Puoi camminare sulla battigia di notte, da solo, con il sussulto delle onde del mare a farti da unica compagnia, con la luna che ti osserva morbida dal cielo e con la sua luce calda ti chiede conto delle tue incertezze, delle tue mancanze, delle tue erranze e dei tuoi silenzi. Eppure… Eppure, in quella condizione di apparente solitudine, ti percepisci intessuto con gli stessi fili dorati che innervano altri uomini e altre donne, con i medesimi colori dei tuoi simili che condividono con te il tempo del tuo transito terrestre, con gli stessi nodi che l’umanità da sempre stringe per sentirsi abbracciata davvero.

Oppure, al contrario, puoi passeggiare al mercato, immerso nella calca di voci, tra le grida che esaltano il profumo di quella verdura regalata o il gusto di quel frutto succoso venduto a poco prezzo, a contatto fisico con sconosciuti che poggiano le suole sul tuo stesso lastricato, ogni tanto un anemico “ciao, come stai?”, talvolta un sorriso sbiadito, talvolta due sguardi che si incrociano di fronte alla bancarella dei vestiti.

Eppure… Eppure, in quella condizione di apparente collegamento con il mondo, in quei contesti affollati di folle e di fole, ti avverti solo, con il tuo grumo di pensieri che ti si infittiscono nella mente, inserito dentro un enorme bicchiere trasparente che ti fa vedere attorno ma ti rende separato dal resto dell’umanità. La solitudine, come la compagnia, sono stati dell’animo. Prescindono dal contesto anche se dal contesto sono in parte influenzati. Sono increspature delle nostre menti che sempre pendolano tra due poli, alla ricerca ondivaga di un attrattore di tensione o dell’altro. Sono vibrazioni del cuore che palpita più veloce o più lento a seconda dei momenti, cioè dei movimenti che il tuo corpo imprime a sé stesso. La solitudine e la compagnia sono in te, sono due facce del medesimo te.

La solitudine è separazione

“Più mi lasciano sola più splendo”, argomentava Alda Merini (1931-2009), la poetessa milanese che continua a incantarci con i suoi versi e a sorprenderci nelle serate malinconiche. Nella solitudine lei ravvede la luce che diventa raggio e poi splendore, come i monaci medievali insegnavano ai loro allievi, e presenta la correlazione tra l’essere soli e lo splendere. Più sono sola, più splendo, avrebbe potuto scrivere. E invece no: più mi lasciano sola, laddove gli altri hanno un ruolo e una responsabilità nell’essere facitori di solitudini.

“La solitudine è una tempesta silenziosa che spezza tutti i nostri rami morti”, approfondisce un altro poeta, il libanese Kahlil Gibran (1883-1931), morto nell’anno in cui è nata la prima. Qui il collegamento è tra la solitudine e il vortice del silenzio che fa pulizia, monda, denuda e riporta all’essenziale del qui-e-ora, spezzando “tutti i nostri rami morti”. Proprio quei rami che appartengono al passato e che non hanno saputo superare le traversie delle stagioni.

Il sostantivo solitudine è ovviamente derivato da solo, che in latino si diceva sōlu(m) , cioè ‘unico’, ‘solitario’ quando assume la forma di aggettivo e ‘soltanto’, ‘solamente’ quando prende le sembianze di un avverbio. E quel solo possiede in sé il prefisso denso di significato se(d)-/sō- , che indica separazione, lontananza, frattura.

La solitudine è dunque distacco. La persona sola non ha altri esseri umani accanto a sé. La particella se(d)-/sō- pone le distanze, le definisce, le amplifica. La stessa particella, spiega bene Alberto Lucentini, studioso di etimologie, ricorre in termini di tradizione dotta ereditati dal latino, come secèrnere, secessióne, sedizióne, segregare, separare.

Nella solitudine ci segreghiamo in ambiti protetti, silenziosi, amorevolmente altri rispetto alla frequentazione altrui, come saggi dediti al romitaggio che cercano in sé ciò che può essere trovato solo in sé.

Da soli nel Regno Unito

In inglese uno dei modi di dire solo è alone. Quando non ci sono compagni attorno, quando non si è in compagnia. Questo aggettivo è comparso intorno al 1300 nella lingua inglese quale contrazione di all ane, dall’inglese antico all ana, che voleva dire ‘non accompagnato’, ‘tutto per sé stesso”, letteralmente ‘interamente sé stesso’, da all ‘tutto’ più an con il significato di one, cioè uno. L’aggettivo alone conserva la pronuncia antica di one.

Da soli siamo ‘interamente noi stessi’, con l’idea di completezza, di autosufficienza, di pienezza. Da solitari ci bastiamo, non siamo parti di un tutto da comporre, siamo già il tutto. Da soli non siamo la metà di una mela che necessita l’altra parte, siamo la mela intera. Questo perché in alone si insedia l’all, il tutto. Utilizzando un termine inglese, indichiamo chi non è in coppia: il o la single. Single sono un uomo o una donna che vivono soli, senza un legame sentimentale, per lo più per libera scelta. Li definiamo con la parola inglese, single, ma potremmo chiamarli singoli e quindi in qualche misura singolari.

La parola latina singŭlus è l’antenata di sia di singolo sia di singolare sia di single. All’origine c’è una base sim- che significa ‘uno’, ‘unico’ e che dà vita al tutto. Questa base deriva dalla radice indoeuropea *sem- che indica l’unità e l’identità. È una radice che ha gemmato molto, creando molte fioriture nella lingua latina e poi da questa nelle lingue romanze tra cui l’italiano. La ritroviamo ad esempio in semper ‘sempre’, in simplex ‘semplice’, cioè ciò che viene piegato una sola volta, in simul che significa ‘insieme’ e appunto in singŭlus che vuol dire appunto ‘singolo’. Il significato di ‘simile’, ‘identico’, ‘stesso’ si ritrova nel greco homós, da cui in italiano sono derivate tutte le parole con il prefisso omo-, e inoltre nell’inglese same, lo stesso. Tutto torna, tutto si chiude come in un cerchio.

Solitari, talvolta isolati

Chi sta solo sta sopra un’isola con i flutti attorno che ne bagnano le rive. Chi sta solo è un’isola, talvolta ricca di corsi d’acqua, di una vegetazione rigogliosa, di sentieri da esplorare, talvolta desertica e spazzata da venti troppo caldi che si alternano con venti troppo freddi. L’isolamento è la condizione di chi è isolato.

La parola italiana isola ha origini indoeuropee e deriva dal latino insŭla(m), che ha figliato nel francese con île, nel catalano con illa, nello spagnolo con isla, e nel portoghese con ilha. L’origine della parola insŭla (m) è incerta. Secondo Alberto Nocentini, resta ancora valida, in attesa di una proposta migliore, l’interpretazione degli antichi sulla sua origine: come aggettivo, (terra) insŭla, cioè ‘terra in mezzo al mare’ da in salo ‘nel mare’, dove salum significa ‘alto mare’ e ‘ancoraggio’, ‘fonda’, probabilmente dal greco sálos che voleva dire ‘ondeggiamento’, ‘fluttuazione’.

Le persone isolate stanno dunque attorniate dal mare, ciascuna, come diceva Dante, per alto mare aperto: osservano le onde attorno, ammirano l’immensità della distesa d’acqua che si estende fino all’orizzonte.

La potenza dell’abbandonare e dell’essere abbandonati

Nessuno riesce a legare un tuono, e nessuno riesce ad appropriarsi dei cieli dell’altro nel momento dell’abbandono.

(Luis Sepùlveda)

Talvolta si è soli per scelta, per decisione, per risoluzione. Talvolta ci si ritrova da soli perché si viene abbandonati. Tra le tante stranezze della vita, sempre poco lineare, sempre incline ai ghirigori, ai tornanti e agli sbalzi di pressione, c’è anche la percezione di abbandono. Abbandoniamo quando smettiamo di fare qualcosa, quando diciamo basta, quando ci mettiamo da parte e allentiamo la presa.

Il verbo abbandonare deriva dal francese antico abandonner, a sua volta derivato della locuzione antica a bandon, cioè ‘alla mercé’, o dalla locuzione *a ban donner, con il significato di ‘dare in balìa’ e quindi ‘lasciare a disposizione’. A loro volta derivano dal franco bann che indica il ‘potere’, la ‘dichiarazione di autorità.

Un elemento curioso: da quel bann antico che indica il potere discende anche l’italiano banale, che significa qualcosa ciò che è privo di originalità o di importanza. In origine banale stava a indicare ‘ciò che appartiene alla comunità’ quindi ‘comune’, talmente a disposizione di tutti da non poter essere considerato unico. In contesti complessi quali quelli in cui agiscono gli esseri umani, la banalità (del bene e del male) va evitata, va sconfitta, va – per l’appunto – abbandonata.

Nel deserto il conforto degli eremiti

In greco antico la solitudine si diceva eremìa. Gli eremiti sono persone che, soprattutto per ragioni spirituali, si appartano dal mondo, scelgono la via della solitudine estrema. Gli eremi sono luoghi appartati e solitari. La parola italiana è un prestito latino di origine greca: dal latino tardo eremus che indicava il ‘deserto’ (sostantivo) e ‘solitario’ (aggettivo), a sua volta dal greco antico érēmos aggettivo con significato di ‘solitario’, ‘abbandonato’.

Argomentava il filosofo rumeno Emil Cioran (1911-1995), in Sillogi dell’amarezza (1952), un volume da leggere in assoluta solitudine: “Quanti fastidi per insediarsi nel deserto! Più scaltri dei primi eremiti, noi abbiamo imparato a cercarlo in noi stessi”.

E a sua volta il filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855), nella Postilla conclusiva non scientifica alle briciole filosofiche (1846): “Si sorride della vita claustrale, eppure mai eremita alcuno visse in modo così irreale, come si vive ai nostri giorni; perché certamente un eremita astraeva da tutto il mondo ma non astraeva da sé stesso”.

Il passero solitario

Giacomo Leopardi (1798-1837) ha scritto questa poesia mettendo in raffronto sé stesso con il passero solitario appoggiato sulla torre campanaria di Recanati. È stata pubblicata nei Canti nel 1835 e scritta presumibilmente alcuni anni prima.

D’in su la vetta della torre antica,
passero solitario, alla campagna
cantando vai finché non more il giorno;
ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera d’intorno
brilla nell’aria, e per li campi esulta,
sí ch’a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
gli altri augelli contenti, a gara insieme
per lo libero ciel fan mille giri,
pur festeggiando il lor tempo migliore:
tu pensoso in disparte il tutto miri;
non compagni, non voli,
non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
canti, e cosí trapassi
dell’anno e di tua vita il piú bel fiore.

Oimè, quanto somiglia
al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
della novella etá dolce famiglia,
e te, german di giovinezza, amore,
sospiro acerbo de’ provetti giorni,
non curo, io non so come; anzi da loro
quasi fuggo lontano;

quasi romito, e strano
al mio loco natio,
passo del viver mio la primavera.
Questo giorno, ch’omai cede alla sera,
festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
odi spesso un tonar di ferree canne,
che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
la gioventú del loco. lascia le case, e per le vie si spande;
e mira ed è mirata, e in cor s’allegra.
Io, solitario in questa
rimota parte alla campagna uscendo,
ogni diletto e gioco
indugio in altro tempo; e intanto il guardo
steso nell’aria aprica
mi fère il sol, che tra lontani monti,
dopo il giorno sereno,
cadendo si dilegua, e par che dica
che la beata gioventú vien meno.

Tu, solingo augellin, venuto a sera
del viver che daranno a te le stelle,
certo del tuo costume
non ti dorrai; ché di natura è frutto
ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
la detestata soglia
evitar non impetro,
quando muti questi occhi all’altrui core,
e lor fia vòto il mondo, e il dí futuro
del dí presente piú noioso e tetro,
che parrá di tal voglia?
che di quest’anni miei? che di me stesso?
Ahi! pentirommi, e spesso,
ma sconsolato, volgerommi indietro.