Ieri mattina ero in spiaggia e approfittando dell'attimo in cui ero momentaneamente riemersa dal libro che stavo leggendo (Americanah, Chimamanda Ngozi Adichie) per immergermi nell’Egeo, uno sconosciuto in vena di chiacchiere ha pensato bene di dare inizio alla tremenda procedura delle “due chiacchiere”.

È quindi iniziata la solita serie di domande uscite direttamente dalle profondità degli abissi della banalità (“Bel tempo, eh? Di dove sei? Prima volta a Naxos?”) e risposte monosillabiche (“Già. Italia. No.) che a me sembravano sufficientemente scoraggianti: invece il tizio, con l’aria di farmi una grande concessione o rivelarmi il settimo segreto della Madonna di Fatima, ha tirato fuori il suo asso dalla manica annunciandomi: “Sei una bellissima donna”.
E io ho automaticamente dato inizio alla procedura profil bas, chinare la testa, sgattaiolare, con un sorriso da pubblicità di una protesi dentaria attaccato alla faccia e la mandibola contratta, che rischio di spaccarmi un molare.
E giuro, ho borbottato: “Grazie.”

Qualcuno mi spieghi, cosa fa credere ad un perfetto sconosciuto di avere il diritto a questo tipo di commento demenziale e fuori luogo?
Ma soprattutto, perché mai mi ritrovo a sopportare una situazione del genere?
Perché sopportare è più mimetico che rispondere “ma come cavolo ti viene in mente di dire una idiozia del genere?” o “ripetilo e ti tiro la sabbia negli occhi, cretino”.
Ma soprattutto perché una risposta così surreale ed una reazione così poco “mia”?
Bella domanda.
E se per caso aveste pensato che non è un commento a sfondo sessuale, spiegatemi come mai ad un uomo non lo avrebbe mai detto.

Era il 1979, ero in quella specie di fenditura che divide l’infanzia dall’età adulta: l’inizio dell’adolescenza.
La televisione (una RAI d’epoca, che in quell’anno inaugurava la sua terza rete) trasmise un documento che resta ancora agghiacciante: si chiamava “Processo per stupro”.
Mi ricordo ancora la sensazione che provai, la gola chiusa, l’adrenalina, la rabbia, la paura, la sensazione che la temperatura si fosse improvvisamente abbassata. Fino a quel momento avevo una ingenua fiducia nella giustizia che mi portava a credere che in un processo del genere ci fosse solo da stabilire quanto grave sarebbe stata la pena per gli imputati, quattro quarantenni che avevano abusato di una ragazzina di 18 anni.
Invece mi trovai ad assistere impietrita ad un processo in cui gli avvocati che difendevano i colpevoli attaccavano la vittima con lo scopo di screditane la credibilità: era la a parte lesa a diventare di fatto imputata in un processo in cui subiva una seconda, feroce violenza.
Gli imputati vennero condannati a poco più di un anno di carcere, ma usufruirono della condizionale e vennero immediatamente rilasciati.

Questa è una trascrizione dell’arringa dell’avvocato Giorgio Zeppieri, difensore degli stupratori.
Ripeto: è la difesa dei quattro quarantenni che avevano violentato una ragazzina di diciott’anni.

Che cosa avete voluto? La parità dei diritti. Avete cominciato a scimmiottare l'uomo. Voi portavate la veste, perché avete voluto mettere i pantaloni? Avete cominciato con il dire: “Abbiamo parità di diritto, perché io alle 9 di sera debbo stare a casa, mentre mio marito, il mio fidanzato, mio cugino, mio fratello, mio nonno, mio bisnonno vanno in giro?”. Vi siete messe voi in questa situazione. E allora ognuno purtroppo raccoglie i frutti che ha seminato. Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l'avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente.

Era il 1979, non il medioevo.

Mi ricordo di averne parlato con delle mie coetanee nei giorni successivi, quasi tutte dicevano che se fosse capitato a loro non avrebbero sporto denuncia; io non avrei saputo cosa fare. A volte penso che non lo saprei neppure oggi.

Non so se riuscite a immaginare o se ricordate cosa significhi entrare nella vita scoprendo di essere prede, potenziali vittime, e rendersi conto allo stesso momento che la legge non vi garantisce di ottenere giustizia, e che per tentare di ottenerla dopo uno stupro bisogna sottoporsi ad un processo dove la propria vita privata verrà violata e l’accusa tenterà di dimostrare che soffrite di una forma di perversione per cui essere violentate “vi è piaciuto”. E che ve la siete cercata.

E allora qual era la mia e nostra risposta di adolescenti? Profil bas, chinare la testa, sgattaiolare: di fatto subire; imparare a fuggire e nascondersi, incrociare le dita, stringere i denti.
Far finta di niente.
L’imprinting è stato così forte che evidentemente non me ne sono ancora liberata.

Non ce ne siamo ancora liberati collettivamente, se consideriamo il fatto che la violenza sulle donne è millenaria ma la parola femminicidio è un neologismo.
È stata coniata all’inizio degli anni ’90 da due studiose americane, la criminologa Dina E. H. Russel e la professoressa Jane Caputi, esperta nello studio della cultura americana contemporanea: prima di allora la morte violenta di donne, ragazze e bambine a cause della violenza maschile non aveva nome.
Ciò che non ha nome non esiste, ciò che non può essere nominato resta nascosto, le donne sono state vittime di una violenza priva nome, per secoli questa sorta di anonimato ha aiutato a nascondere una strage silenziosa, che causa ancora migliaia di vittime in tutto il mondo.
I dati sono spaventosi, nel nostro Paese lo scorso anno sono state uccise 73 donne, principalmente da mariti ed ex fidanzati: l’assassino faceva parte della cerchia famigliare delle vittime, cioè si trovava all’interno di quell’ambiente che in teoria avrebbe dovuto proteggerle.

Non dimentichiamo che nel nostro Paese fino al 1981 il delitto d’onore - retaggio del fascismo - prevedeva pene più attenuate per i reati di omicidio e lesioni personali quando la motivazione veniva attribuita ad un oscuro quanto mostruoso diritto alla difesa dell’onore da parte dell’assassino.
Attenuanti, giustificazioni, omertà hanno per secoli coperto la violenza sulle donne e il femminicidio che oggi restano drammaticamente attuali, come nella violenza di genere resta drammaticamente attuale il tentativo di giustificare l’aggressore colpevolizzando la vittima.

Come non esiste una società al mondo che non sia fondata su regole stabilite da uomini, la violenza che le donne subiscono non conosce confini, è diffusa capillarmente in tutto il pianeta ed il motivo è semplice: non esiste luogo al mondo che non sia governato da regole fatte da uomini e in cui la visione che regola la vita sociale non si fondi su un punto di vista dominante, quello maschile.
Ancora oggi troppo spesso le donne che hanno accesso a ruoli chiave sono quelle pronte e disposte ad emulare gli uomini: è emblematico il fatto che la prima donna in Occidente a guidare il governo di un Paese sia stata Margaret Thatcher.

Ma oggi – finalmente - esiste un esempio di leadership totalmente diverso, che ha contrapposto in modo straordinario una visione nuova e femminile ad una politica vecchia e maschile: quello della prima ministra neozelandese Jacinda Ardern.
L’ingresso di donne come lei che promuovono valori femminili e femministi come l’integrazione, l’eguaglianza, la tolleranza e la partecipazione rappresenta il possibile cambiamento e la possibile soluzione, perché è solamente un cambiamento radicale che ci permetterà di eradicare la violenza a cui noi donne siamo soggette e di eliminare il disagio che noi tutti e tutte viviamo a causa dell’oppressione emotiva e sociale degli stereotipi di genere.
Abbiamo ancora molta strada da fare, ma ci sono segnali di cambiamento che ci aiutano a continuare a credere e a lottare, e a sperare che in un futuro non troppo lontano cui altri leaders mondiali pronuncino le parole di Jacinda Ardern:

Noi rappresentiamo la diversità, la gentilezza, la compassione. Siamo e rimarremo un rifugio per chi condivide i nostri valori.