In questi tempi di ricerca interiore e crescita personale, si fa spesso ricorso al concetto di consapevolezza che è alla base di tutti i processi di trasformazione individuale.

Oggi vorrei occuparmi di quattro principi per la trasformazione personale, che vengono insegnati in molti ritiri di consapevolezza occidentali, e che sono riuniti nell’acronimo “RAIN” Riconoscimento, Accettazione, Investigazione e Non identificazione.

Mi piace molto la lettura che i poeti zen danno della pioggia (in inglese, appunto, rain) che, cadendo uniforme sulle cose, dona nutrimento così come i principi interiori di questo acronimo di consapevolezza, ci aiutano a trasformare le nostre difficoltà.

Vediamo quindi da vicino in cosa consistono questi principi della trasformazione.

Il primo, il riconoscimento, ha a che fare con la nostra capacità di vedere le cose come stanno, con chiarezza, senza edulcorarle o distorcerle. Spesso nella vita capita che si vivano situazioni o momenti di difficoltà, che ci si senta bloccati e incapaci di intraprendere la nostra strada, senza realmente rendercene conto. Il riconoscimento ci fa uscire dalla negazione che mina alla base la nostra libertà e ci fa andare in direzione del cambiamento desiderato e che si rivela necessario per aprirci a nuove opportunità di espressione. Il dirigente stressato che nega quanto il suo stile di vita gli costi, non è libero, come non lo è una società che nega le sue sacche di povertà e ingiustizia. Soffriamo se neghiamo la nostra insoddisfazione, la nostra rabbia, il nostro dolore.

Ogni volta che riconosciamo ciò che è per quello che è, si genera in noi una potente apertura, un vuoto fertile capace di accogliere nuovi sviluppi e di aprirci a una nuova qualità dell’essere. L’emergere della comprensione, dell’amore e dell’intelligenza si verifica del tutto autonomamente quando un individuo si mette in discussione, si pone domande, ascolta e osserva senza lasciarsi bloccare dalla sua paura. Quando una persona si acquieta e sospende la preoccupazione per se stessa, gli si aprono il cielo e la terra e spesso le diviene accessibile una consapevolezza immediata, intuitiva, che non passa per le concettualizzazioni intellettuali. Il riconoscimento fa della consapevolezza un ospite onorato. Grazie a lui, diamo un nome all’esperienza e ci spostiamo dall’illusione e dall’ignoranza, verso la libertà.

Il secondo principio è l’accettazione, che vorrei fosse chiaro fin da subito che non ha niente a che fare con la passività. L’accettazione è un moto di disponibilità del cuore a includere qualunque cosa ci si trovi davanti. A livello personale, significa partire dalla propria sofferenza personale, a livello di società significa avere a che fare con la sofferenza collettiva, con i soprusi, le ingiustizie, le discriminazioni, l’avidità. Vedere tutto, non negare niente. Possiamo trasformare il mondo man mano che impariamo a trasformare noi stessi: la via d’uscita è dentro, non fuori e ce lo ricorda Jung quando scrive: “Forse anche io stesso sono un nemico da amare”.

Con accettazione e rispetto, spesso i problemi che sembravano insolubili diventano gestibili, portando a trasformazioni sorprendenti. Ancora una volta il mondo dei vegetali ci offre importanti opportunità di crescita e comprensione. Basta osservare l’agrifoglio, che nasce pieno di foglie coriacee e piene di aculei, e che, crescendo, arrotonda pian piano le foglie mostrando una minore necessità di “offendere e attaccare” e una accresciuta capacità di stare con quello che c’è, diventando più morbido, arrotondandosi. È come se la Natura ci stesse dicendo che, evolvendo, questa pianta acquista una maggiore capacità di accettare e accogliere, rinunciando a lottare con l’ambiente, in favore di una maggiore adattabilità.

Con il terzo principio, l’investigazione, ci avviciniamo a ciò che il maestro zen Thich Nhat Hanh chiama visione profonda. Si tratta della capacità, tutta da coltivare e da scoprire in noi, di andare a fondo nella nostra esperienza che ha 4 fondamenti: il corpo, le sensazioni, la mente e il dharma. Quando siamo preda della rabbia, ad esempio, e sentiamo che dentro è tutto un “ribollire”, la prima cosa da fare è comprendere cosa ci accade nel corpo. Riusciamo a localizzare la zona che “contiene” quella difficoltà? A volte si compone di calore, rigidità, contrattura, senso di soffocamento o vibrazione. Ecco, la prima cosa da fare, è familiarizzare con questo susseguirsi di sensazioni, soffermandoci a osservare come cambiano e come si manifestano, silenziando così il monologo interiore che allontana e sposta dalla consapevolezza. Una volta agganciata la sensazione nel corpo, è necessario andare incontro al tono emotivo che accompagna l’esperienza. Vi accediamo con consapevolezza? Ci sono altre sensazioni associate? Con la consapevolezza si può riconoscere e accettare ogni situazione. Notiamo in che zona del corpo sentiamo l’emozione e che cosa succede quando la circondiamo di consapevolezza.

In seguito osserviamo la mente, e ci chiediamo quali pensieri e quali immagini noi associamo a questa esperienza. Prendiamo consapevolezza di tutte le storie, i giudizi e le convinzioni che ci teniamo dentro; osservando meglio, spesso scopriamo che alcuni di essi sono punti di vista fissi e unilaterali, punti di vista ormai superati. Ci rendiamo conto che sono solo storie: con la consapevolezza allentiamo la presa che hanno su di noi e riusciamo a lasciare andare.

Infine incontriamo il dharma, che ha molte sfaccettature ma che in questo caso può significare gli elementi e gli schemi che concorrono a formare la nostra esperienza e possiamo iniziare a chiederci se l’esperienza è davvero solida come ci appare. È immutabile, oppure si sposta, cambia, è impermanente? È sotto il nostro controllo o sembra vivere di vita propria? Notiamo se è auto-costruita, cerchiamo di capire se ci stiamo attaccando a essa, se le opponiamo resistenza o lasciamo semplicemente che sia quella che è e notiamo fino a che punto ci identifichiamo ad essa, il che ci riporta a RAIN e al principio di non identificazione.

Non identificazione significa smettere di scambiare l’esperienza per “io” o “mio” e renderci conto che la nostra identificazione genera sofferenza, anzi, insincerità. Praticando la non identificazione in ogni stato, ci alleniamo a chiederci: “È questo ciò che sono io realmente?” Ci rendiamo conto di quanto provvisoria sia quell’identità e siamo liberi di lasciare andare. Così facendo abbiamo raggiunto il punto culminante del processo di sciogliere le difficoltà con il processo RAIN e siamo pronti per aprirci a una nuova spaziosità e qualità dell’essere.

La crescita personale procede delicata e incessante, come una pioggia primaverile, e porta conforto e nutrimento ai semi di ricerca interiore che abbiamo coltivato, poco per volta, passo dopo passo, con fiducia.