Un giorno tornai a casa da lavoro tutto un acciacco. In fabbrica erano arrivati quattro silos da scaricare a mano. Silos cinesi. I bastardi per guadagnare stipavano quelle gabbie di venticinque metri di merce non lasciando un centimetro libero.

La merce era messa dentro senza bancali, appunto per guadagnare di più, così bisognava scaricare quelle stronze a forza di braccia, mettendole su un muletto elettrico. Quando ti capitavano i ventilatori, nada problema, senior, a parte il caldo da schiattare dentro i silos; ma il più delle volte arrivavano altri colli, con altra merda dentro, tipo sedie girevoli, o scrivanie, e pesavano venti chilogrammi cadauno. Venti chilogrammi da acchiappare con le manacce sopra di te, stando attento a non lasciarci la crapa, o da sollevare sotto di te, stando attento a non rimetterci l'osso sacro. In più, c'era l'effetto rana bollita. Man mano che penetravi in quei silos d'estate la colonnina di mercurio si alzava e ti ritrovavi a sguazzare nella tua stessa carne come fossi unto e bisunto, il fiato ti si ingolfava nel petto, e dovevi correre fuori, mentre gli altri sfottevano, a riprendere ossigeno. Alcuni giravano l'occhio. Avevano mancamenti. Capogiri.

Un inferno alla cinese, ma non eravamo in Thailandia o in Indocina. No, ci trovavamo a pochi chilometri da casa, in un magazzino di smistamento merci. Gli altri operai italiani arrivavano a bordo di macchinoni. Erano bamboccioni per lo più disoccupati che cercavano di mostrare un po' di buona volontà alla famiglia. Ed erano finiti in quel pantano. Gli altri erano i soliti non italiani, fatti di ferro, e scaltri come il diavolo. Noialtri ce la davamo addosso, dandoci l'un l'altro dei somari, e degli stupidi; i non italiani, invece, facevano lega (bella questa espressione usata in questo modo) ed erano padroni del magazzino relegando noi italiani allo sfacchinaggio più becero. Così, insomma, tornavo da lavoro tutto distrutto e quel giorno, più degli altri, tornai da lavoro tutto un acciacco. Mi sedetti e zia mi fece trovare pronto un piatto fumante di spaghetti all'assassina.

"All'assassina, eh?" feci io, pigliando la forchetta, appoggiando il gomito sul tavolo, chinandomi verso il piatto e cominciando ad arrotolare grandi quantità di spaghetti attorno alla forchetta.
"Vedrai - disse zia - Questo piatto resuscita anche un morto"

Zia era secca come una scopa, piatta, e con la pelle del viso cadente, ma nascondeva tutto sotto un'abbronzatura curatissima. Faceva cagare, ma qualche omino lo recuperava, per lo scorno di mamma, che se l'era tirata in casa dopo la morte di babbo, per farsi aiutare con Dongo. Dongo è mio figlio. Un soprannome. Un bel bambino paffutello di quattro anni. Lo vedo una volta al mese, ma verso quasi tutto il frutto del mio lavoro (e delle mie emorroidi) a sua madre, per crescere Dongo. Non me ne frega. È la mia vita. Una volta avevo un'altra vita, ma quella vita è finita, ed è così lontana oggi che mi sembra la vita di un altro. Una vita mitologica. Leggendaria.

Comunque, mamma prova scorno per il successo di zia con gli ominicchi, e ogni tanto se la danno come due bisbetiche. La cosa mi rugna, perché in casa, quando ci sono, voglio dormire. Sono stanco. Non lo capiscono mica quanto uno si stanchi a lavoro. In più, mi guardano come l'ultima ruota del carrone dei falliti. Operaio. Puah! E in fabbrica i capetti non ci trattano meglio, per spremerci di più, e tra noi poveracci ci diamo del somaro e dello stupido, specialmente tra italiani del Nord, perché con quelli del Sud si lega meglio, e tra di loro fanno lega. Mamma non ha più l'età di zia, e ha il culone grasso. A volte glielo dico e lei mi dice che lo ha per colpa mia. Comunque, mi aiuta con Dongo, e più di tanto non dico.

Fattostà, mi magno la pasta di zia e accade qualcosa di taumaturgico. Man mano che ficco pasta in bocca, la mastico e la inghiotto, mi sento rigenerare. Quel sacchetto di chiodi arrugginiti che mi sembra di avere al posto delle gambe smette di farmi male. Anche le braccia smettono. Le vene nel sedere mi si sgonfiano di colpo. E la spina dorsale diventa... una soffice piuma dorsale. Eh! Sto proprio meglio. Magno e sto meglio. Mi alzo da tavola e quasi quasi non ho nemmeno bisogno di crollare nel letto e dormire come non ci fosse un domani - bella anche questa espressione usata in questo modo. Mollo il rutto più saporito che ricordi di aver mai mollato e la scoreggia più profumata di sempre, chiudo l'uscio e mi corico sul materasso.

Da quel dì, mi feci preparare sempre quel piatto da zia. Provai anche con altre ricette. La carbonara. Pesto e nero di seppia. Ma l'assassina, zia, sapeva farla a meraviglia. E aveva queste proprietà taumaturgiche. Cazzo, potevo distruggermi al lavoro, ma a casa l'assassina mi rigenerava. Di solito ne bastava un piatto, ma con due anche meglio. Mi veniva anche bello duro con le donne. In fabbrica potevo anche scaricare quattro camion (di norma, ce ne spettavano un paio: eh, porco zio, per non sovraccaricarci!) e incellofanare una ventina di bancali con il rotolo e magari, per sfizio, girare a raccogliere scatoloni e rumenta varia lasciata in giro e a casa mi bastava un'assassina per ricaricare le pile. Mi convinsi quei piatti di zia fossero magia. Che fossero pozioni, e zia ce l'aveva della strega. Sul comodino teneva pure un grimorio, per dire.

Finii naturalmente per farmi un tupperware e riempirlo di quella merda assassina. Di solito al lavoro non mangiavo un cazzo per non passare il tempo a tenere il buco del culo stretto mentre sfacchinavo gomito a gomito con gli altri; ma cambiai idea dopo il carburante magico di zia. I colleghi sfottevano un po' e io fui costretto a ingollarmi un paio di pastiglie al carbone, ma l'assassina mi faceva girare a mille. Una volta la feci provare pure a un collega e quello lavorò il doppio confermando la mia impressione. L'assassina era merda magica. Finiva anche meglio nello sciacquone.

"Come ti senti?" feci al mio collega.
"Un Ercole. Un Maciste"

Ed eravamo a fine turno. Non gli dissi della pastasciutta magica. E ovviamente, non lo dissi in quest'altra circostanza. Anche perché chi mi avrebbe creduto?

Un operaio alla guida di uno dei vari mostri di metallo all'interno del fabbricato mise sotto un ragazzino. Salim. Uno di quelli nuovi. Sì, quelli vecchi erano lì da quattro mesi e quelli nuovi da tre giorni. Molti ovviamente scappavano. Lavoro troppo massacrante. Non li si poteva certo accusare di brunettismo. Si è che Salim era lì da tre giorni. E Asa lo mise sotto e Salim ci restò secco. Corremmo a vedere. Salim era riverso sul pavimento, tra altissime corsie piene di bancali incellofanati. Cosa ci facesse non si sa. Era vietato muoversi tra quegli scaffali. Asa manovrava il retrattile e lo colpì di brutto. Il ragazzo aveva una parte del viso con un bozzo violaceo. Un colpo secco e ci era rimasto. Venne fuori un putiferio. Fortuna di Asa Salim non indossava tra l'altro l'equipaggiamento di sicurezza giusto. Bestemmie. Lagrime. Nel capannone lavoravano un mucchio di donne. Una scena tragica. E il rimbombo amplificava e moltiplicava quell'inferno sonoro. Come se fossimo in mille e non una cinquantina. Io ero disperato. Vita grama. Vita di cacca.

Che cosa cazzo ci facevamo in quel letamaio schifoso?! Che reati avevamo commesso? Critichiamo la criminalità organizzata... ma è il mondo del lavoro la principale alleata dei criminali. Droga. Prostituzione. Meglio delinquere se quello è il mondo del lavoro. Se si vuole dare una botta alla criminalità non serve la legalità: basta rendere il lavoro un posto più accogliente. Così farneticavo, piangendo, sì, piangendo. Pensavo a Dongo... Pensavo... E alla fine, nel delirio di quei momenti, corsi negli spogliatoi lerci di quella merda di capannone di cemento e tirai fuori dalla sacca il tupperware con dentro l'assassina di zia. Tornai da Salim, in un momento in cui tutti erano ovunque eccetto che a custodia di quel povero ragazzo, e mentre già sentivo le sirene dell'ambulanza, aprì il coperchio blu di plexiglass del contenitore, pigliai la forchetta adagiata sugli spaghetti, presi in bella forchettata e li infilai in bocca del ragazzo, mentre piangevo e dicevo: "Andiamo, vita di merda... Andiamo, vita grama... Andiamo, andiamo!".

Ficcai la forchetta in bocca al ragazzo, tra le labbra, facendo leva con la forchetta per aprirgli la dentiera, e la senti aprirsi e vidi la bocca risucchiare gli spaghetti, come se esalasse l'ultimo respiro, e Salim spalancò gli occhi masticando. Io gettai il tupperware a terra terrorizzato. Cosa avevo fatto? Cosa stava succedendo? Il ragazzo sbatteva gli occhi e masticava.

"Salim? Salim? Sei... vivo?"
"Che è successo? Come mai sono qui a terra?!"

Io sempre più terrorizzato (non so perché; ma questo è quello che provai) recuperai il tupperware e il coperchio blu e me la diedi a gambe mentre arrivavano i barellieri. Più tardi un collega nel ricostruire il miracolo di quel risveglio mi disse:

"L'unica cosa che non torna è la forchetta"
"Come?"
"Salim si è risvegliato con una forchetta in mano. Che ci faceva Salim con una forchetta in giro per il magazzino?"

Io non dissi nulla. Poi dissi: "Eh sì, roba da licenziarlo!"

Ridemmo.