a malapena, guardando attraverso il pubblico, nello spazio più profondo. C'è una parte in cui Beckett descrive una serie di ombrelli neri visti dall'alto e io ho iniziato a visualizzarli, sentendomi come se fossi al di sopra del pubblico, guardando verso il basso. Facendo così ogni sera, il pubblico scompariva ed io entravo in quella zona in cui le parole sono evocazione e o le interpreti correttamente o fallisci, perché è un testo meravigliosamente intenso e rigoroso.

Come ci si prepara per un ruolo? Ha bisogno di conoscere meglio la biografia dell'autore e la sua opera, o sono elementi che la distraggono?

Non credo sia strettamente necessario, anche se per curiosità sono andato a Roussillon, nel sud della Francia, dove Beckett ha vissuto con la moglie (Suzanne Dechevaux) dal 1943 al 1945, quando erano in fuga dalla Gestapo, poiché traduceva lettere per la resistenza. La loro sofferenza fisica, la loro fame, così come il modo in cui parlavano tra loro è, a quanto pare, parte dell'ispirazione per Vladimiro ed Estragone in Aspettando Godot, con la sua enfasi sugli elementi fisici, dove Estragone è rappresentato dalla roccia e Vladimir dall'albero; è un'opera estremamente terrena e metafisica. È stato interessante andare a Roussillon e vedere la terra rossa del luogo (ne ho ancora una bottiglietta), per immagazzinare l'esperienza a livello cellulare così, quando enuncio le parole, posso visualizzarla immediatamente.

Posso chiederle dei suoi progetti futuri?

Recentemente ho lavorato ad una serie televisiva intitolata Sanctuary, che uscirà presto sia in Inghilterra che in America. Sono molto presente in uno degli episodi ed interpreto un personaggio machiavellico. La serie è ambientata in un villaggio dell'Inghilterra rurale, abitato da una strega e guaritrice, che è completamente accettata dal paese, fino a quando qualcuno muore e tutti si chiedono se lei c'entri qualcosa. Saranno sei episodi basati sull'omonimo libro. Sto anche lavorando a due progetti teatrali, uno diretto da Raymond Keene, che ha fatto molti lavori su Beckett con Sarah Jane Scaife, ma questo è uno spettacolo completamente nuovo di Dee Corcoran; l'altro è un pezzo di uno scrittore irlandese chiamato Philip St John, probabilmente un one-man show. Interpreterò anche il colonnello tedesco Treskow nel lungometraggio God's Spy, un'eccellente sceneggiatura diretta da Todd Komarnicki, un film sulla Seconda Guerra Mondiale girato in Belgio su Dietrich Von Bonhoeffer e gli attentati a Hitler.