Quando si parla di David Foster Wallace, si finisce sempre per addentrarsi in un campo complicato e ricco di insidie, dovendo aggirare cautamente le considerazioni più semplicistiche e, al contempo, evitando di compiere un’operazione agiografica tratteggiando la figura con contorni mistificati. Soprattutto, quando si tenta di cogliere la persona dietro l’autore, tenendo conto delle pubblicazioni ma, allo stesso tempo, provando a guardare più in profondità.

Lo scrittore americano lega il proprio nome principalmente alla sua pubblicazione più nota, Infinite Jest (1996), un’opera magna di oltre 1000 pagine e quasi 400 note che il Time ha collocato tra i cento migliori romanzi in lingua inglese scritti fra il 1923 e il 2005. Già a partire da questi elementi più periferici, si capisce come la sua possa essere una figura controversa e dibattuta, di difficile comprensione e lettura, in ogni senso.

La natura ipertrofica e mastodontica del romanzo ha costituito, per molti lettori, una montagna ben più alta e difficile da scalare di quello che il volume fisico dell’opera, peraltro già considerevole ad un primo sguardo, suggerirebbe. Ed è così che, di fianco al mito dell’artista, si è creato lo stereotipo di un romanzo-manifesto sconsiderato, impossibile da concludere e perfino sopravvalutato.

Senza voler entrare nel merito delle opere narrative e dei saggi editi, che risultano certamente più funzionali ad un’analisi letteraria e che meriterebbero un approfondimento di tutt’altro tipo, diventa interessante provare ad approfondire l’individuo e le sue idee. Per uno studio filologico, certamente; ma anche per cercare di comprendere la forma mentis di un autore così conosciuto e così discusso, ma mai del tutto compreso.

Le interviste costituiscono, senza dubbio, delle corsie preferenziali per giungere a destinazione: nel corso degli anni, Foster Wallace è stato protagonista di una serie di conversazioni molto funzionali e stimolanti, spesso scaturite in riflessioni utili per guardare la realtà circostante sotto una luce diversa. A partire dal confronto a tre cui prese parte, nel 1996, da Charlie Rose, con i colleghi-scrittori Jonathan Franzen e Mark Leyner.

Il dibattito sulla televisione è indubbiamente uno dei cavalli di battaglia del pensiero dello scrittore: oltre che il medium di riferimento per più di una generazione, Foster Wallace la definisce come “un’arte commerciale che contiene molto divertimento e poca arte”. Ciò, in virtù della sua grande e diffusa fruizione, avrebbe reso il livello dei romanzi (pubblicati dai tre, ma non solo) più complesso ed articolato della media, dato il necessario impegno per leggere e, soprattutto, comprendere tali opere letterarie.

Ma, lungi dal voler fornire una valutazione presuntuosa, l’autore americano inserisce pure se stesso tra i grandi apprezzatori del medium televisivo, individuandone però – in una lunga intervista del 2003 alla tedesca ZDF – un difetto sistematico: «Una delle ragioni per cui non possiedo una tv, è che avevo iniziato a convincermi del fatto che ci fosse qualcosa di veramente buono su di un altro canale e che me lo stessi perdendo. E quindi, anziché guardare, facevo uno zapping frenetico tra i canali alla ricerca di qualcosa che volevo, ma che non sapevo nemmeno cosa fosse».

In un’epoca pre-piattaforme digitali, l’autore americano individua subito la principale criticità di quel mezzo, che andava offrendo sempre più possibilità di intrattenimento e sempre più varietà. In qualche maniera, profetizza quello che sarebbe stato l’apice e, contestualmente, il più grande limite della tv circa due decadi dopo: offrire una proposta così vasta e variegata da porre lo spettatore in una condizione di grande difficoltà decisionale.

Verrebbe da chiedersi, quindi, se questo pensiero di Wallace non celi una qualche forma di snobismo verso gli amanti del piccolo schermo, in apparenza sempre meno propensi a leggere. Forse, ma solo in piccola parte: Foster Wallace stesso, difatti, ravvisa una certa noiosità nella scrittura avantgarde del suo tempo, divenuta troppo accademica e pensata ad hoc per colleghi e critici più che per i lettori. Spingendosi oltre, nella sopracitata intervista del 1996, l’autore americano giunge a dare la colpa proprio a questo modus operandi più che alla televisione.

Tutto questo contribuisce a rendere il quadro ancora più ricco di sfumature, come accade per ogni intervento pubblico dello scrittore. E proprio la scrittura ci viene in aiuto per comprendere un altro aspetto importante del Foster Wallace uomo: in un’altra intervista per Charlie Rose, questa volta del 1997, parla proprio di come per lui la realtà sia frammentata – e non lineare, come invece un romanzo richiederebbe.

Il trasferimento di tale pensiero su carta non si limita, però, alla temporalità dell’opera, ma mira ad un livello più profondo della forma-romanzo, alle sue fondamenta più solide. Le note a piè di pagina diventano, in tale ottica, uno strumento per frantumare la linearità dell’opera senza renderla disorientante, ma richiedendo comunque al lettore uno sforzo per sormontare tale insolita difficoltà. Un vero e proprio compromesso tra le due parti.

La necessità di superare l’interazione-tipo con il prossimo, che sia un lettore o un presentatore televisivo, si manifesta anche nella forma dialogica adottata in occasione delle interviste: il romanziere ha, infatti, ribadito più volte di mal sopportare la formula classica del Q&A (question and answer), rompendo – anche in questo caso – la consequenzialità causale canonica della formula. Un po’ per trovare la propria zona di comfort, un po’ per abbracciare l’idea di una realtà più complessa di quella che suggerirebbe il rituale binario imposto.

Il risultato è quello di avere delle vere e proprie chiacchierate, trasferendo la discussione su un piano più paritario e, occasionalmente, invertendo anche i ruoli; ciò, pure laddove il conduttore sia situato al di fuori del campo visivo della telecamera, come accade nelle interviste frontali. Tutto questo, costringe l’obiettivo a visualizzare abbastanza frequentemente un soggetto passivo che sta semplicemente ascoltando, infrangendo in qualche maniera una regola non scritta del medium.

È come se la forma della realtà vissuta da Foster Wallace invadesse ogni aspetto della propria esistenza, creando degli schemi riconoscibili a posteriori. Il tutto, come si può intuire, non va certo in favore della semplicità: leggere una sua pubblicazione, o anche solo ascoltare qualche sua dichiarazione, comporta un impiego di energie e tempo che siamo sempre meno abituati a concedere.

Questo interscambio costante con la realtà si manifesta anche nella tipologia di romanzo adottata dallo scrittore, noto come realismo isterico. Al di là delle considerazioni sulla lunghezza del testo e sulla maniacalità dei personaggi, l’aspetto che risulta più sorprendente è la grande dedizione per la descrizione di cose apparentemente inutili: non mancano, difatti, digressioni di più pagine su apparecchi domestici o su elementi che non contribuiscono in alcun modo allo sviluppo della trama.

Risulta evidente – e questa, probabilmente, è la chiave del pensiero di Foster Wallace – come la volontà di inserire tali sezioni sia figlia del desiderio di riappropriarsi dei momenti morti, dando un grande spazio a segmenti narrativi che nel tempo del racconto creano una sospensione, come fossero fotografie, ma che nel tempo della Storia diventano minuti. La noia torna ad avere quello spazio che la società contemporanea pare non volerle più concedere; assieme ad essa, riemergono anche i pensieri, la pace ed il silenzio.

Sempre nell’intervista per ZDF, in merito al sostrato di brusio presente nella quotidianità, l’autore afferma: «Quando cammini in uno spazio pubblico americano non è quieto per niente, continuano anzi a proporre sempre una musica di sottofondo, come se avessimo scelto di non volere più cose quiete e silenziose […] Un modello di vita nel quale io debba avere il diritto di essere intrattenuto costantemente, non mi pare promettente».

Tale considerazione può essere estesa ad ogni campo, trovando applicazione sia nella vita di tutti i giorni – come nell’esempio di Foster Wallace – e sia all’interno di un determinato medium. Basti pensare al cinema ed alla contrapposizione tra pellicole ad alta spettacolarità ed altre più meditative e a basso ritmo.

Lo slow cinema recupera proprio questa chiave di lettura per proporre lungometraggi in cui la trama viene compressa al massimo per favorire, invece, la visione pura, lo scorrere del tempo, l’immobilismo narrativo e la quasi totale assenza di stimolazione nei confronti dello spettatore.

È come se il rumore di sottofondo, con la sua costanza, avesse fatto venire meno determinati interstizi del vissuto che costituirebbero l’habitat perfetto per il pensiero, per la riflessione e per quel vuoto da riempire esclusivamente con la propria mente. Un qualcosa che, in definitiva, rappresenta un segmento importante dell’Esistenza e che invece viene sempre più soffocato dall’enorme quantità di stimoli esterni.

Non risulterà quindi un caso che nell’estate trascorsa e, più in generale, negli ultimi anni, sia incrementata la quantità di persone alla ricerca di vacanze alternative, in grado concretamente di recidere il contatto con la quotidianità: trekking di più giorni, soggiorni in borghi isolati dal mondo e perfino ritiri spirituali in convento, sono soltanto alcune delle nuove mete preferite. Un vero e proprio tentativo di riappropriarsi di quegli spazi – fisici e mentali – sempre più difficili da mantenere.

Ecco perché, nel 2023, un autore come David Foster Wallace non va rivalutato soltanto sulla base delle pubblicazioni ma, in maniera più olistica, anche sulla scorta di tutto il suo pensiero. Il web è pieno di estratti e di interviste con cui approfondire i suoi concetti, così da poter imparare a conoscere l’uomo prima ancora di tuffarsi nella sua produzione libraria; per alcuni, potrebbe anche essere l’occasione per vedere da una prospettiva diversa un artista unico nel suo genere.

Magari, partendo dal bel The End of the Tour – Un viaggio con David Foster Wallace (2015), lungometraggio di James Ponsoldt basato sulla famosa intervista realizzata da David Lipsky per conto di Rolling Stone, spalmata lungo cinque giornate del 1996.