Igor Polesitsky potrebbe essere il protagonista di un romanzo di uno dei fratelli Singer. Di Isaac, di Israel o di Esther? Di Israel che, forse, era il più grande. Il titolo del libro sarebbe Igor Igor perché Polesitsky è una tradizione viaggiante, Igor, e un uomo contemporaneo, Igor, e le due anime si fondono senza attriti, al suono della sua musica. Prima viola dell’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino dal 1983, fondatore della Klezmerata Fiorentina (2005), Polesitsky è nato a Kiev ed è “figlio”dei Singer, della cultura ebraica dell’Europa orientale: “Sì, sono proprio il risultato di quel mondo”.

Spiritoso, intenso, entusiasta, per niente stupefatto dalle giravolte della vita, consapevole che tutto può accadere e tutto si deve affrontare, Polesitsky siede su una panchina del giardino dell’Opera di Firenze, in un giorno arroventato al quale sembra non fare caso, e il suo racconto scorre impetuoso, senza mai alluvionare. Al padre, che è stato cacciato via quando lui aveva due anni, è grato per aver cambiato il nome da Isaac ad Alessandro affrancando il figlioletto dall’immediata riconoscibilità ebrea che, si sa, rende le situazioni più ardue. Per la stessa ragione, quando era piccolo, in casa gli parlavano in russo: “Lo yiddish come prima lingua ha una cadenza che ti qualifica subito come ebreo. La mia non era una famiglia di eruditi, i nonni parlavano yiddish fra loro e con me in russo. La lingua yiddish non è traducibile: il significato è nell’intonazione. Si dice abitualmente che è collegata al tedesco e questo è vero dal punto di vista grammaticale e lessicale, con un misto di ebraico antico e parole slave, però come espressività non ha nulla a che vedere con il tedesco, e la struttura è slava. Non è una lingua rigida, ti dà la possibilità di esprimere con due parole una molteplicità di concetti. Non capisci nello stesso istante dove sono il buffo e il tragico”.

Quando ha cominciato con la musica?

Sono figlio unico e ho avuto un’infanzia felicissima, i miei erano premurosi con me, stavamo in una sola stanza, alla maniera sovietica, ma non c’era nessun problema perché non sapevamo che cosa fosse la comodità fisica. A sei anni ho cominciato a studiare musica, ma avevo cominciato a cantare a un anno e mezzo. Prima di parlare, ho cantato: cantavo ogni canzone che mi chiedevano e pensavano di avere un altro Mozart in casa (ride n.d.r.)! Mamma era la prima intellettuale della famiglia: faceva filologia e letteratura russa all’università e lavorava come segretaria in una scuola di musica eccezionale, per farmi studiare. Ho avuto un maestro molto bravo, diventato un padre, come spesso succede in Russia con il maestro di musica: si chiamava Grigory Yampolsky, appartenente a una stirpe di straordinari musicisti.

Ha avuto una doppia formazione, classica e klezmer?

Al tempo non capivo che era una doppia formazione: mi sentivo un musicista classico. Ma sì, ho imparato a suonare il violino in due modi. Da una parte la scuola severa, collegata con il testo musicale: il metodo di insegnamento russo è strutturato, inflessibile, tutti devono fare quello che si deve fare e basta. La nonna invece era una specie di cantante popolare, sapeva una quantità di canzoni e melodie ebraiche, molto antiche, della zona dei fratelli Singer, e le amava molto. Ero il tipico bambino che si faceva esibire su una sedia alle feste per i parenti, quelli rimasti perché gli altri erano stati ammazzati. La prima sonatina che eseguii era di qualcuno, di un compositore importante, ma a loro non piaceva quel repertorio e allora quasi subito mia nonna mi insegnò musiche yiddish. Il suo modo di insegnare era klezmer ovvero il sapere che si tramandava da generazione a generazione, però mi avvisava: studia studia sul serio, sennò diventi un musicista klezmer. Per lei i klezmori erano quei tipi che suonavano ai matrimoni, anche se le piacevano. È un modo opposto di vedere la musica. Per un musicista classico l’intonazione è precisa, collegata con il sistema armonico e non c’è da scegliere: intonato o stonato. L’intonazione è legata all’armonia. Nella musica yiddish è collegata alle scale e può cambiare nello stesso pezzo. Se all’esecutore pare più espressivo fare una nota stonata, la fa. La nonna se mi cantava una melodia, la cantava stonata. Nel modo espressivo klezmer la stonatura è quello che ci vuole, la musica parte dal suono e dall’espressione che vuoi provocare: l’idea è rompere il cuore dello spettatore. Nella musica occidentale no, c’è il collegamento con la matematica che corrisponde all’immenso, fin dai Greci. Suscitare gioia, dolore, far piangere, far ridere è l’essenza della musica ebraica e zingara. Niente intelletto, e deve essere così perché per i klezmori la musica è da cerimonia e alle nozze non suonano solo balli, ma musica di rito, con le stesse scale di quella sinagogale anche se il rito sinagogale non prevede musica klezmer. Klezmer non è popolare, non è folk, come la musica dei contadini raccolta da Bartok in Ungheria: i klezmori erano professionisti, nell’impero russo entravano in conservatorio, nelle orchestre e si trova una varietà incredibile di etnie ebree nella musica classica russa. Un ebreo non convertito in Russia non poteva andare all’università ma in conservatorio sì perché Leopold Auer, fondatore della scuola di San Pietroburgo, certo non aveva un sentimento antisemita. La cultura russa, secondo me, è profondamente europea, profondamente innestata con l’Europa, l’esotismo russo è un fantasma, la Russia separata dall’Europa è una finzione ed è pericolosa, permette svolte autoritarie di destra o della sinistra destroide. È andata male nella storia russa non perché c’era troppa Europa, ma troppo poca.

Ci descrive sua nonna?

La mamma, che aveva solo diciotto anni più di me, era quasi un’amica. La nonna era progressista, anti-religiosa, da ragazza aveva fatto teatro in Bielorussia, vicino Minsk, nei luoghi di Chagall e delle Avanguardie, leggeva tanto e il suo yiddish era letterario, bellissimo. Credeva nella cultura come espressione del popolo, per lei la spiritualità Hassidim era un ritorno al passato. Allo stesso tempo era inzuppata di superstizione e leggende, temeva il malocchio. Io pensavo che se avessi mangiato carne e latte insieme avrei avuto un’esplosione nello stomaco. Una persona complessa che rifiutava la tradizione dov’era immersa. Non mangiava i frutti di mare. L’amore fra mia madre e mio padre era finito, ma la goccia che fece traboccare il vaso fu… un mollusco. Un giorno mio padre andò a fare la spesa, con dieci rubli, e tornò con tante scatole di seppie sott’olio. È una specie di pesce, spiegò, e quando una scatola fu aperta, sulla nostra tavola apparve la cosa più disgustosa del mondo.

Quando ha lasciato Kiev?

A diciannove anni sono andato in America per il funerale della mamma che era lì per curarsi e sono rimasto. Ho studiato a Filadelfia, alla Curtis che è più elitaria della Juilliard ed era gratuita: a te chiedevano il tuo meglio, eravamo solo 150 e sono stato molto fortunato. All’epoca Riccardo Muti era direttore del Maggio, conosceva bene la Curtis, ero prima viola lì e mi propose di venire a Firenze. Sono ancora qui e felicissimo di esserlo. Io volevo vivere in Europa. Fra tutti i posti in Europa l’Italia è l’ideale e Firenze è l’ideale in Italia, anche perché sono sempre stato legato all’arte, soprattutto a quella del Trecento e del Quattrocento.

Nel 2005 ha fondato la Klezmerata fiorentina.

Ho cominciato a interessarmi seriamente alla musica yiddish negli anni Settanta a Filadelfia dove vivevamo in in un’enclave russo-ebraica nella parte nord della città e non sapevo che, all’epoca, a New York era in piena fioritura la Klezmer Renaissance, collegata a una cultura di sinistra. Guadagnavo cento dollari al giorno, che erano tantissimi soldi, suonando quattro sere alla settimana in un ristorante kasher che non esiste più, con un fisarmonicista a bottoni di San Pietroburgo, geniale, e uno zingaro ungherese al contrabbasso che aveva due famiglie, ignare l’una dell’altra. Il trio si chiamava Isaak Babel e faceva di tutto senza provare mai: musiche da Odessa a New York, jazz anni Venti, musica da film, musica ungherese, le mie cose di bambino. Guadagnavo di più con questa roba che con l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino. Mia nonna non capì perché avevo accettato l’offerta di Muti. Ero a Firenze da dieci anni e quando ho incontrato la cantante Faye Nepon e il pianista e compositore Joel Hoffman e con loro ho partecipato a una registrazione di canzoni ebraiche del quale lui faceva gli arrangiamenti: avevano saputo che c’era c’è un musicista ebreo russo al Maggio e mi cercarono. Io stavo già studiando per conto mio l’archivio di un etnomusicologo che era andato da shtelt a shtelt in Ucraina a raccogliere musica yiddish, un archivio poi disperso fra Kiev e San Pietroburgo e ricompattato dagli americani negli anni Ottanta (canzoni e alcune musiche strumentali) e negli anni Novanta (tutte le musiche strumentali). Studiavo, suonando per me le melodie. Poi ho fatto concerti dappertutto con Mario Grossi e Faye Nepon: un’operazione di trasformazione della musica. Infine la Klezmerata Fiorentina.

Riccardo Crocilla, clarinetto, Francesco Furlanich, fisarmonica, Riccardo Donati, contrabbasso. I componenti della Klezmerata sono tutte prime parti dell’Orchestra del Maggio, musicisti estranei alla tradizione klezmer. Li ha travolti?

La Klezmerata nasce dal sogno di fare musica da camera diversa, basando un pensiero musicale non sulla scrittura ma sulla melodia, prendendo uno stile, un ritmo eliminando l’elemento dell’occhio. I musicisti occidentali, dagli ultimi trecento anni, si basano sulla scrittura, ma in passato no: s’improvvisavano le cadenze. Ai tempi di Bach, Corelli, Haendel c’erano tante parti di movimenti lenti ed erano scritte note lunghe il che vuol dire che il musicista poteva fare altro in quel tempo a disposizione.

Ricordi klezmer molto particolari?

Ho avuto il grande privilegio di lavorare con Luciano Berio alla sua ultima opera, Cronaca del Luogo, al Festival di Salisburgo del 1999: aveva scritto per me una parte solistica molto difficile, amava i miei “trucchi” e dovevo suonare la sua musica atonale contemporanea in modo klezmer. Era contento della mia interpretazione del suo testo e mi disse: “Fantastico, adesso vai a casa a scrivere quello che fai”. Ero così felice di mettere mano alla partitura di Berio e spiegai dettagliatamente con i segni quello che avevo suonato. L’indomani, al risveglio, rileggendo la partitura non riuscivo a suonare nemmeno una nota, e anche un amico molto bravo confermò che non era suonabile. Era oscena! Confessai al maestro Berio che l’unica soluzione era registrare quando suonavo. Gli andò bene lo stesso perché era interessato al risultato, non a come ottenerlo” Il regista Jonathan Miller, mio caro amico, non sapeva che mettere nel Giardino dei ciliegi quando Cechov scrive di musicisti che suonano le danze alla festa dei piccoli nobili decaduti. Ho suggerito danze non ebraiche, polke, valzer, mazurke, da eseguire con un organico ebraico: clarinetto, violino, un basso”.

Le culture si intrecciano…

“Tchaikovsky era antisemita, come tutti all’epoca. Ogni estate andava nella tenuta della sorella e in una lettera scrisse che dalle finestre vedeva tutta la sporcizia dello shetlt, ma alle feste ballava e si divertiva come un matto. Il secondo movimento del concerto per violino è influenzato dalla musica ebraica, quel sentimento fortissimo non viene dalla musica russa. Lui si scandalizzerebbe, eppure è vero”.