Sono nato in ospedale, nel 1951 e subito dopo ho cominciato a conoscere la casa dei miei genitori, un uomo ed una donna innamorati e felici di aver fatto un figlio, uno dei tanti figli che portavano speranza dopo gli anni bui della dittatura e della guerra. Un figlio che, per la prima volta per le due famiglie di origine, non aveva né il nome di un nonno, né quello di un parente morto in guerra troppo giovane, ma un nome che metteva d’accordo tutti, Andrea, che nelle due famiglie d’origine non c’era mai stato. Una specie di rappresentazione del nuovo.

In via del Pratello 11, a Trieste, c’era (e c’è ancora) un pianerottolo per ogni rampa di scale, e ogni pianerottolo aveva due porte che portavano a due appartamenti. Uno con una camera, una cucina e un piccolo bagno, l’altro con due camere, una cucina e un bagno. Si saliva poi una rampa di scale e c’erano altri due appartamenti simili, e così via, fino al sesto piano, in tutto 24 appartamenti, una portineria, con una portinaia vera, e una misteriosa cantina sotterranea che i bambini non dovevano frequentare se non strettamente accompagnati (solo per aiutare le mamme a portare a casa la legna o il carbone per il fuoco).

Il fabbricato, chiamato “casa Stolfa”, dal nome del capomastro che l’aveva costruita ai primi del ‘900 sotto l’Impero austro-ungarico, aveva (ha) i muri perimetrali di pietra dura, gneiss, di uno spessore di almeno 50 cm, gli appartamenti con i soffitti alti, le finestre grandi, i panorami sulle case di fronte, un po’ lontane per i piani alti o inesistenti se ai primi piani. Quasi tutto in battuta di bora, per cui a Nord (come l’appartamento dove abitavamo noi, costava di meno) le doppie finestre facevano quello che potevano.

Un cortile con i bidoni delle immondizie, a terra le mollette cadute dalle mani delle signore che stendevano i panni su corde che andavano da una finestra all’altra e venivano usate in comune. Qualche gatto passava di là saltando un muro che dava su un giardino con ortensie e un piccolo orto. Quando qualche mamma faceva il ragù o il pesce fritto i gatti venivano attirati dal profumo e non venivano delusi, c’era sempre qualcosa pure per loro.

Noi, figli di quello che si sarebbe chiamato molto dopo “baby boom”, giocavamo in strada, una strada in leggera discesa, poche le macchine parcheggiate, davamo calci ad un pallone, disegnavamo sui marciapiedi lunghe piste per le gare con i coperchietti della birra, del chinotto, dell’aranciata, scendevamo a rotta di collo dentro dei carretti autoprodotti, frenando con i talloni. Si tornava a casa sudati e sporchi, ci si lavava a pezzi e ogni tanto in tinozze di zinco, con l’acqua calda che usciva da un pentolone messo sul bollitore a gas, o che si scaldava grazie alla stufa/cucina a carbone (sparhert), si mangiava e ci si cacciava a letto stremati, magari ascoltando la radiona che dava un programma di musica classica o una commedia con Ubaldo Lay e Lilla Brignone.

Nessuno, dei 24 inquilini della casa, chiudeva di notte la porta a chiave. La signora Teresa, la portinaia, controllava il portone e quando tornava dall’osteria il Gigi alle due di notte, sempre ubriaco, cantando e a volte bestemmiando incazzato chissà perchè, lo accompagnava a casa e lo affidava alla disperazione della moglie. Poi chiudeva il portone e lo riapriva alle sei, quando i primi operai (eravamo tutti famiglie di operai) cominciavano ad andare a lavorare, chi nel porto, chi nelle fabbriche, chi in ferrovia, chi, come il mio babbo, alla municipalizzata che distribuiva gas, acqua, elettricità e faceva andare i tram e le filovie. Lui, da tecnico di alta scuola, era uno di quelli della squadra qualificata (avevano le “mani d’oro”) che garantiva che tutto funzionasse meglio possibile per gli abitanti della grande città di confine, appena uscita dalle tragedie della guerra.

Quando nel 2014 Papa Francesco parlò di “casa comune”, via Pratello 11 mi fu subito presente e tornai a sentirla viva. Rumori, odori, sorrisi, musi, risate, giochi, occhi di signore, parole sussurrate o urlate, maschi in tuta che tornavano a casa dopo il lavoro, chiacchere sul pianerottolo, passi strascicati in su ad ogni gradino, corse sfrenate in giù di noi bambini, aggrappati al corrimano sostenuto da ferro battuto dipinto e ridipinto, scalini fatti a due a due, e quelli con le gambe lunghe a quattro a quattro, con una mamma che usciva dalla porta gridando di non far confusione che il marito aveva fatto la notte e dormiva. Diceva proprio confusione, non “casino”, che, assieme a ben altre parole che si sentono oggi alla televisione, era una parola tabù. Era una casa di gente povera, spesso piena di figli (una famiglia ne aveva sei), o con la nonna a carico che viveva assieme a loro, come la famiglia Gardini, ma era una casa dignitosa.

Le scale erano ben lavate e sapevano ogni tanto di varechina, le mura delle rampe non erano griffate, ma si dipingevano a olio per i due metri in basso ogni tre quattro anni, le porte d’entrata dipinte in verde vagone (pittura “trovata” in ferrovia), la misteriosa cantina ben tenuta, ordinata, odore di legna, carbone e piscio di topo, le luci delle scale con le lampadine funzionanti, anche per evitare che Gigi, in piena, inciampasse e cadesse alle due di notte e si facesse male, che l’indomani mattina doveva andar a lavorare in ferrovia per far studiare il figlio Roby, bravissimo ragazzo con ciuffo che ballava il rock and roll importato dagli americani, che occupavano la città.

In un posto così non ci si prestavano solo le cipolle, ma ci si spartiva il mangiare, gli avanzi di pasta e fagioli finivano sulla tavola del vicino vecchio e solo (non avevamo il frigorifero, ancora) si metteva in comune la spesa, se qualcuno si fosse ammalato ci sarebbe stato sempre qualcun altro che gli dava una mano, e il medico condotto non si faceva pagare mai. Era una “casa comune”. Certo non era tutto bellissimo, ma il senso di comunità era quello che ci mancò di più quando ci spostammo in una casa strutturalmente migliore, più “sana”, con luce e vista fino al mare, al compimento dei miei sette anni. In quell’altra casa le porte si chiudevano a chiave di notte, e c’era chi voleva prima di tutto far rispettare gli articoli del regolamento condominiale. Non ho mai sopportato i regolamenti, dopo. Anche adesso.

Si era allora in pieno boom economico in via Pratello una famiglia si era fatta la macchina, una 1100 grigia, con le gomme cerchiate di bianco. Pian piano, facendosi fare dei prestiti e il doppio lavoro, le famiglie si compravano casa, arrivavano le cucine di legno pressato rivestito di fòrmica, sparivano i tavoli di marmo e le sedie di legno, sparivano le stufe economiche a legna e a carbone, sostituite dal riscaldamento autonomo a gasolio o a gas, comparivano i primi frigoriferi, le prime lavatrici a liberar le donne dalla fatica del lavare le lenzuola nella tinozza, i televisori sostituivano le radione, che a loro volta venivano sostituite dalle radio a transistor giapponesi, le penne BIC sostituivano pennino, inchiostro e relative dita nere, la meraviglia della plastica infrangibile (Moplen!! “gloria” tutta italiana) sostituiva la pesantezza dello zinco o della ceramica povera. I giocattoli di legno pian piano si lasciavano sostituire da quelli di plastica, o di peluche. Pian piano aumentavano le immondizie. In centro città si respirava aria malata, noi piccolini, all’altezza dei tubi di scappamento, respiravamo direttamente quella puzza e imparavamo i rumori dei motori 600 Fiat, Volkswagen maggiolino, moto Guzzi, Vespa, Lambretta, ognuno faceva un suo rumore e una sua puzza. Fra nostri genitori quelli che lavoravano in fabbrica si ammalavano di polmoni, malattie che venivano attribuite alle sigarette, abbondantemente reclamizzate nei film americani. Clark Gable, Humphrey Bogart, Gary Cooper e molti altri morirono precocemente per malattie correlate al fumo di sigaretta. Ma la nocività in fabbrica c’era. Si barattava con qualche lira in più, che c’erano le rate o il mutuo da pagare, come se la salute fosse un bene commerciabile, barattabile con qualche lira. E questo succedeva in tutto il mondo che si stava sviluppando dopo la guerra. Jacques Cousteau e i coniugi Denis ci mostravano nei documentari alla televisione, dopo la TV dei ragazzi e Ivanhoe, Rin Tin Tin, Lassie, quell’altro mondo, mari e savane incontaminate, ricche di animali selvaggi, pulite, misteriose.

Solo dopo il viaggio di Armstrong, Aldrin e Collins il 20 luglio ’69 e le fotografie che portarono indietro ci rendemmo conto che il nostro Pianeta, la Terra che ci ospitava, era una palla azzurra in mezzo all’apparente vuoto cosmico, una palla brulicante di vita. E noi dentro, con un nuovo aggettivo, creato nel secolo passato e mai prima usato nella storia umana: “consumatori”.

È forse questo aggettivo, funzionale a sorreggere l’economia del consumo (del pianeta), la ricchezza di pochi e le disuguaglianze per troppi, che, dopo cinquant’anni di consumi globali, sta modificando il clima, riducendo la biodiversità, sporcando di plastica e di radioattività giapponese gli oceani, di rifiuti il suolo, di carbone l’aria.

Un esempio storico, più in piccolo, lo abbiamo avuto, in tempi recenti nell’isoletta di Rapa Nui, nel mezzo dell’Oceano Pacifico meridionale. Ci sbarcò l'olandese Jakob Roggeveen, la domenica di Pasqua 1722 e divenne, per i colonizzatori europei, l’Isola di Pasqua. La trovarono brulla e inospitale. Gli studi successivi scoprirono una realtà passata ben diversa. L’isola era stata popolata e ricoperta totalmente per millenni da una palma ad alto fusto e da una lussureggiante vegetazione tropicale. Sembra che l’uomo la colonizzò venendo dalla Polinesia prima che dall’Europa e che pian piano le popolazioni polinesiane uscirono dall’equilibrio con l’ambiente isolano abbattendo le palme per gli usi consueti che si fa del legno, dalle piroghe, al fuoco, ai rulli per trascinare gli enormi Moai, le statue caratteristiche dell’isola forse utilizzate per motivi rituali. In breve epidemie e lotte fra tribù decimarono la popolazione. Un paradiso di palme, uccelli, acqua divenne una prateria sterile. Gli europei fecero il resto, importando capre, maiali, sifilide, influenza, altre malattie e imprigionando i superstiti portandoli come schiavi in Perù. Dove si presero la lebbra e poi liberati e portati indietro nella loro isola, la resero endemica.

C’è chi dimostra che continuando a consumare il pianeta Terra, isolato nell’universo come Rapa Nui nell’Oceano Pacifico, la nostra casa comune farà la stessa fine dell’Isola di Pasqua.

È possibile evitare questo esito mortale per la nostra specie e per quelle che ci accompagnano nella biosfera in questo momento della storia della Terra. Il nostro pianeta continuerà ancora per milioni di anni le sue rivoluzioni attorno al Sole qualsiasi cosa accada a noi, e si rigenererà dopo il disastro che stiamo creando. Gaia, l’essere vivente che ci ospita, ha avuto nel corso dei suoi milioni di anni di vita, molte disavventure. Noi, consumatori, che siamo diventati i suoi parassiti più pericolosi, siamo solo l’ultima. Passerà anche questa. Si stanno però infittendo gli appelli ai governanti di garantire tutela alla nostra casa comune.

I leaders spirituali come Papa Francesco, il Dalai Lama e il Metropolita di Costantinopoli sono in prima fila in questi appelli.

I giovani sembrano risvegliati a pretendere il proprio futuro assieme a Greta Thunberg. Folti gruppi di studiosi di tutto il mondo studiano, misurano e controllano i cambiamenti climatici, le perdite di biodiversità, le malattie umane e animali (fra cui la SARS-Covid-19) che sono la conseguenza della scarsa cura, dello sfruttamento senza equilibrio, e per il vantaggio di pochi, della nostra casa comune.

I contadini del mondo, assieme a Terra Madre rifiutano i modelli dominanti e distruttivi della produzione di cibo industriale e assieme a Carlo Petrini ed a Slow Food lottano per cambiare modello economico.

Ci siamo accorti tutti che l’etichetta di “consumatori” alla lunga ci sta facendo comportare come le antiche popolazioni di Rapa Nui, e in tempi brevi quello che è avvenuto su quell’isola potrà occorrere su scala planetaria. E sta già succedendo oggi.

Che cosa possiamo fare? Cominciamo con il farci chiamare “persone” o “comunità”, invece di “consumatori”. Rifiutiamo questa etichetta riduttiva, degradante.

Sarebbe come il primo passo di Armstrong sulla Luna: “…un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per il Pianeta e il supporto alla vita nella nostra casa comune.”