Abbiamo intervistato una delle artiste italiane più interessanti nella scena artistica italiana e internazionale. Grazie al suo approccio colto al proprio tempo e alla ricerca artistica originaria e delicata è stata recentemente premiata: come il Primo Premio per Smartup Optima - Premio di Arte Contemporanea e il Primo Premio per la Fotografia, Photography Award Annamaria e Antonio Maccaferri, ad Artefiera. Virginia Zanetti ci ha raccontato il suo pensiero sul sistema dell’arte italiano attuale, sulla critica, sull’arte e ci ha svelato qualcosa in più sulla sua poetica e sui suoi prossimi progetti.

Nel giro di pochissimo tempo hai vinto due premi tra i quali: il Primo Premio per Smartup Optima - Premio di Arte Contemporanea e il Primo Premio per la Fotografia, Photography Award Annamaria e Antonio Maccaferri, Artefiera 2019. Che ruolo hanno secondo te i premi nell’attuale sistema dell’arte contemporanea?

Il sistema dell’arte contemporanea in Italia è molto debole per quanto riguarda il sostegno agli artisti: per esempio, nel sistema educativo mancano borse di studio specifiche e PhD; per quanto riguarda il sostegno alla mobilità non ci sono istituzioni pubbliche che se ne occupano appositamente, rappresentando o finanziando l’artista all’estero e in generale l’artista non ha un ruolo sociale, economico etc.

Quindi in questo deserto, i premi sono come oasi che dissetano quegli agli artisti italiani che hanno deciso di non emigrare e “resistono” in Italia con le proprie forze. Il punto è che questi premi andrebbero sistematizzati, ampliati e migliorati. Comunque, qualcosa è cambiato negli ultimi anni, dopo i lavori del Forum dell’Arte Contemporanea Italiana avviato al Centro per l’Arte Luigi Pecci di Prato nell’ottobre del 2015, il cui ultimo appuntamento è stato al Museo MAMbo di Bologna, per esempio è stato istituito l’Italian Council dal MIBACT, ma c’è ancora molto da fare.

Ci racconti qualcosa che non è mai stato detto sui due lavori vincitori? Mi riferisco alla scultura Infinito/Due ma non due e alla fotografia I pilastri della terra.

Il lavoro Infinito/Due ma non due è nato da una serie di incontri e coincidenze. Nel dicembre del 2011 avevo partecipato ad una mostra intitolata Souk curata da Pier Luigi Tazzi al Centro per l’Arte Contemporanea Ex 3 di Firenze, il quale richiedeva la nostra presenza come “venditori” della nostra arte. In quell’occasione realizzai un lavoro intitolato ChiAMAMI col il mio numero di telefono privato, con cui garantivo la mia presenza attraverso il mio smartphone, aprendo una riflessione sull’estensione dell’io e altre questioni legate al lavoro dell’artista e alla questione di genere.

Fu dopo quell’occasione che mi chiamò l’artista Remo Salvadori; stavo camminando al parco e simultaneamente trovai due cerchi di vetro sovrapposti appoggiati a un cassonetto e subito dopo un hula hoop vicino a un albero. Pensai che fossero una simpatica coincidenza da mettere in relazione al suo lavoro Continuo Infinito Presente, così, dal quel dialogo sono nati due nuovi lavori per una mostra personale che stavo preparando, nella quale indagavo il principio di interdipendenza tra l’individuo e l’ambiente e il funzionamento dell’esistenza. Attraverso una performance ho “dato movimento” al lavoro di Remo, facendo ruotare l’hula hoop intorno al corpo umano, utilizzando lo stesso titolo del suo lavoro ambientale del suo intreccio metallico in tangenza con l’albero. L’hula hoop, per non cadere deve restare in movimento e in tangenza, l’essere umano non riesce a stare al centro, non comprende mai completamente il segreto dell’esistenza. Dal diametro dell’hula hoop ho poi sviluppato l’idea dei due cerchi in vetro trovati sovrapposti: due ma non due, insieme creano un unico simbolo dell’infinito, appoggiati a terra e alla parete vengono attraversati e attraversano lo spazio in un gioco continuo di riflessi e compenetrazioni, diventando metafora del principio giapponese esho funi di non separazione dell’individuo e del suo ambiente, inteso anche come ambiente sociale.

Per quanto riguarda il lavoro de I Pilastri della Terra, credo che oltre alle suggestioni prese dal Sutra del Loto buddista, abbia contribuito la mia biografia personale, perché mio nonno Luigi Zanetti, era un atleta olimpico che vinse le Olimpiadi nel 1948 e che dedicò tutta la sua vita alla ginnastica artistica, e fu maestro di Yuri Chechi. Nella mia memoria ci sono le immagini delle sue fotografie e dei suoi ritratti nelle meravigliose figure eseguite durante le gare sportive, in cui sfida la forza di gravità come i bodhisattva della terra, conosciuti attraverso le iconografie induiste e buddiste fin da piccola per i numerosi viaggi di mio padre in Oriente. Per realizzare la performance e il relativo scatto fotografico a Prato, per la mostra La fine del Mondo, a cura di Fabio Cavallucci, ho coinvolto ragazzi e ragazze della società sportiva Etruria, adesso in grave difficoltà economica, allora una delle migliori società sportive, per la quale mio nonno lasciò Padova nel dopoguerra.

Sei stata, pochi giorni fa, presente a The Phair di Torino. Cosa pensi generalmente delle fiere d’arte? Italiane e non.

Le fiere sono indubbiamente una componente importante dell’arte, parte integrante della promozione e sostegno agli artisti, ma a dire la verità non sono una grande esperta di fiere; fin’ora avevo sempre lavorato molto più con le istituzioni pubbliche o private per la cultura e l’arte contemporanea che con le gallerie private, essendo il mio un lavoro che si sviluppa principalmente nello spazio pubblico, attraverso esperienze, con molteplici livelli di significato. Poi la scorsa primavera c’è stato l’incontro con Roberto Ratti, direttore artistico della galleria Traffic Gallery e conseguentemente l’inizio della collaborazione ricca di dialogo e comprensione della natura del mio lavoro.

Artefiera a Bologna 2019 è stata la mia prima fiera con una galleria (avevo fatto fiere solo con spazi indipendenti) e a quanto pare è stata una fiera fortunata. The Phair, neonata fiera con gallerie selezionate su invito, sembra promettere molto bene, ma ero presente solo con il mio lavoro Abissi in una doppia mostra personale con Cosimo Terlizzi, perché attualmente mi trovo in Portogallo. Quindi anche questa fiera me la vedrò attraverso l’eco delle notizie della galleria e dei media.

Ci parli un po’ della tua mostra Concettuale Romantico alla Traffic Gallery di Bergamo, e che sarà visitabile fino al 18 maggio? Il titolo è molto, molto interessante…

Mi fa molto piacere che tu me lo dica perché la mia preoccupazione era che il titolo della mostra fosse da una parte come un’autoproclamazione pretenziosa, dall’altro una classificazione limitante, visto che il mio lavoro si muove continuamente tra le categorie, utilizzandole, ribaltandole e sfuggendole. Il titolo è stato proposto da Roberto Ratti, citando la mia risposta alla sua domanda su che tipo di artista fossi, quando ci conoscemmo. Risposi un po’ ironicamente “concettuale romantica”, mettendomi in relazione alla ricerca degli artisti presenti nella pubblicazione Romantic Conceptualism che include le opere di alcuni artisti internazionali di diverse generazioni che col loro lavoro testimoniano il fatto che la riflessione sul Romanticismo non è solo un aspetto trascurabile, minore del Concettuale, ma centrale per esso.

Nella mostra ci sono opere video, fotografiche e un tessuto ricamato, come testimonianze delle mie tre esperienze fatte tra il 2015 e il 2018: il lavoro Abissi, realizzato per Bordercrossing, a cura di Spazio Y, tra gli eventi collaterali della scorsa Manifesta 12 di Palermo; I Pilastri della Terra, realizzato in varie parti del mondo, iniziato con il sostegno della vincita del Movin’up in India, nel 2015; Oiseaux Rebelle/Dans le flux, performance nella quale ho fatto suonare la Carmen di Bizet, da un’orchestra nel fiume Bisenzio a Prato, realizzato per la Biennale di Monza; l’opera video ha vinto il Premio della stessa nel 2015 ed è stato acquisito dalla Collezione dei Musei Civici di Monza.

Che ruolo ha, secondo te, l’arte contemporanea oggi?

L’arte contemporanea, quando dialoga concretamente con le altre discipline, dal mio punto di vista personale (quello di un’artista), è il miglior modo con cui leggere, comunicare godere del mondo.

Da un punto di vista storico ha il ruolo che sempre ha avuto: ciclicamente quello di anticipare, attraverso visioni, il futuro e di vedere oltre, di intercettare i cambiamenti e talvolta farne parte, poi ripetere la maniera per poi rinnovarsi.

Chiaramente in tutto il magma di arte, sarà solo la prospettiva storica a discernere chi ha davvero avuto un ruolo sociale di aver saputo captare lo spirito del tempo e di aver interpretato l’inconscio collettivo, di esser riuscito a captare le energie storiche ed essere stato precursore di tendenze e accadimenti dell’essere umano e del destino del cosmo attraverso nuove iconografie.

E la critica?

La critica ha un ruolo fondamentale ma il problema è che almeno in Italia non c’è, o almeno è debole, dovrebbe riprendersi il ruolo che le compete. Manca un pensiero critico e un dialogo profondo con gli artisti; ho affrontato questa tematica dal 2011 con il mio lavoro Curare il curatore, (ancora in progress, come la maggior parte dei miei cicli di ricerca che non hanno mai una fine ma un movimento circolare).

Iniziato con una indagine del rapporto di interdipendenza artista curatore attraverso un archivio fotografico, mostre, tavole rotonde e un testo polifonico in cui artisti e curatori parlano della coppia in questione in modo personale e collettivo e del ruolo della critica. Il lavoro è conosciuto principalmente per i miei ritratti ad acquerello dei curatori pubblicati nella versione italiana del libro Breve storia della curatela di Hans Ulrich Obrist.

Cosa ti è piaciuto maggiormente, e cosa invece, non ti è piaciuto per niente in ambito artistico (penso a esposizioni, biennali, fiere, etc..) recentemente?

L’ultimo luogo visitato è Fundação de Serralves – Museu de Arte Contemporânea di Porto, in Portogallo, dove ho visto tre mostre personali di tre artiste molto diverse tra loro: Joana Vasconcelos, Tacita Dean e Susan Hiller.

Mi è piaciuta molto l’installazione di Susan Hiller, nella sua pratica artistica, combina il patrimonio di arte concettuale e sistemi alternativi di conoscenza e cosmogonie (ad esempio, rituali mistici, fenomeni paranormali e forze soprannaturali). La sua installazione interattiva Die Gedanken sind frei (Pensieri gratuiti), originariamente presentata a Documenta 13 nel 2012, è una delle sue opere più impressionanti ed è entrata nella collezione della Fondazione Serralves nel 2013.

Usando un jukebox e sedendosi sui sedili disegnati dall'artista, il pubblico può ascoltare - in qualunque ordine scelga - 100 canzoni con contenuto politico, raccolte da Susan Hiller. Le canzoni provengono da diverse parti del mondo e culture, che vanno dalla Guerra dei contadini 1524-25 in Germania alla Primavera araba del 2011. I testi delle canzoni possono essere trovati sulle pareti attorno al jukebox e gli spettatori hanno anche accesso a un songbook selezionato dall'artista che compila i testi e le immagini delle canzoni.

Non ti dirò invece ciò che non mi è piaciuto, perché non lo trovo corretto nei confronti dei miei colleghi da una parte, dall’altra perché, usando una metafora culinaria, talvolta serve tempo per digerire l’arte e metabolizzarla, quindi, cose che non parlano in un primo momento, possono tornare a distanza di anni sotto un altro senso e colpire. Penso che l’arte sia un insieme di ingredienti che funzionano: basta aggiungere un po’ di più al tutto e si rischia di fare un pasticcio, annoiare o lasciare indifferenza e stanchezza.

Puoi darci una piccola anticipazione sui tuoi progetti futuri?

Ti parlo del futuro prossimo: adesso sto facendo una residenza artistica propostami da Latitudo - Art Projects e organizzata da Ideias Emergentes a Guimarães, in Portogallo, per un progetto di ricerca che è parte della piattaforma europea Magic Carpets; qui il 16 maggio realizzerò una nuova perfomance collettiva, dal titolo Para onde estamos indo?, che indaga le memorie personali e collettive in relazione al tessile. Con la comunità locale ci recheremo nel punto più alto da cui si possa vedere la città e insieme faremo un’azione corale, esito di laboratori e ricerche precedenti.

Il 19 maggio inaugurerà a Prato la mostra collettiva Where to Now?, nello studio e spazio di ricerca Estuario Project Space, in collaborazione con il Comune e Officina Giovani, complesso culturale di cui lo spazio è parte. Estuario è un collettivo fondato insieme ad altri tre artisti, tre curatori e una grafica d’arte.

Il 6 giugno realizzerò la performance collettiva I Pilastri della Terra a Sabbiuno, Bologna, in corrispondenza del sacrario ai caduti della Resistenza partigiana, in collaborazione con Adiacenze, associazioni sportive, e istituzioni scolastiche del territorio come l’Istituto tecnico Salvemini di Casalecchio di Reno.

Agli artisti, la maggior parte delle volte, mi piace chiedere come domanda conclusiva: “Se chiudi gli occhi, cosa vedi”?

All’inizio tutto nero, però poi vedo una luce bianca.