Dal basso. Senza imposizioni dal vertice. Senza che un demiurgo o un soggetto dotato di potere influenzi, dia le direttive, plasmi ciò che avviene nell’organizzazione. Ecco, questi sono i sistemi che si coordinano da sé: concertisti senza direttore d’orchestra, musicisti in grado di produrre la migliore melodia o quanto meno la migliore melodia possibile date le forze a disposizione.

I sistemi che si autoorganizzano producono le regole di convivenza, sono sistemi in cui i singoli componenti sanno ciò che devono fare, qual è il proprio strumento e come si suona, qual è il ritmo sullo spartito della vita, quale il crescendo, quale il pianissimo e quale il forzando. In base all’intensità nella dinamica, in relazione alla posizione che tengono tutti gli altri suonatori nel golfo mistico.

Già, perché autoorganizzazione è anche consapevolezza dell’interessenza, coscienza del fatto che nessuno si salva da solo, comprensione delle dinamiche di interdipendenza che collegano te a me e a noi.

Nell’autoorganizzazione ogni essere umano parla in prima persona (usando l’io, singolare o plurale) ma, allo stesso tempo, ciascuno ascolta le prime persone altrui; al contempo ogni essere umano parla in seconda persona (usando il tu, singolare e plurale) e ascoltando sé stesso o sé stessa raccontato da altrui voce; nell’istante medesimo inoltre, ogni essere umano parla in terza persona (lei o lui, singolare o plurale) perché l’osservazione del contesto è fondamentale per capire dove andare, senza lasciarsi turbare dallo scarrocciare che i mari della vita qualche volta ti intimano, che tu lo voglia o no.

È così. Tutto è tremendamente complicato e tutto è fascinosamente complesso. Sono ordini che si compongono e ricompongono, stelle in fluttuazione nel cielo, galassie in espansione, come nei passi di danza che osservi la sera cercando online il tuo video preferito perché quel movimento possa attivare nuovi movimenti interiori.

Organizzare lavorando con energia

Come lo stormo di uccelli nel cielo. Ognuno sa dove andare e sa mantenere le distanze dall’uccello davanti e da quelli di lato. Sono voli imprevedibili, quelli degli stormi, fatti di variazioni improvvise, di assecondamenti ai soffi di vento, di morbide planate, di percorsi prolungati nell’azzurrità e di velocissimi battiti d’ali. Tutto è momento, istante, qui-e-ora e tutto è anche capacità di sopravvivenza nel lungo periodo.

Per rappresentare i sistemi autoorganizzati, la metafora che spesso si usa nelle narrazioni della complessità è proprio quella dello stormo di uccelli. O quella del branco di pesci che guizzano nel mare.

L’autoorganizzazione funziona, funziona eccome. È il frutto di regole non scritte e non dettate da qualcuno. Lo stormo non sai quale composizione assumerà tra dieci secondi e nemmeno tra cinque o fra tre. Ma sai che, se apparirà nel cielo un predatore, allora partirà il “si salvi chi può”, ogni assetto precedente sarà abbandonato, il fenomeno emergente avrà la meglio su tutto, sconvolgendo la precedente tranquillità. Autoorganizzare vuol dire, ovviamente, organizzare da sé, con costanza, senza fine, ogni giorno. Auto- è il primo elemento di molti composti con il significato di “da sé”, “fatto da sé”. Il nonno di questo elemento era il pronome autós “in persona”, “stesso’, “proprio lui, proprio lei”.

E anche il verbo organizzare ha origini nella Grecia classica. Significa dare una struttura ordinata a qualcosa, mettendo i varî elementi in connessione tra loro, sistemando per primo quel componente che viene prima e per secondo il successivo, così che ogni parte possa operare insieme all’altra per un fine.

In questo caso antenato del lemma, organizzare era il prestito latino orgănum, dal greco órganon, che voleva dire “strumento”, “arnese”, “utensile” e poi anche “organo del corpo” e “strumento musicale”. Parente di órganon è il sostantivo ancora una volta greco érgon che significava “lavoro”, “opera”, “faccenda”. La radice di queste parole la troviamo nell’energumeno, nell’energia, nella liturgia e anche nell’orgia.

Questa stessa radice antica, che ha preso le prime forme nel protoindoeuropeo, ha generato anche la parola inglese work¸ l’olandese werk, il tedesco Werk, il lavoro, il fare qualcosa, il produrre, l’agire. Che non è un agire dopo una pianificazione, dopo aver progettato tutti i singoli dettagli, dopo aver immaginato ogni mossa. No. Quel work, quell’érgon è simile all’appello alto rivolto agli spiriti umani “alzati e vai” innamorandosi della vita e dipingendone le strade con i colori più brillanti.

Quell’(auto)organizzare è un invito a rimboccarsi le maniche, a sporcarsi le mani, a modellare la creta che ci viene data in dono ogni giorno senza che ci venga consegnato il libretto delle istruzioni. È una chiamata al fare ciascuno per sé e in relazione con gli altri esseri umani, al generare, al rendere fertile, commettendo errori e cercando di rimediare al tornante successivo nella speranza di aver imparato almeno un po’ a gestire lo strumento.

Ordinare disponendo il modo opportuno i fili dell’ordito

Quando un sistema è autoorganizzato, è anche ordinato. Gli elementi sono collocati secondo una disposizione regolare, gli uni in connessione con gli altri, secondo un criterio organico che risponde a fini di praticità, di opportunità o di armonia. Tutte cose semplici. “Per mente tranquilla non intendo altro che una mente ben ordinata.”, ha scritto Marco Aurelio filosofo divenuto imperatore romano.

Ordinare, prestito dal latino ordināre, vuol dire “disporre in serie”, “regolare” ed è derivato di ordo -ĭnis, nel significato di “regola”, “disposizione”. Anche in questo caso, l’origine della parola è indoeuropea, comune alle lingue che si parlavano dalle coste dell’Atlantico alle rive del Gange.

Quell’ordo ha generato in italiano il coordinare, l’ordigno, l’ornamento. In epoca antica, si riferiva alla disposizione dei fili nella trama e appartiene alla famiglia lessicale del latino ordīri “disporre la trama di un tessuto”, da cui in italiano ordire e ordito. Risale, quindi, alla radice indoeuropea er-, ar-, con il significato di “adattare”, “articolare”, in inglese to fit together, agganciarsi, stare bene insieme, percepire il respiro comune, avere consapevolezza dell’abbraccio delle cose, avvertire la sensazione dell’interdipendenza che diventa interessenza.

Ecco, per ordinare bisogna avere contezza della trama e dell’ordito, è fondamentale conoscere i fili e saperli addugliare nel modo più opportuno, generando spire concentriche morbide e regolari, è indispensabile distinguere i colori, perché ogni tessuto è diverso, perché ogni stoffa ha il suo perché e anche il suo chissà.

Regolare seguendo le norme

Quando un sistema è autoorganizzato è anche regolato. È regolato da sé e per sé, secondo norme dell’agire del singolo e della comunità.

In latino, la rēgŭla era la “norma”, il “principio” come estensione semantica di un oggetto molto concreto, tangibile, materiale che era il regolo, l’asta, la sbarra con la quale si potevano prendere le misure.

Il sostantivo rēgŭla, a sua volta, era derivato del verbo regĕre, cioè “dirigere”, “guidare”, ma anche “governare”, “dominare”, “amministrare”, “comandare” e, inoltre, “stabilire”, “fissare”, “tracciare i confini”. Quando il sistema è regolato i confini sono tracciati, è chiaro cosa sta dentro e cosa sta fuori, ne è evidente la forma. “Le regole e i 'no' sono come dei paracarri ai lati di una strada; sono punti di riferimento, non debbono cambiare di posizione, non possono decidere di esserci o non esserci.”, ha sostenuto il saggista Paolo Crepet.

I sistemi complessi, però, sono dinamici, sono in evoluzione, sono vivi e, quindi, i confini che poco fa reggevano tra un po’ non saranno più idonei a rappresentare la realtà. Non significa che non esistessero in passato, non significa quei confini che non fossero solidi, non significa che non fossero adatti al momento. Rileggere l’inizio avendo nelle retine l’immagine della fine e retrodatando i fenomeni può apparire medicamentoso ma impedisce di comprendere la possibilità della metamorfosi, l’impellenza della variazione, l’istanza del cambiamento che è parte stessa della vita.

La regola è guida nel flusso dell’esistenza.

Orchestrare danzando all’alba sulla spiaggia della vita

Quando un sistema è autoorganizzato, è anche ben orchestrato. Orchēstra in latino, orkhḗstra in greco antico indicava lo spazio riservato ai danzatori nel teatro greco. Il sostantivo deriva dal verbo greco orkhéomai, che voleva dire “danzare”, “ballare”, “muovere il corpo” al ritmo della musica della vita. Quando un sistema complesso è orchestrato, possiamo osservare i corpi che si muovono in armonia tra loro, mettendo insieme le diversità dei gesti, unendo le componenti di chi è professionista e di chi si sperimenta con passione nel movimento, nel movimento bello.

Un grande direttore d’orchestra, l’austriaco Herbert von Karajan, ha detto: “Un'orchestra, se sta funzionando nel migliore dei modi, è un'unità creativa. Un gruppo di uomini e donne arrivano al punto di ri-creare insieme qualcosa che è bello”. Qualcosa che è bello.

E, cercando ancora un po’ le connessioni tra le parole scopriamo che quel verbo orkhéomai, che attiene al ballo, è collegato a sua volta con un altro verbo órnumi, che ci apre la mente a nuove intuizioni. Il suo significato è “far andare”, “far alzare”, “mettere in movimento”, significa anche “svegliare” ed “eccitare”. Ecco, quando balliamo entriamo in uno stato di eccitazione, quando orchestriamo qualcosa ci destiamo, spingiamo verso il nuovo, generiamo balzando su, sorgiamo. Sì, sorgiamo.

In latino, il verbo orīri voleva dire, appunto, “sorgere”, “spuntare” e, in italiano, ha generato il sostantivo oriente, il punto cardinale corrispondente alla direzione dalla quale sorge il sole, e il sostantivo origine, cioè il “principio”, la “nascita”, la “provenienza”.

Concertare con suoni ben distinti

Quando un sistema è autoorganizzato è anche concertato, con i musicisti che conoscono le partiture a memoria senza doverle leggere sullo spartito.

In latino, concertāre non aveva a che fare con la musica ma con le gare, con le competizioni, con le contese. Dal significato originario di “gareggiare”, concertāre ha iniziato a voler dire “organizzare”, derivando a sua volta dal verbo certāre, cioè “lottare”, “combattere”, da cui il sostantivo italiano certame, ovvero “combattimento”. E quel certāre è una forma intensiva. di cernĕre, che voleva dire “separare”, “distinguere”, “scegliere”, con il prefisso co(n)-.

Un sistema complesso in cui si ascolta la musica di un concerto perché ogni componente dell’orchestra conosce il suo compito è, quindi, un sistema in cui si è imparato a distinguere, a dire questo sì questo no, a separare un elemento da un altro, a scegliere, a separare il grano dal loglio.

Allestire con il peso della zavorra

Quando un sistema è autoorganizzato, è anche allestito per bene. Allestire vuol dire preparare, organizzare tutti gli elementi, approntare le parti. Questo verbo è un prestito germanico per il tramite di altre lingue. Deriva dal francese lester con il significato di “caricare”, “munire”, derivato a sua volta da lest, “zavorra”, da una lingua germanica, probabilmente l’olandese e va confrontato con il tedesco Last, “carico”, con l’aggiunta del prefisso a(d)-. Allestire per bene vuol dire farsi carico, sopportare il peso della zavorra, caricarlo sulle spalle, finché si può.