Ippocrate ha detto: «È molto più importante conoscere il paziente che ha la malattia, che non la malattia che ha il paziente». Questo semplice principio, espresso con altrettanta semplicità da uno dei medici più illustri dell'antichità, non poteva sintetizzare meglio quello in cui credo, con l'unica differenza che per me non sono «pazienti», ma semplicemente persone.

Il mio lavoro, il mio modo di prendermi cura di coloro che incontro in Day Hospital consiste appunto in questo, nel «conoscere la persona».

Durante i colloqui individuali cerco di rimpolpare l'astrazione di una diagnosi con l'esperienza unica e irripetibile che fa di quella donna o di quell'uomo proprio quella donna, proprio quell'uomo. Se i sintomi servono allo psichiatra per riconoscere un disturbo e stilare una diagnosi, a me servono per «riconoscere l'umanità» e per farne venire a galla la sua essenza.

Già Lacan1 considerava il sintomo in modo originale, ovvero non come un deficit rispetto a un funzionamento normale, ma come uno strumento per ottenere dei vantaggi e dei benefici. Per esempio, chi mette in atto un rituale ossessivo compulsivo - chi si lava le mani venti o trenta volte al giorno, o chi controlla spasmodicamente d'aver chiuso il rubinetto del gas - può in questo modo tenere a bada l'ansia che lo affligge. Secondo la stessa interpretazione, una donna anoressica può utilizzare la sua magrezza per evitare il rapporto problematico con l’altro sesso, e così via.

Raccogliendo l'eredità lacaniana, e procedendo oltre, si può interpretare il sintomo non solo come un espediente per tutelarsi dal disturbo psichico, ma come la più originale forma espressiva di sé. Molti artisti - scrittori, pittori, musicisti, ecc. - hanno creato le loro opere e contraddistinto il loro regno espressivo con quelli che la psichiatria non esiterebbe ad archiviare come sintomi nevrotici o psicotici. Per esempio, lo stile pittorico e le vicende esistenziali di van Gogh sono apparsi ai suoi contemporanei nulla più che sintomi di un malato di mente. L'uso della sua tavolozza è stato denigrato come il delirio cromatico di un pazzo; le forme distorte e l'assenza di prospettiva come insufficiente padronanza del mezzo pittorico, esattamente come per la psicologia freudiana il sintomo è un'espressione deficitaria rispetto al comportamento normale. Lacan avrebbe detto che van Gogh ebbe modo di tutelarsi e distanziarsi dalla sua follia grazie all'attività pittorica, ma è evidente che a van Gogh non interessasse tanto il tutelarsi quanto l'esprimersi attraverso la sua cosiddetta follia, cui finalmente è stato riconosciuto il valore di arte.

Salvador Dalì, un celebre pittore surrealista del secolo scorso, in un’intervista dichiara la sua predilezione per un paio di scarpe di due numeri in meno, che gli calzano strettissime. Ama indossarle soprattutto durante le conferenze, perché pare che il dolore ai piedi gli provochi una certa sottile gioia e gli accenda l’immaginazione. Secondi i canoni della psicopatologia, un comportamento del genere verrebbe liquidato come nevrotico e masochistico, ma se l’individuo che lo mette in atto è un artista conclamato, lo stesso evento appare soltanto bizzarro, finanche geniale.

In un'intervista, lo scrittore Allen Ginsberg ha chiesto al suo collega William Burroughs: «Che cos'è la morte?», e quello gli ha risposto: «Un raggiro. È il raggiro del tempo della nascita e della morte. Non può andare avanti ancora a lungo, troppa gente se ne sta rendendo conto». Se non si trattasse di uno scrittore famoso, di un artista consapevole di sé, queste stesse affermazioni verrebbero etichettate come quelle di un paranoide in preda a manie di complottismo. Non è un caso che lo stesso Burroughs, in un’altra citazione, affronti proprio la questione della follia con semplice e granitica autorevolezza, sostenendo che «lo psicotico è uno che ha scoperto come vanno le cose». Se un'affermazione del genere l'avesse rilasciata una persona qualsiasi, l'avremmo accolta con circospezione, pronti a sospettare un delirio di grandezza. Tuttavia, siccome siamo di fronte alle parole di uno scrittore autorevole, di un artista, siamo disposti non solo ad accettarne il contenuto, ma persino a compiacercene.

Però la frase rimane la stessa. Qual è dunque la verità? È vero che lo psicotico è uno che ha scoperto come vanno le cose, come Burroughs afferma in maniera molto seducente? Oppure si tratta di una frase a effetto, frutto della mania di onnipotenza che, secondo la diagnostica psichiatrica, potrebbe benissimo essere ascritta allo stesso Burroughs?

Sono vere entrambe, ed entrambe sono false, perché non è da lì – non è da questo genere di domanda – che può discendere la giusta risposta alla questione.

Non mi interessa richiamare ancora una volta alla mente dei lettori il labile e sfumato confine tra arte e follia, come più volte è stato teorizzato da psicologi e filosofi – celebre a questo riguardo l'affascinante studio dello psichiatra-filosofo Karl Jaspers, intitolato Genio e follia – ma piuttosto evidenziare un altro punto, meno romantico, e cioè che lo stesso identico gesto è suscettibile di essere considerato espressione artistica piuttosto che l'atto di un folle a seconda del potere di chi lo compie e del contesto in cui viene compiuto. Lo stesso identico gesto può essere designato ed archiviato entro la categoria «Arte» o «Follia» dipendentemente dal potere, dall'influenza economica, dall'autorevolezza e dalla rispettabilità sociale di chi lo compie.

Il che, in parole povere, equivale a dire che soltanto chi gode di un certo margine di potere (ricchezza, influenza sociale, politica, ecc.) può permettersi di esercitare azioni e pensieri irrazionali sotto l'egida dell'arte, della religione o, come avvenne in passato e continua ad avvenire, del culto personale. Nerone poté dar libero corso a un capriccio privato, quello di incendiare e vedere bruciare l'intera città, soltanto per lenire la sua malinconica apatia. Certi poveri miserabili, invece, se presi di mira, devono stare attenti a come si comportano in società, perché anche la loro più piccola eccentricità basterebbe a farli dichiarare malati mentali, o pericolosi per la collettività.

E allora qual è, in questi casi, il discrimine tra sanità e insanità mentale? Nessuno. L'unico vero, reale, crudo discrimine è determinato dal potere, che ritaglia una minoranza di uomini, i quali possono permettersi il lusso e la gestione dell'irrazionalità, e la maggioranza della popolazione cui tocca osservare le leggi, i precetti, le consuetudini comportamentali e le convenzioni sociali. Alla base di questo discrimine c'è una sorta di sacralità e intoccabilità politica dell'elemento ludico, dell'irrazionale, dell'afflato spirituale, riservata a chi detiene una sorta di potere, sia questo sociale, ecclesiastico, economico, mediatico, ecc. Basti pensare alla liquidità prevista dalla legislazione stessa con cui un reato penale che prevede la reclusione può agevolmente scivolare nel civile ed essere liquidato con il pagamento di un'ammenda, di una multa. Questa permutabilità non soltanto tradisce un'assenza di etica che la dice lunga sulla natura ludica e puramente convenzionale dell'origine del diritto, delle leggi e dei loro codici d'osservanza, ma non fa neppure mistero sulla corruzione del doppio binario della «penalità» che permette soltanto a chi dispone del sufficiente potere finanziario di comprarsi la pena meno incresciosa, meno compromettente per la reputazione personale. Lo Stato, nell'accezione qui presente di Diritto, di Legalità organizzata, lucra sugli errori dei suoi cittadini, riservando l'onta della reclusione ai meno abbienti. Che maestri della giurisprudenza! È intollerabile, e non riesco a credere che tutto questo possa ancora continuare a sussistere.

Adolf Hitler aveva meno disturbi psichici di Vincent van Gogh? Se si esaminano i documenti che meglio di altri raccolgono le loro più intime riflessioni e testimonianze - il Mein Kampf di Hitler e le lettere al fratello Theo di Vincent van Gogh – risulta chiaro che van Gogh, nonostante le sofferenze psichiche e fisiche, non smarrì mai il senso della realtà e in qualche modo riuscì a mantenere a galla la consapevolezza di sé. Certo, queste affermazioni potrebbero stupire chi non conosce a fondo la vita e le vicissitudini del pittore, di cui saltano all'occhio soprattutto i gesti più estremi, spesso riportati «nudi e crudi» e slacciati dal contesto in cui sono sorti, per romanzare e rendere più commercialmente appetibile la sua biografia. Ma se si conoscono appena più da vicino le miserie, gli stenti e le fatiche cui van Gogh dovette far fronte nella sua quotidianità, prima ancora che come artista, non ci si stupirà affatto di un paio di gesti sconsiderati attuati nella più buia disperazione, in cui peraltro l'aggressività del pover'uomo proruppe soltanto contro di sé. Van Gogh, che in vita fu considerato pazzo e che ora è stato riabilitato a uno dei più eccellenti artisti della modernità. Van Gogh, che in vita dovette implorare il fratello Theo per avere qualche spicciolo in più, morto in miseria, le cui opere ora vengono battute all'asta per milioni di dollari. Ebbene, da quelle lettere al fratello non emerge la figura di un «pazzo», ma anzi quella di un uomo straordinariamente orgoglioso e consapevole di sé, nonostante l'indigenza e le sventure della sua vita. Eppure nessuno lo riconobbe, nessuno lo amò, ben pochi – troppo pochi - lo stimarono. Van Gogh lottò fino alla fine, ma per i suoi contemporanei non significò nulla, non valse nulla, un nulla cui dovette soccombere.

Adolf Hitler scrisse un saggio autobiografico che originariamente avrebbe voluto intitolare Quattro anni e mezzo di lotta contro menzogna, stupidità e codardia, ma che in seguito venne persuaso a sintetizzare in Mein Kampf, semplicemente la mia lotta, o la mia battaglia. In questo saggio Hitler rivela il suo odio per ciò che riteneva fossero i due estremi mali del mondo, ovvero comunismo ed ebraismo. Ma, al di là degli argomenti che tutti conoscono, ciò che mi interessa far emergere è che fino all'ascesa al potere di Hitler, avvenuta nel gennaio del 1933, furono vendute 241.000 copie del Mein kampf; nello stesso anno si raggiunse la cifra del milione che, però, non includeva ancora quelle cedute a titolo gratuito dallo stato nazista ai soldati al fronte e a ogni nuova coppia di sposi. Un successo enorme. Una fama eccelsa. Uno dei più grandi best-seller della storia.

Eppure, tutta «l'opera» di Hitler, dalla stesura del suo saggio autobiografico alle sue azioni politiche, non può non apparire se non come uno di quelli che la psicopatologia chiama «deliri razionali», ovvero uno di quei discorsi che all'apparenza filano lisci e risultano persino accattivanti, ma che in verità poggiano su un cumulo di credenze aberranti e disumane. L'esatto contrario rispetto all'accoglienza che fu destinata all'opera di van Gogh. Due «storie della ricezione» totalmente opposte e complementari. Non ho portato avanti questo confronto per giudicare i contemporanei di van Gogh, che non furono in grado di apprezzarne il valore, né per condannare la nazione tedesca che non riconobbe la pericolosità del suo capo, che stava catalizzando la follia di un'intera epoca.

Quel che voglio dire è che spesso la sofferenza e la miseria personali vengono spacciate per follia, quando invece sono il risultato degli estenuanti sforzi per la sopravvivenza individuale. Al contrario, può accadere che i veri pazzi – in realtà piuttosto rari – siano dotati di caratteristiche e qualità che gli permettono di mimetizzarsi e sintonizzarsi alla perfezione con la «follia sociale», al punto da riuscire a procacciarsi un'enorme influenza e un vastissimo potere. E, si sa, una volta raggiunto il potere, anche il gesto più disumano viene convalidato, e la condotta più folle, ammantata di autorevolezza, diviene esemplare.

Ognuno cerca di integrarsi alla realtà, pur salvaguardando il proprio carattere individuale. E in questa continua dialettica tra integrazione e identità, la quale può generare tensione e tradursi in una vera e propria lotta, esistono diversi fattori cui l'individuo può andare incontro, da una parte le componenti di rinforzo (riconoscimento del ruolo, successo sociale) e dall'altra le componenti di inibizione (emarginazione, mancato riconoscimento, stigmatizzazione). Così, se una disposizione caratteriale patologica riesce a trovare canali espressivi socialmente accettati, può continuare a essere coltivata e diventare il perno attorno cui si plasma un'intera personalità, garantendo persino a chi la possiede fama, influenza sociale e incarichi notevoli. Viceversa, se una compagine caratteriale per nulla patologica presenta troppi elementi in contrasto con l'epoca e con la morale in cui è maturata, creerà all'individuo gravi difficoltà d'adattamento e di realizzazione personale.

Le aberrazioni del nazismo sono potute accadere non a causa della follia di Hitler e dei suoi collaboratori, ma a causa del loro potere. Allo stesso modo, ciò che ha portato alla deriva van Gogh non è stata la sua malattia mentale, bensì la sua povertà e il suo misconoscimento. Se van Gogh è vissuto e morto in maniera tanto sciagurata non è stato a causa dei suoi disturbi mentali, ma a causa della sua miseria. Quel che non mi stancherò mai di ripetere è che spesso, ora come in passato, le vere cause della sofferenza fisica e psichica di un essere umano (disoccupazione, povertà, analfabetismo, ignoranza, emarginazione sociale, assenza di aiuti statali, ecc.) vengono offuscate, mistificate e adombrate da questo falso mito della Follia.

In questo senso la figura del Folle, potente e archetipica, si attaglia perfettamente a quei processi affabulatori che traggono tutti i loro vantaggi nel delineare questa romantica parabola dell'artista fuori di testa che, rigorosamente postumo, raggiunge quotazioni da capogiro. Certo, è la stessa retorica di Walt Disney che, con la sua affabulazione melliflua e crudele, cavalca persino le disgrazie personali per far poi, a tempo debito, schizzare i valori alle stelle.

(Estratto da: La variabile umana, Eleuthera, 2019. Per gentile concessione della casa editrice.)

1 Jacques Lacan (1901/1981) è stato uno psicoanalista, psichiatra e filosofo francese.